Un piccolo prologo, solo in apparenza fuori fuoco.
C’è un libro che, nel corso della vita, ho imparato a considerare importante: Let Us Now Praise Famous Men, uscito in America nel 1941 e tradotto per la prima volta in Italia nel 1994, col titolo di Sia lode ora a uomini di fama. A scriverlo fu James Agee, prima di diventare sceneggiatore e scrittore meritevole di un Pulitzer postumo, ma il libro cattura anche per le fotografie di Walker Evans. Il testo nasce da un reportage che i due, nel 1936, svolsero per conto di Fortune tra le famiglie povere del Sud degli Stati Uniti, in Alabama, Contea di Hale. L’inchiesta fu rifiutata dalla rivista, ma Agee ne trasse un libro che racconta, con parole e immagini, la vita misera di alcune famiglie di coltivatori di cotone dopo la crisi del ’29. Tutt’altro che famous men, dunque.
In quel ficcare il naso in mezzo alle vicende delle persone, denso anche di interrogativi metodologici su come descriverle, ho trovato un monito per il mio lavoro di giudice: quando metti gli occhi sulle vite altrui che scorrono nei fascicoli dei procedimenti, civili o penali poco importa, rispettale, trattale con delicatezza nei provvedimenti, scegli parole appropriate.
Devo però ad Alessandro Portelli, americanista ed esponente di quella potente storia dal basso che è la storia orale, la correlazione tra il folgorante titolo del libro di Agee e il tema della biografia e dell’autobiografia. Perché narrare la propria vita o quella degli altri? Da dove nasce questo diritto a rendere pubblici stralci di esistenze? È la fama a costituirlo?
Queste domande mi girano in testa ogni volta che prendo tra le mani un’autobiografia e si sono presentate puntuali quando ho iniziato a sfogliare Cavalancando la vita. Autobiografia di un giudice, di Giovanni Palombarini. Sono arrivate subito, devo dire, anche le risposte.
Basta leggere i titoli dell’indice per capire come l’autore si sia trovato a vivere snodi salienti e spinosi della storia italiana, in alcuni di essi rivestendo anche un ruolo rilevante: Il dopoguerra in città diverse, da bambino e poi da studente; Il processo del 7 aprile, momento cardine del suo lavoro di giudice; l’impegno, fin dalle origini del gruppo, nello “strano animale” di Magistratura democratica; poi Il Csm, La Procura generale, una presenza nelle istituzioni sempre con l’orecchio teso ai rumori degli ultimi – Il Carcere, L’immigrazione – e la convinzione che Cambiare si può. Da queste esperienze nasce il diritto, forse il dovere, di raccontarsi e raccontare, di mescolare momenti del sé famoso e del sé privato con pezzi delle vite di persone con le quali l’autore ha vissuto e lavorato. Compresi gli indagati e le parti processuali: il giudice Palombarini – leggere per credere, sta qui la prima lezione – ha sempre lavorato con gli imputati, mai sugli imputati.
C’è un’altra ragione, poi, che giustifica la mise en page dei ricordi: quando scrive, Giovanni Palombarini coinvolge. Senza cedimenti a un puro “stile di parole”, conquista il lettore e lo trascina a cavallo con sé.
La galoppata prende avvio nel dopoguerra, quando «c’era da ricostruire tutto» (p. 21). Non è un caso. Se volessimo tornare all’inizio del libro dopo averlo finito, capiremmo che quel crocevia della storia, quando tutto era allo stesso tempo possibile e lontano, fu la sorgente ideale della coscienza vigile dell’uomo e del giudice, un senso di responsabilità che non è puro doverismo, ma consapevolezza che il destino del singolo non è mai separato dal destino delle altre e degli altri. La vita, sembra dirci questo libro, può essere spesa con ricchezza – anche divertimento, perché no – soltanto se si agisce per fare in modo che il futuro possa essere plasmato dalle mani di molti, di tanti, dei deboli oltre che dei forti.
C’è una parola per dire tutto questo: politica. Giovanni Palombarini è vissuto naturalmente immerso nella politica autentica, nutrita dalla curiosità immensa per le cose del mondo. Fa l’ultimo bagno a Civitavecchia, da studente liceale in procinto di trasferirsi all’università di Torino, e intanto legge sui giornali della “legge truffa”; dopo Torino, prosegue l’università a Bologna e, sotto i portici di via Zamboni, con gli amici discute di Faulkner, Hemingway, Steinbeck, Silone, ma anche di Ungheria e di Suez (siamo arrivati al 1956), poi delle morti di Malcom X e Martin Luther King; vince il concorso in magistratura, nel 1962, e il ricordo di quei giorni si lega alla crisi dei missili e all’uccisione di Enrico Mattei. Neppure le vacanze con la moglie e i figli, in stile un po’ nomade, sfuggono alla contaminazione: una delle prime volte che approda a Scilla, lo troviamo davanti al mare, a parlare con amici e colleghi delle sorti di Allende e del Cile, di Berlinguer, Moro e del compromesso storico. Tutto il racconto della vita professionale e intellettuale è permeato dai continui riferimenti al rapporto necessario e dialettico con lo sfondo storico.
