1. La grande trasformazione
Vorrei aprire questa nostra conversazione, che prende le mosse dal volume di Massimo Luciani Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri (Giuffrè, Milano, 2023), richiamando una pagina di un grande classico del Novecento:
«Per il pensiero moderno non vi è morale possibile; a partire dal XIX secolo, infatti, il pensiero è già “uscito” di sé entro il suo essere proprio, esso non è più teoria; non appena pensa, esso ferisce o riconcilia, avvicina o allontana, rompe, dissocia, allaccia o riallaccia; non può fare a meno di liberare e di asservire. Prima ancora di prescrivere, di abbozzare il futuro, di dire ciò che occorre fare, prima ancora di esortare o soltanto di dare l’allarme, il pensiero, al livello della sua esistenza, fin dalla sua forma più aurorale, è in sé stesso un’azione, un atto rischioso»[1].
In questa pagina di Michel Foucault è riassunto il senso della modernità europea dopo l’Illuminismo. Dopo il secolo dei Lumi, il Moderno è stato realizzazione pratica della ragione, inveramento pratico dell’ideale. La storia contemporanea, ha detto Augusto Del Noce, può essere interpretata solo in termini filosofici perché essa è attuazione di un pensiero. Non a caso, per Del Noce è Giovanni Gentile il pensatore chiave del Novecento europeo. Prima dell’esito ermeneutico tardo-novecentesco, il sapere, in quanto saldato alla politica (Gramsci) o al potere (Foucault), è stato azione trasformatrice. L’intellettuale novecentesco, ha scritto Zygmunt Bauman, è stato un legislatore, prima della torsione postmoderna a mero interprete del presente.
Funzione legislativa del sapere non è espressione casuale, perché il grande costruttore dell’ordine sociale nel Novecento europeo è stato proprio il diritto. Il costituzionalismo democratico dello Stato sociale di diritto è stato il pensiero attuoso di cui parla Foucault, un’azione trasformatrice nel segno dell’universalismo. L’art. 3 cpv. della Costituzione italiana è il vero paradigma del secolo: la trasformazione della società è il compito della Repubblica, secondo un’onda lunga che risale al 1789 e che mira alla ricomposizione di astratto e concreto auspicata dal giovane Marx. Questo costituzionalismo sociale si iscrive dentro il modello di costituzione che l’Europa continentale ha ereditato dal 1789 e che Maurizio Fioravanti ha definito «costituzione-indirizzo». La costituzione è un indirizzo fondamentale che pervade l’intera articolazione istituzionale. Non poteva che essere così. Dopo il cataclisma bellico bisognava ricostituire la società e il modello vincente è stato quello dello Stato sociale. La Costituzione è stato il grande strumento di edificazione di un nuovo ordine sociale e l’art. 3 cpv. la leva di questa trasformazione, un diritto performativo in grado di mutare l’assetto sociale. Ciò che avviene nella scienza giuridica e nella magistratura negli anni sessanta e settanta del secolo scorso non possiamo non collocarlo dentro questo quadro storico-politico. Il sapere giuridico e la magistratura non potevano non essere solidali all’indirizzo fondamentale che pervadeva l’intero tessuto istituzionale e che promanava dalla Costituzione. Avvengono, in particolare, due cambiamenti.
La Costituzione penetra all’interno della scienza giuridica e relativizza il primato della vecchia dogmatica concettualistica: gli istituti del diritto civile devono essere riletti attraverso il programma di società che la Costituzione prefigura (il superamento degli ostacoli di ordine economico-sociale che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini); il bene giuridico protetto dalla norma penale deve essere ancorato al valore costituzionale. La sublimazione tecnica del sapere giuridico diventa recessiva al cospetto della cogenza del valore costituzionale. Il secondo cambiamento è che la costituzione si incunea fra il giudice e la legge e l’interpretazione non è più l’asettica ripetizione dell’enunciato linguistico, ma è esplicitamente governata dai valori dell’interprete, i quali sono tuttavia sottoposti a un processo di universalizzazione mediante il riferimento al programma costituzionale.
