Un mese fa ci ha lasciato Vladimiro Zagrebelsky: un collega e amico con cui ho condiviso un largo tratto del comune percorso in magistratura. Vicini di casa a Gressoney la Trinité, ci eravamo lasciati martedì 5 agosto verso le 13, con l’impegno di proseguire più tardi i nostri consueti scambi di opinione su vicende di giustizia. Un dialogo bruscamente interrotto.
Impegnati entrambi nell’associazionismo giudiziario, ci trovammo eletti insieme nel Consiglio Superiore della Magistratura del 1981. Vladimiro Zagrebelsky è stato l’estensore della sentenza della Sezione Disciplinare Csm sui magistrati incolpati di appartenenza alla Loggia P2 emessa, dopo un travagliato iter processuale, l’8 febbraio 1983. Dei tredici incolpati, quattro sono prosciolti e nove condannati, due alla rimozione, uno alla perdita di anzianità di due anni e trasferimento d'ufficio, due alla censura e al trasferimento d'ufficio, quattro alla censura. E’ il periodo di reiterati attacchi contro il Csm, che arrivano al punto di cercare di provocarne lo scioglimento.
Mentre è in corso la redazione della motivazione della sentenza, la Procura della Repubblica di Roma invia comunicazione a tutti i componenti elettivi del Consiglio, nonché ai due membri di diritto, presidente e procuratore generale della Cassazione, da poco collocati a riposo, che il suo ufficio procede nei loro confronti per peculato in relazione alla banale “vicenda dei caffè”. Il procuratore della Repubblica di Roma l'11 marzo ne dà notizia al Presidente Pertini. Diversi osservatori ritengono che al Presidente non resti che sciogliere il Consiglio. Pertini non è di questo avviso: convoca e presiede una seduta del Csm il 15 Marzo 1983 e comunica che, dopo aver consultato i presidenti delle Camere e il Comitato di Presidenza del Consiglio, ha deciso di non porre all'ordine del giorno la sospensione dei componenti inquisiti «stante la natura facoltativa della decisione da assumere». Nelle ore immediatamente successive si diffonde la voce che il procuratore di Roma si accinga a replicare emettendo contro i consiglieri inquisiti ordini di cattura. Non accadrà: il giorno dopo la seduta del Csm presieduta da Pertini, viene depositata la motivazione della sentenza. L’ indagine sulla questione dei caffè si concluderà con la sentenza del 12 luglio 83 di proscioglimento pieno perché il fatto non sussiste, ma solo dopo la grave situazione di tensione che era stata creata.
La motivazione della sentenza disciplinare del Csm, redatta in tempi ristretti e con serrate argomentazioni da Vladimiro Zagrebelsky, si segnala anche per gli approfonditi accertamenti sull'attendibilità complessiva degli elenchi sequestrati a Castiglion Fibocchi. A fronte di vari tentativi di far passare la tesi che gli elenchi degli iscritti e i documenti sequestrati a Gelli sarebbero privi di qualunque attendibilità, la sentenza afferma: «nell'ambito di competenza di questa sezione disciplinare e con riferimento alla posizione degli incolpati, invece, è stata riscontrata l'attendibilità delle liste e della documentazione[1]». La relazione della Commissione parlamentare presieduta dall’on. Tina Anselmi fa riferimento proprio agli accertamenti svolti dalla sezione disciplinare del Csm, concludendo per la autenticità e l'attendibilità dell’elenco delle liste degli iscritti, che rappresenta, secondo il commissario Sergio Mattarella «la vita della Loggia».
Una pagina non minore della storia della nostra Repubblica ha visto protagonista, con il Csm, il consigliere Vladimiro Zagrebelsky. La magistratura, unico esempio nella pubblica amministrazione, mostra la determinazione di intervenire con fermezza nei confronti dei propri appartenenti.
Due anni dopo fu quel Csm ad aprire all’esterno quella che oggi viene polemicamente definita la «giustizia domestica» introducendo il principio di pubblicità delle udienze disciplinari. Come supplente intervenni in quel collegio e verosimilmente, come componente più giovane, scrissi materialmente a mano l’ordinanza letta in udienza. Ricordo che si fece riferimento, e lo spunto fu di Vladimiro, ad una Sentenza della Corte Europea di Strasburgo emessa in relazione ad un procedimento disciplinare nei confronti di un medico. La pubblicità che successivamente in un “circolo virtuoso” fu recepita dal Parlamento a livello di legislazione primaria, ormai da quarant’anni consente anche al grande pubblico (con la ripresa e diffusione delle sedute della sezione disciplinare) di “controllare”, se del caso criticare, come viene gestita la disciplina dei suoi giudici.