Se dovessi indicare la prima traccia che la lettura lascia dietro di sé, dunque, sceglierei il fascino indiscutibile dell’incontro con una vita trascorsa nella consapevolezza che le storie delle persone sono riflessi di vicende collettive. Quell’intuizione, forse, è il privilegio concesso a chi subì l’orrore della guerra; a chi, come Giovanni Palombarini, aveva dieci anni al tempo del referendum monarchia-repubblica e dei “mai più” che si andavano scrivendo nelle costituzioni e nelle carte internazionali dei diritti. Da quella atmosfera civile e culturale erompono due propensioni vitali: la spinta alla partecipazione politica, da agire a tutti i livelli, e una sorta di solidarietà costitutiva, quasi ontologica, per i più vulnerabili.
È in questa duplice passione, in fondo, che si ritrova anche la radice ultima dell’avventura di Magistratura democratica, il collettivo di giudici in cui Giovanni Palombarini ha speso la sua militanza e riversato gran parte del suo impegno teorico e politico. Un luogo per ragionare e lottare insieme, perché le visioni e le prassi del magistrato, tanto più se finalizzate a rivendicare la scelta di campo della Costituzione a favore degli ultimi, si possono coltivare al meglio levigando le idee in discussioni e assemblee con altri colleghi, mettendo a punto dichiarazioni condivise, discutendo di comunicati, gruppi di lavoro e manifestazioni, litigando fino all’ultimo in maniera estenuante o trovando compromessi. Insomma, se tante persone, anche delle classi subalterne, per un lungo tratto della storia di questo Paese, hanno potuto fare affidamento sulla giustizia – in definitiva, se l’avanzamento dei diritti è stato effettivo –, lo si deve anche allo stare assieme dei magistrati, al loro associarsi (non solo a sinistra). Contrariamente all’opinione dominante, la solitudine non si addice al giudice, lo rende debole sotto il profilo dell’autonomia, più soggetto al dominio del punto di vista egemone, infine più pericoloso nei confronti di chi subisce il suo potere. La memoria storica che libri come questo offrono, dobbiamo portarla con noi quando andremo a votare al referendum sulla riforma della giustizia. Il sorteggio dei rappresentanti della magistratura in Csm non è altro che un progetto di solitudine per tutti i magistrati, elettori ed eletti.
Superfluo dire della pluralità dei temi di interesse che si possono pescare nell’autobiografia.
Intendo soffermarmi soltanto su uno di essi, perché mi sembra un filo di Arianna che percorre tutto il labirinto della vita dell’uomo e, di conseguenza, intreccia la trama del libro: la difesa intransigente del garantismo penale, a partire dall’istruttoria del “processo 7 aprile”.
C’è da auspicare che non si perda mai, soprattutto tra le giovani generazioni di magistrate e magistrati, il ricordo di cosa ha significato quella vicenda giudiziaria. A iniziare dagli arresti e dalle perquisizioni del 7 aprile 1979, la Procura di Padova, in particolare il pubblico ministero Pietro Calogero, incardinò una serie di processi al fine di dimostrare che il terrorismo rosso era articolato in unico partito armato (di cui le Brigate Rosse erano una componente), con vertice nell’Autonomia Operaia padovana e negli intellettuali che la dirigevano; quasi tutti, questi ultimi, professori della facoltà di Scienze Politiche, compreso lo stesso Toni Negri. Risuonò l’imputazione di insurrezione armata e ai capi teorici e politici del partito armato, nell’ottica del “teorema Calogero”, doveva essere ricondotta la responsabilità dei fatti di sangue verificatesi nel culmine della stagione terroristica, compresi il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
L’ipotesi accusatoria, già resa traballante dalla collaborazione di Patrizio Peci (1980), fu sconfessata dalla sentenza-istruttoria che Giovanni Palombarini estese a settembre 1981. Circa duecento pagine, che ora apprendiamo essere state scritte ad Asiago. L’aria di montagna fa bene al diritto, perché siamo di fronte a un monumento della cultura giuridica democratica e del garantismo.