Si consuma in questo modo un mutamento della scienza giuridica, che, per riprendere la distinzione di Max Weber, passa dal dominio della razionalità formale, la quale è elaborazione del mezzo indifferente ai fini e ai valori, alla permeabilità alla razionalità materiale, che è adesione a postulati di valore. Due punti vanno messi in chiaro: 1) il giurista non è più sotto il riparo delle dottrine generali, si avvia una dinamica di secolarizzazione, ma egli non è in un mare aperto, perché ha il salvagente della Costituzione, la quale costituisce un riparo perché risponde a un programma preciso, quello disegnato dall’art. 3 cpv.; 2) il superamento del primato delle dottrine generali non è una perdita, ma è un guadagno, perché risponde alla funzione progressiva dell’art. 3 cpv., il quale è progetto di edificazione di un complessivo ordine sociale, progetto alla cui realizzazione sono chiamati a partecipare anche la scienza giuridica e la magistratura.
2. Fenomenologia del principio costituzionale
Cosa accade da una certa epoca in poi è ciò che evoca l’interrogativo della nostra conversazione: «è possibile rimettere “ogni cosa al suo posto”?».
Potremmo trovare delle date, ad esempio la crisi petrolifera del 1973, ma ciò che in definitiva va posto in primo piano è l’esaurimento del cd. “trentennio glorioso” apertosi nel 1945, nel corso del quale la società era stata sottoposta al processo di trasformazione dettato dall’indirizzo fondamentale racchiuso nell’art. 3 cpv. Dopo il trentennio glorioso è il rapporto fra Stato ed economia che cambia. Non si chiude soltanto la stagione delle politiche espansive di tipo keynesiano, ma si entra in un’epoca che è segnata da qualcosa di più vasto dello stesso rapporto fra politica ed economia. Al monismo del conflitto capitale/lavoro, soggiacente il cd. compromesso socialdemocratico, succede la stagione del pluralismo, a tutti i livelli: sociale (moltiplicazione di soggettività sociali) e antropologico (moltiplicazione dei punti di vista etico-politici). Il pluralismo è il fatto incontroverso da cui ogni analisi deve muovere, ci ha insegnato il Rawls di Liberalismo politico.
È su questo sfondo di proliferazione del pluralismo a tutti i livelli che fanno la loro apparizione nelle giurisprudenze costituzionali dell’Europa continentale la categoria dei principi costituzionali e quella di bilanciamento. Si deve a uno scritto di Ronald Dworkin del 1967 la prima teorizzazione delle nozioni di principio e bilanciamento, ma è a partire dalla giurisprudenza costituzionale, soprattutto degli anni ottanta, che il bilanciamento fra principi diventa per così dire egemone nel costituzionalismo.
La teoria e la prassi costituzionale sono ora nel senso della formulazione dei diritti fondamentali mediante principi. Cos’è un principio? Aristotele apre il quinto libro della Metafisica con la seguente definizione di principio: «il primo termine a partire dal quale una cosa o è o è generata o è conosciuta»[2]. Il principio è fondativo, è un punto di avvio (ex principiis derivationes), fonda ciò che ne consegue, ma, come gli assiomi indecidibili del teorema di Gödel, non trova giustificazione all’interno della catena formale che fonda. Il principio fonda, ma non si auto-fonda. La scelta del principio non è dettata dal medesimo principio, come il diritto che da esso consegue, ma da tutto ciò che è a monte di quella scelta e del principio stesso. La selezione del principio, fra i tanti, non è giuridica, ma etico-politica, tant’è che nessuno dubita che la scelta del principio prevalente nell’ambito di un bilanciamento spetti al legislatore. La formulazione del diritto fondamentale mediante principi si differenzia così dalla nozione di limite naturale del diritto fondamentale, strumento della giurisprudenza costituzionale a partire dalla sentenza n. 1 del 1956. Il limite naturale è una nozione integralmente giuridica, perché resta sul piano del contenuto del diritto, così come definito dalla norma. Applicare un principio significa, invece, isolarlo all’interno di una mappa di principi mediante una decisione che è politica.
La scelta di un principio piuttosto che un altro è espressione del pluralismo etico-politico e spetta alla politica. Compito delle corti è il controllo di correttezza giuridica del bilanciamento. La regola di correttezza del bilanciamento è quella della compressione proporzionata del principio soccombente nel bilanciamento (la proporzionalità è definita «requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale» dalla Corte costituzionale – così, da ultimo, Corte cost., n. 203/2024). Il principio soccombente deve essere compresso nel limite strettamente necessario per il perseguimento del principio prevalente e in modo da non lederne comunque l’essenza inviolabile[3]. Si tratta dei due criteri ben illustrati nel primo paragrafo dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Lo spazio della politica è nella scelta, su basi etico-politiche, del principio; lo spazio del diritto è nel rispetto della regola di proporzionalità, che fa divieto, per così dire, al principio prevalente nel bilanciamento di abusare della propria posizione dominante. Le corti applicano, o dovrebbero applicare, questa regola e non un principio che abbiano previamente selezionato, perché la selezione, in quanto etico-politica, spetta alla politica. Il diritto è, in questo senso, ancora una questione di regole e non di principi. Questo è un punto decisivo, su cui tornerò più avanti.