Vladimiro fu eletto per una seconda volta al Csm nel 1994. Si candidò, allora come nel 1981, in una lista di “corrente”. Le “correnti” non sono altro che libere associazioni di magistrati che fanno riferimento ad una comune visione dei problemi di giustizia. Vladimiro ed io siamo stati “militanti” di correnti, tra l’altro di correnti diverse. Dei pregi e limiti dell’associazionismo giudiziario entrambi sin dalla prima esperienza del 1981 abbiamo proposto analisi, anche severe sui momenti di caduta.
In un intervento su La Stampa del 1° marzo di quest’anno, Vladimiro ha visto il nucleo essenziale della riforma costituzionale della giustizia proposta dal Governo nella ridefinizione del ruolo del Csm, con «lo sdoppiamento e la previsione che i magistrati che li comporranno non siano più eletti dalla magistratura, ma sorteggiati. Sorteggiati e quindi in nessun modo rappresentativi della magistratura nella sua complessità e varietà di orientamenti. Si dice che si vuol combattere l'influenza delle correnti esistenti in magistratura. In realtà si combatte il pluralismo dei modi di vedere, il ruolo dei magistrati, il funzionamento degli uffici giudiziari. E si dice che si vuole contrastarne la “politicizzazione” (di coloro che dispiacciono la maggioranza politica)[2]».
Osserva ancora Vladimiro: «L'indipendenza della magistratura è una condizione dello Stato di diritto e richiede attenta regolamentazione delle funzioni che sono attribuite sia ai giudici che ai pubblici ministeri. L'indipendenza di questi ultimi condiziona quella della funzione giudiziaria nel suo complesso. In tal senso si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, proprio con richiamo ai principi propri dello Stato di diritto». Posizione netta, ma subito dopo invita a riflettere, fuori di schemi preconcetti, sui problemi aperti sul ruolo del Pm e l’organizzazione degli uffici di Procura. Un tema oggetto di attenzione da parte di Vladimiro sin dai primi anni Novanta con scritti e con la famosa Circolare sulle priorità.
Ho citato un recente articolo su La Stampa: una dozzina ne ha pubblicati in questo anno e meritano di essere riletti. Sono la testimonianza dell’impegno e della passione civile di Vladimiro che propone al grande pubblico, ai non specialisti, temi spesso complessi. Un intento divulgativo troppo spesso trascurato nel nostro paese; particolarmente preziosi gli articoli in cui Vladimiro, dopo la sua esperienza di giudice della Corte Europea dei Diritti Umani, ha affrontato le tematiche europee ed internazionali. L’ articolo pubblicato il 2 agosto commentava la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europa sulla interpretazione da dare alle norme sulla nozione di “paese sicuro”.
Gli interventi su La Stampa vanno dalla critica al Parlamento che non interviene sul fine vita, all’«ultimo grave, provocatorio atto di Orban. Invece di dare esecuzione all'ordine di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del capo del governo israeliano, egli non solo lo ha ricevuto a Budapest, ma ha annunciato l'inizio della procedura per portare l'Ungheria fuori del sistema che ha creato la Corte» (6 aprile). Vladimiro ha ricordato che «I detenuti, il rispetto e la fratellanza verso di loro sono stati un tratto costante del pontificato di Papa Francesco», aggiungendo: «E’ missione degli studiosi mantenere fermi i principi e riconoscere sempre la fondamentale dignità delle persone» (1° maggio). Di fronte alla ripresa delle esecuzioni disposta da Trump scrive: «Il divieto della pena di morte è un fatto centrale nella definizione della cultura e dell’etica umanistica europea» (23 gennaio). La tutela dei diritti umani, la «lotta per i diritti, in particolare i diritti che derivano dal rispetto della dignità umana» (11 gennaio) sono temi ricorrenti. L’ultimo intervento è stato sui diritti legati all’ambiente. Nascono nuovi diritti e si ha l’impressione che i governi che sottoscrivono convenzioni mostrino «sorpresa quando poi vi è chi si rivolge ai giudici per ottenere che alle parole seguano i fatti. E che le controversie siano sciolte dai giudici». I diritti vanno presi sul serio, è stato detto, ma ciò esige uno Stato di diritto.
Quando di fronte a decisioni di giurisdizioni europee o di giudici italiani, dai Tribunali fino alle Sezioni unite della Cassazione, nostri vertici governativi hanno rivendicato per il «governo eletto il diritto di non essere impedito da giudici non eletti», Vladimiro replica: «Con poche parole il governo ha respinto ciò che da secoli in Europa è proprio dello Stato di diritto e della democrazia» (9 marzo).
Questo richiamo allo Stato di diritto è più che mai di attualità. Con la ripresa dell’attività parlamentare si va alla seconda lettura alla Camera della riforma costituzionale della giustizia, in una corsa verso l’approvazione definitiva e il referendum. E’ più che mai evidente che il nodo centrale non è la separazione delle carriere tra giudici e pm, ma il «riequilibrio tra potere politico e potere giudiziario».