Al di là delle piccole e divertenti curiosità, la voce dell’autore, nel ricordare quelle vicende processuali, diventa tesa e vibrante, consegnandoci una memoria che non è reliquia, ma corrente pulsante, linfa alla quale attingere per irrorare il presente della cultura del giudizio penale e, anche, il senso della presenza politica di Magistratura democratica. Non posso che procedere per salti, ma credo sia necessario mettere in risalto alcune angolazioni che, da sole, meriterebbero un approfondimento monografico.
Le pagine sul “7 aprile” (così come quelle su Via Zabarella) ci consegnano immagini nitide e tangibili dei bivi affrontati da quei magistrati che, come l’autore, scelsero di condurre l’inchiesta con metodi opposti a quelli pretesi dalla concezione del processo penale come “lotta a”. Di fronte al dilatarsi delle imputazioni per reati associativi e concorsuali, con estensione inimmaginabile del concorso morale per fatti di violenza, Giovanni Palombarini imboccò la strada del vaglio scrupoloso delle posizioni dei singoli indagati in relazione a episodi puntuali, scindendo quello che l’accusa aveva indebitamente unificato; al cospetto di un processo che diventava macchina del potere e della vittoria dello Stato, quel giudice optò per conservare al giudizio penale la sua funzione di strumento di sapere, di meccanismo conoscitivo; alla mentalità dell’emergenza e del sospetto oppose la cultura della Costituzione e del garantismo.
Scrive, a un certo punto, Giovanni: «Il fatto è che quando si pensa di dover affrontare una “lotta a” è poi difficile gestire i processi con il rigoroso rispetto dei principi del garantismo e del giusto processo. Difficile, ma non impossibile» (p 83). Una lezione preziosa per il presente, in cui il modello della “lotta a” pare egemone nella giurisdizione in materia di criminalità organizzata e domina anche le indagini sugli episodi di violenza scaturiti dal conflitto politico e sociale.
Certo, a difendere il garantismo ci si fa nemici, anche a sinistra. Partiamo ancora una volta dalle parole dell’autore, inserite in una delle tante “bombe” – così le chiama Mario Isnenghi in una vivace presentazione – di cui è disseminato il libro: «Il processo del 7 aprile è stata una pagina scura della storia italiana, oggi largamente rimossa, nella quale un partito politico, il Pci, si occupò in prima persona non solo di appoggiare in ogni modo l’inchiesta, ma anche di trovare alcuni testi e indicarli alla Procura». Ora, se è indubbio che la lotta al terrorismo rosso fu un merito indiscusso del più grande partito della sinistra italiana, decisivo per la complessiva tenuta della democrazia, la pretesa di trasporre quella lotta sul piano della giustizia penale ha certamente rappresentato, oltre che un passaggio politico critico (sul quale ancora oggi riflettere), un fattore di attrito con quegli intellettuali e con quei magistrati, culturalmente rivolti a sinistra, che andavano costruendo la teoria e la pratica del garantismo. Insomma, il garantismo, a sinistra, ha diviso. Mi sembra di poter dire che ancora oggi sia così, a giudicare dalle timidezze della sinistra istituzionale su temi centrali della giustizia penale, dai meccanismi di contrasto alla criminalità organizzata per finire al carcere e all’ergastolo.
Di certo, dalle pagine dell’autobiografia, affiorano elementi di un rapporto conflittuale tra Magistratura democratica e il principale partito della sinistra. Essere “giudici a sinistra”, per usare il titolo di un altro celebre libro di Giovanni Palombarini, non ha mai voluto dire, e non deve voler dire oggi, andare a braccetto con la sinistra istituzionale.
La materia viva del libro, come detto, è tanta e variegata, ma non è questa la sede per affondarci le mani.
C’è tempo, invece, per una considerazione su come, nel testo, procedono la memoria e la sua scrittura. Colpisce che non ci sia uno stacco, una divisione, una partitura. Un frammento della biografia pubblica si accosta a un’improvvisa immagine domestica, il discorso pronunciato in un luogo pubblico si incastra con le discussioni fatte nella penombra di un salotto o di una cucina, di fronte alla tavola e a una prelibatezza gustata con gli amici e gli affetti più intimi. Questo accavallarsi di pensieri è tipico della velocità che assume la mente quando si sofferma sul passato, sulle tante vite vissute. La scorrevolezza della memoria, però, è difficile da rendere su pagina. Giovanni Palombarini ci riesce, con una abilità rara. Da una scena all’altra, da una pagina all’altra, non c’è transizione, vita privata e pubblica sembrano non distinguersi, le passioni si mischiano. Insomma, nel mosaico della rievocazione, eventi e fatti non assumono una vera e propria gerarchia. Anche la memoria e la penna di Giovanni Palombarini sono sinceramente democratiche.