L’irruzione dei principi sulla scena costituzionale ha rappresentato un mutamento di costituzione materiale. Essa ha comportato una riclassificazione profonda nel rapporto fra diritto e politica. Nella stagione dell’edificazione dello Stato sociale vi era una organicità di diritto e politica, ma qui la politica era l’indirizzo fondamentale in senso costituzionale, era il farsi costituzione della politica mediante il fine politico fondamentale, secondo il grande modello della costituzione materiale di Costantino Mortati, e quel fine, senza dubbio, era consegnato dall’art. 3 cpv. Ora la politica è all’esterno dell’universo dei principi, e tuttavia agisce attraverso di essi nella scelta di un principio piuttosto che un altro. La dialettica fra sistema politico e corti si gioca tutta qui, nella capacità delle corti di applicare regole e non principi. Questo vale sia per la giustizia comune che per quella costituzionale, e per la giustizia comune viene in rilievo quando è in questione l’interpretazione conforme a costituzione, e comunque in tutte le occasioni in cui l’ermeneutica della legge metta in gioco i principi costituzionali.
Nel caso dell’interpretazione conforme, in particolare, il giudice comune non deve salvaguardare un principio che abbia selezionato come meritevole di essere perseguito, non deve fare insomma una scelta etico-politica che è riservata al legislatore. L’intervento chirurgico dell’interprete, nei limiti delle potenzialità semantiche dell’enunciato linguistico, non è di sostituzione, al principio scelto come prevalente dal legislatore, di un principio che egli avverta come meritevole di essere perseguito, facendo così passare nell’interpretazione una propria scelta politica. L’interprete applica una regola, quella della compressione proporzionata del principio soccombente, e così facendo lascia ferma la prevalenza del principio scelto dal legislatore, ma modella il precetto normativo in modo che il principio soccombente sia compresso nella misura strettamente necessaria o comunque in modo che ne sia salvaguardato il nucleo inviolabile.
3. La dogmatica giuridica dopo i principi costituzionali
La domanda su quale giudice nell’epoca del pluralismo comporta, in realtà, un’altra domanda, che forse viene anche prima, ed è quella su quale sapere giuridico. I principi impattano con la scienza giuridica dopo che questa era stata attraversata dall’onda del programma costituzionale. La cintura di protezione della dogmatica non c’è più, ma anche il programma costituzionale non ha più quell’univocità di direzione che fu in grado di produrre, ad esempio, la giurisprudenza lavoristica, all’insegna dell’art. 3 cpv., al seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori. Con la regola di proporzionalità del bilanciamento, la vera grundnorm del sistema diventa il primo comma dell’art. 3, l’eguaglianza formale: proporzionalità significa eguale considerazione di tutti i principi nel bilanciamento e lo stesso perseguimento dell’eguaglianza sostanziale (art. 3 cpv.) non può arrivare a pregiudicare, oltre la misura della proporzionalità, un principio costituzionale. Si tratta del limite che la struttura pluralistica dell’essere pone all’azione trasformatrice della realtà e, in definitiva, della chiave autentica del concetto di democrazia liberale[4]. L’eguaglianza sostanziale, in quanto «compito della Repubblica», è la Politica della Costituzione, ma su essa agisce il vincolo del pluralismo etico-politico dei principi che l’eguaglianza formale preserva.
Dunque, non abbiamo più il vecchio concettualismo giuridico, ma non abbiamo più neanche le «magnifiche sorti e progressive» del programma costituzionale. La partita ormai si gioca in un rapporto diretto fra le norme ordinarie e i principi, con un ruolo secondario delle categorie giuridiche, le quali, si dice, non sono più un prius, ma sono un posterius rispetto ai principi che l’interprete ha previamente selezionato[5]. Il punto è che, però, la selezione del principio, abbiamo visto, non è giuridica, ma etico-politica. Esemplari, per i civilisti, sono la tematica del “contratto giusto” e il confine sempre più incerto tra fattispecie legali e clausole generali. Mediante la concretizzazione della clausola generale il giudice pone la regola del caso concreto, si tratta di una vera e propria norma individuale. Senza un chiaro regolamento dei confini fra fattispecie legale e clausola generale, quest’ultima tende a sovrapporsi alla fattispecie legale in aree a questa assegnate dal legislatore.