Il Ministro Musumeci il 31 agosto ha lanciato l’invettiva sul magistrato killer e il correlativo attacco alla stampa. Linguaggio inaccettabile, ma non è estemporanea sortita di un ministro. Il concetto della politica del governo come espressione della volontà popolare libera da ogni vincolo e controllo è stato ribadito dalla Presidente Meloni al recente Meeting di Rimini: «Ogni tentativo che verrà fatto di impedirci di governare il fenomeno dell'immigrazione illegale verrà rispedito al mittente. Non c'è giudice, politico, burocrate che potrà impedirci di garantire la sicurezza dei cittadini, di combattere gli schiavisti del terzo millennio e salvare vite umane». Enfasi retorica d’occasione, forse, ma le parole hanno un peso che va ben oltre il caso specifico della politica sull’immigrazione.
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano il 7 aprile scorso al Consiglio Nazionale Forense era stato chiarissimo: «Sovranità popolare non è concetto superato dalla storia», «E’ ormai un cronico sviamento della funzione giudiziaria», «Ritrovare l’equilibrio è indispensabile», «La riforma osteggiata ha costituito parte non marginale del programma col quale la coalizione che oggi sostiene l’esecutivo ha ottenuto il consenso degli elettori nel settembre 2022». Il procedimento di revisione costituzionale è solo un inciampo e lo si salta a piè pari con la “blindatura”, respingendo persino ogni proposta di modifica proveniente da chi pur condivide l’impianto complessivo della riforma. Così per la proposta minimale di prevedere almeno una sessione plenaria del Consiglio Superiore della magistratura diviso in due, per trattare dei problemi di gestione della magistratura tutta. Così per evitare l’assurdo della composizione per sorteggio, auto-umiliazione per il Parlamento e umiliazione per la magistratura. Non vi è ragione per proporre l’Alta Corte disciplinare perché il rigore della attuale gestione disciplinare è attestato, oltre che dagli inoppugnabili dati ufficiali, anche dal comportamento del Ministro della Giustizia, a cui si deve solo un terzo dei provvedimenti disciplinari promossi. Ben potrebbe il Ministro, ove riscontrasse “lassismo”, essere un po’ più attivo nel procedere. L’Alta Corte disciplinare è costruita in modo così contorto che difficilmente potrà funzionare, come hanno osservato tutti gli studiosi di diritto costituzionale, compresi quei, pochi, favorevoli in linea di principio all’innovazione.
Viene mantenuta al primo comma dell’art. 104 Cost. la proclamazione dell’indipendenza della magistratura tutta da «ogni altro potere», ma con le modifiche introdotte nei commi successivi e nell’art.105 il risultato è quello di ridefinire il rapporto tra potere politico e potere giudiziario. Il “sovranismo” dell’on. Mantovano, l’azione del governo eletto dal popolo libera da “intralci” della magistratura della Presidente Meloni mettono in discussione un fondamento dello Stato di diritto, della democrazia liberale. Le dittature del secolo scorso e le involuzioni di questo inizio millennio in Europa (per non dire degli Stati Uniti) ci mostrano che a nulla vale la formale proclamazione dell’indipendenza della magistratura se non sono apprestati istituti di garanzia che ne garantiscano la effettività. Consigli superiori della magistratura, Consigli di Giustizia, Alte autorità variamente composte o particolari sistemi di equilibrio nel rapporto tra i poteri sono le diverse soluzioni adottate nelle attuali democrazie. Il modello di Csm previsto dalla Costituzione del 1948 non è esente da limiti e non è l’unico astrattamente possibile. Ma un problema si pone quando sostanzialmente lo si riduce all’irrilevanza e non vi si sostituisce nulla in alternativa.
Le ripetute rassicurazioni di esponenti del governo sul fatto che la riforma costituzionale mantiene l’indipendenza della magistratura e che nessuno vuole la sottoposizione del Pm all’esecutivo (peraltro quotidianamente fronteggiate da dichiarazioni che vanno in ben altra direzione) a nulla valgono di fronte alle modifiche progettate che hanno una loro logica ineluttabile. Si replica: “Perché vi fasciate la testa di fronte a un pericolo attualmente inesistente”? Ma le rigide norme costituzionali sullo Stato di diritto e sugli istituti che debbono garantirlo (primo fra tutti l’indipendenza della magistratura) servono proprio a “fasciarsi la testa” in anticipo, prima che sia troppo tardi.