La costituzionalizzazione del sapere giuridico aveva corrisposto all’ingresso esplicito e consapevole di una politica, e cioè la Politica (con la “P” maiuscola) della Costituzione, l’indirizzo fondamentale: c’era un punto archimedico, che non erano più le dottrine generali, ma il programma costituzionale. L’ingresso oggi dei principi costituzionali, senza mediazioni, nel sapere giuridico ha invece il sapore dell’intrusione surrettizia dell’etico-politico nella scienza. La secolarizzazione del sapere giuridico, che la costituzione ha prodotto, è andata oltre il limite della demitizzazione: alla demitizzazione della falsa apparenza, quella della neutralità dell’interprete asettico rispetto ai valori, subentra la ricostituzione di una nuova mitologia, quella del garante dei principi che celano, in realtà, scelte etico-politiche. L’ordinamento giuridico, se corrisponde all’etico-politico celato in forme giuridiche, cessa di essere ordinamento e diventa trasvalutazione della forza in diritto. Ce lo avevano già insegnato Galvano Della Volpe e Umberto Cerroni. C’è un esito dissolutivo delle dinamiche di secolarizzazione, come hanno dimostrato personalità assai diverse quali Augusto Del Noce e Pier Paolo Pasolini. Questo esito dissolutivo si previene fissando limiti e soglie da non oltrepassare.
La capacità di porre un limite oggi per la scienza giuridica è affidata alla possibilità di restituire un significato alla dogmatica nell’ambiente pluralistico dei principi. La dogmatica ha un rapporto stretto con il diritto perché, grazie alla sua neutralità assiologica ed impermeabilità alle mutevoli opzioni etico-politiche, consente al diritto di realizzare la sua funzione propria, che è quella della prevedibilità e certezza, a partire dall’invenzione romana della forma e dell’astrazione. Il nostro problema è oggi quello di una restituzione di senso al diritto razionale-formale, proprio come lo concepiva Max Weber, sapendo però che quel diritto non può più essere concepito secondo la pura logica della razionalità formale, cioè la logica dei mezzi indifferente ai fini e ai postulati materiali, una volta che l’etico-politico è entrato nel diritto attraverso la porta dei principi. Bisogna concepire una dogmatica che sia attraversata dai principi, allestendo però il corredo di mediazioni necessarie affinché sia preservata la funzione di certezza cui le categorie giuridiche sono preposte. Dobbiamo insomma ricostituire un ordine, ma incorporando la complessità che è esplosa nell’esperienza giuridica.
La dogmatica giuridica non è più weberianamente circoscrivibile alla razionalità formale, ma si basa sia su quest’ultima che sulla razionalità materiale, perché le categorie giuridiche, in quanto proiezione delle norme, sono in un’ultima istanza determinate dal bilanciamento fra principi costituzionali che soggiace a quelle norme. Ne consegue la rilevanza dei principi in sede di interpretazione degli istituti giuridici, ma con due limiti. I principi intervengono in sede ermeneutica fino al limite del rispetto delle esigenze dogmatiche dei singoli elementi costitutivi della fattispecie normativa, perché la logica interna delle categorie giuridiche resta di tipo funzional-strumentale e, a causa di ciò, assiologicamente neutrale. La relativa autonomia della tecnica giuridica, in grado di vivere entro certi limiti di vita propria rispetto ai principi che l’hanno generata, è da porre in relazione alla prestazione costitutiva del diritto, che è quella della prevedibilità e certezza[6]. Il secondo limite è che i principi rilevanti in sede ermeneutica sono esclusivamente quelli risultanti dal bilanciamento legislativo. L’interprete non seleziona previamente, nella materia oggetto della disciplina normativa, i principi che reputa rilevanti, per poi conformare attraverso di essi l’istituto giuridico, consentendo così l’ingresso surrettizio nell’interpretazione dei suoi valori etico-politici. L’integrazione principialista della dogmatica presuppone che l’etico-politico che vi penetri resti solo quello del legislatore.
4. Ricostituire un ordine
I grandi passaggi della teoria giuridica del Novecento sono stati, in realtà, tentativi di ricostituzione di un ordine a fronte dell’emersione di una complessità. Due sono stati i grandi momenti: nella prima metà del secolo, in Europa, il confronto Kelsen-Schmitt; nella seconda metà, fuori dell’Europa continentale, la discussione fra Herbert L.A. Hart e Ronald Dworkin. Ciò che accomuna questi due grandi confronti è il tentativo di ricostituzione di un ordine.
Al conflitto schmittiano fra valori Hans Kelsen risponde con la formalizzazione radicale della ragione giuridica: la risposta allo scontro politeistico fra valori risiede nella risoluzione in termini puramente logico-trascendentali della norma fondamentale e nella costruzione, come è noto, di una dottrina pura del diritto. Anche la teoria giuridica di Dworkin è programmaticamente valutativa, in un senso naturalmente assai diverso dal primato schmittiano della politica: la base del diritto risiede per Dworkin non in una fonte, ma nei contenuti di giustizia che derivano dalla migliore interpretazione che i giudici offrono della prassi giuridica di una comunità, e la teoria – moralmente orientata – contribuisce allo sforzo di rendere migliore il diritto. La risposta di Hart è stata quella del positivismo cd. inclusivo: la fonte non è una mera procedura, ma include i contenuti di giustizia che Dworkin punta ad elaborare attraverso le migliori prassi giudiziali. Alla base per Hart c’è una regola, socialmente condivisa, che permette di identificare i principi secondo il loro contenuto. Questo significa che la teoria non è valutativa, ma descrittiva della fonte che incorpora i criteri di giustizia.
Non possiamo minimamente entrare qui nella sequenza di risposte ed obiezioni che ha caratterizzato il confronto fra Dworkin e il positivismo inclusivo, ma da questi grandi confronti novecenteschi ricaviamo come la costruzione di un ordine sia affidata a regole e che il diritto è, in definitiva, un fenomeno regolativo. Torniamo allora al canone della proporzionalità. Il diritto non risiede nella selezione del principio, questa è affidata all’etico-politico. Il diritto è un fenomeno oggettivo, che si concretizza volta a volta, in relazione alle circostanze, in regole di compressione proporzionata del principio soccombente. Si tratta di regole giuridiche e non di criteri ermeneutici, diversamente da quanto sostiene Luigi Mengoni[7]. Qui seguo Roberto Bin, che, nel suo Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale[8], così si esprimeva: «il giudice costituzionale non applica direttamente il principio costituzionale che esprime il “diritto”, ma una regola che egli stesso ha formulato stabilendo le condizioni normativa e fattuali in presenza delle quali quel principio può produrre determinati effetti giuridici (…). La produzione di queste regole (…) costituisce un tipico esempio di “produzione per mezzo di norme”», secondo una categoria coniata da Riccardo Guastini[9].
5. La giurisdizione è applicazione, indipendente dall’etico-politico, di regole e non di principi
La “produzione di norme a mezzo di norme”, di cui si è appena detto, comporta due conseguenze. La prima è che il giudice, costituzionale o comune, deve assumere un dovere di indipendenza dalle proprie visioni etico-politiche (“da se stesso”) nell’atto di identificare la regola della compressione proporzionata del principio soccombente, e in generale nell’interpretazione del diritto. Stiamo parlando di un ideale normativo, e non di un dato di fatto, e dunque di un impegno e non di una realtà. Va perciò abbandonata la concezione dell’interpretazione guidata dai valori dell’interprete, sia pure universalizzati dall’adesione al programma costituzionale. La costituzione è ormai il terreno del pluralismo dei principi, e assumerne uno implica fare una scelta etico-politica. La stessa permanenza della distinzione fra disposizione e norma nell’interpretazione della legge ordinaria è affidata alla capacità dell’interprete di assunzione di un dovere di astrazione dalle proprie opzioni etico-politiche. Sullo sfondo c’è il grande tema se sia ancora attuale la filosofia ermeneutica che, a partire da Verità e metodo di Gadamer, ha dominato l’ultimo quarto del secolo scorso. Nell’epistemologia contemporanea, a partire dalla fine del secolo scorso, è in corso una svolta normativo-razionalista (primo fra tutti, Robert B. Brandom) a cui, a mio avviso, si deve guardare con favore. Come non pensare poi, in questo quadro, alla centralità del metodo che Emilio Betti oppose al circolo ermeneutico e all’ontologismo gadameriano?