L’Ungheria di Orban è vicina e, ahimé, gli Stati Uniti di Trump ancora più vicini. Non un giudice politicizzato, ma Mario Monti il 28 agosto sul Corriere della sera dichiara: «Ho una preoccupazione generale per l'Europa e una specifica per l'Italia. Vediamo il ritorno di forme di governo autoritarie e il compiacimento per tale ritorno in parti della popolazione. Mi preoccupa l'accettazione, quando non il desiderio, di superare lo Stato di diritto e l'accettazione di una nuova forma di liceità, se non addirittura di dovere, in chi è stato eletto, di superare limiti che gli ordinamenti hanno sempre posto al potere esecutivo, come agli altri poteri. Mi sembra che ci sia in giro un interesse e un'ammirazione e un chiedersi se non andrebbe meglio anche da noi in Europa e in Italia, se si togliessero ulteriori inciampi a chi governa. […] Mi sembra che ci stiamo avvicinando a considerare normale, se non auspicabile, il superamento dello Stato di diritto. Non mi riferisco tanto al governo dell'economia o delle banche, che pure sarebbe un capitolo a sé. Ma osservo comportamenti e palesi auspici di Trump, Uniti a quelle delle forze di Big Tech che non sembrano più compatibili con lo Stato di diritto. Mi preoccupa molto».
Alle espressioni “Stato di diritto, Stato costituzionale di diritto” dell’Europa continentale corrisponde l’inglese Rule of law, not of men. La paternità dell’espressione viene attribuita ad Albert Venn Dicey che l’ha usata nel suo An Introduction to the Study of the Law of the Constitution (1855). Lo rammenta in un libro intitolato appunto The Rule of Law[3], il giurista inglese Thomas (Tom) Bingham, il quale riporta un passo di Dicey: «Quando parliamo di the rule of law come caratteristica del nostro paese, intendiamo dire non solo che per noi nessun uomo è al di sopra della legge, ma (ed è una cosa differente) che qui ogni uomo, quale sia il suo rango o la sua condizione, è soggetto alla legge ordinaria del reame e sottoposto alla giurisdizione dei tribunali ordinari».
Nella prefazione Bingham scrive che il suo testo, anche se scritto da un ex giudice, non è diretto ai giuristi; vediamo subito un esempio efficacissimo di questa divulgazione “alta” declinata con humor nelle parole con le quali commenta il passo di Dicey: «Quindi nessuno è al di sopra della legge, tutti sono soggetti alla stessa legge amministrata nelle stesse Corti. Così, se maltratti un pinguino nello zoo di Londra non puoi sfuggire all'indagine penale per il fatto che sei l'Arcivescovo di Canterbury; se conferisci un’onorificenza in cambio di denaro, non ti aiuterà il fatto che tu sia il Primo Ministro. Ma un secondo punto è altrettanto importante. Non c'è una legge speciale o una Corte per gli arcivescovi o i primi ministri: la stessa legge, amministrata nelle stesse Corti si applica loro come a chiunque altro[4]».
Nelle nostre aule di giustizia sta la scritta «La legge è uguale per tutti».
Ci mancheranno, in questi tempi travagliati, la cultura giuridica, la pacatezza delle argomentazioni, la fermezza nelle conclusioni, anche se scomode, e l’impegno, la passione civile di Vladimiro.
[1] Sentenza sezione disciplinare Csm 9 febbraio 1983, pp 26-27 dell’originale dattiloscritto. La sentenza è pubblicata in Cassazione penale Massimario, 1983, pp. 750 ss.
[2] Per una serrata critica del sistema del sorteggio si veda S. Bartole, Magistrati, l’aporia della nuova legge, in Il Piccolo, 10 agosto 2025. L’illustre costituzionalista triestino, autore, tra l’altro, della prima trattazione sistematica sul Csm (Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, 1964) scrive: «L'adesione all'associazionismo giudiziario e alle correnti in cui si divide, qualifica i singoli magistrati e permette di identificarli per ragioni che vanno al di là della loro fisica esistenza. Ciò è possibile e ha un senso se la scelta dei membri degli organi giudiziari di governo va fatta per mezzo di elezioni. Preferendo a queste il sistema del sorteggio la legge de qua rinuncia a qualsiasi mezzo di selezione che dia rilievo alle caratteristiche e qualità delle persone. C'è il rischio che incarichi di grande delicatezza e prestigio vadano a chi non ha la minima predisposizione al loro esercizio. Quando nei prossimi anni su questa legge verrà indetto il referendum confermativo […] questa gravissima aporia del testo dovrà essere al centro del dibattito, al di là della separazione delle carriere».
[3] Il testo, uscito nel 2010, ha avuto un grande successo tanto da essere ripubblicato l’anno successivo nella collana di grande diffusione Penguin Book, da cui sono tratte qui le citazioni. Thomas (Tom) Bingham (1933-2010) è stato uno dei più eminenti giudici inglesi, l’unico ad aver successivamente ricoperto le tre cariche più importanti: Master of the Rolls, Lord Chief Justice of England and Wales, Senior Law Lord of the United Kingdom. E’ stato anche il primo giudice ad essere insignito “Knight of the Garter” (Ordine della Giarrettiera).