La seconda conseguenza è che la giurisdizione comune non è tecnicamente definibile come “garanzia dei diritti fondamentali”. Essa è applicazione del diritto oggettivo. Il diritto è un fenomeno oggettivo, ho precisato sopra. Non possiamo definire la giurisdizione comune come garanzia dei diritti fondamentali in senso tecnico, per due ragioni. La prima è che i diritti fondamentali non vivono mai da soli, ma, in quanto formulati come principi, cadono sempre nel bilanciamento che il diritto oggettivo realizza mediante la norma ordinaria. La seconda ragione è che ciò mediante cui si risolve una controversia è una regola e non un principio. Seguire un principio comporta promuovere un’opzione etico-politica, mentre per attribuire il torto e la ragione è necessario affidarsi a una regola. È una regola sia la norma del codice civile, che la compressione proporzionata del principio soccombente nel bilanciamento, da questo punto di vista non c’è nessuna differenza.
Anche quando, nelle evenienze eccezionali e residuali di inerzia legislativa, il giudice comune è chiamato, per il divieto del non liquet, a fissare, in via di supplenza rispetto al legislatore, la regola del caso concreto, provvedendo lui – in luogo del potere politico – a selezionare il principio prevalente, sulla base di una scelta inevitabilmente etico-politica, è un bilanciamento di principi costituzionali all’interno di una regola che viene stabilito, all’insegna del fondamentale precetto della proporzionalità, e non la diretta applicazione di un principio[10]. Le corti non sono un’agenzia di promozione di diritti fondamentali, non sono, cioè, una amministrazione funzionalizzata a uno specifico fine pubblico (la deputatio ad finem di cui parlava Massimo Severo Giannini), ma sono preposte all’applicazione del diritto in modo oggettivo, all’infuori di un fine specifico. Per la funzione di promozione dei diritti fondamentali è prevista un’agenzia amministrativa dell’Unione europea e poi c’è una Corte a Strasburgo, la quale ha come mission la protezione («parcellizzata», disse Corte cost., n. 264/2012) dei diritti umani, nel limite del margine nazionale di apprezzamento, una Corte dunque che non applica il diritto oggettivo, ma è finalisticamente orientata alla garanzia dei diritti umani.
Del resto, questo è quanto ricaviamo dalla vera grundnorm sulla giurisdizione: «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (art. 24, comma 1, Cost.). La Costituzione equipara diritti soggettivi e interessi legittimi, perché sia i primi che i secondi, trovando rispettivamente tutela innanzi al giudice ordinario e al giudice amministrativo (nella prospettiva di un autentico pluralismo delle giurisdizioni perché fondato su quella equiparazione), non sono altro che i diritti fondamentali, ma per come risultanti dalla ponderazione fra principi che la norma ordinaria stabilisce, prevedendo una fattispecie (un fatto e il relativo effetto giuridico), nel caso dei diritti soggettivi, o attribuendo il potere all’autorità amministrativa, in quello degli interessi legittimi[11]. In questo senso, la definizione da adoperare – con riferimento alla giurisdizione ordinaria – è “garanzia dei diritti soggettivi”, quale contenuto che i diritti fondamentali acquistano nel diritto oggettivo all’esito del bilanciamento fra principi. Ciò che trova tutela in una controversia è sempre un diritto soggettivo, e mai un diritto fondamentale, anche quando l’inerzia legislativa impone la risoluzione della lite direttamente attraverso la costituzione.
6. Politica e magistratura alla ricerca di un futuro
Dire il diritto è così applicazione, indipendente dall’etico-politico, e non funzionalizzata a fini specifici, di regole e non di principi. Di questo, la prima a doverne acquistare piena consapevolezza dovrebbe essere proprio la magistratura, ridefinendo la propria funzione in modo adeguato alla nuova stagione del pluralismo dei principi costituzionali, prima che altre narrazioni si facciano avanti, le quali reputino che quella ridefinizione passi attraverso il ridimensionamento dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione.
Qualcosa in questa direzione, negli ambienti della politica, si sta già manifestando. Emerge un certo gergo della politica, sia in reazioni scomposte a provvedimenti giudiziari che in teorizzazioni di un «cronico sviamento della funzione giudiziaria», la cui tesi di fondo è quella di un’anomala interferenza del giudiziario nella sovranità popolare. La polemica fra democrazia e costituzionalismo ha da sempre accompagnato la relazione fra questi due termini, e non siamo noi, alla luce di quanto detto sopra, a non prendere atto della necessità di un adeguamento dell’esercizio della funzione giudiziaria all’ambiente pluralistico del costituzionalismo per principi. C’è, però, qualcosa di nuovo e di diverso in questo gergo della politica, ed è il tentativo di riconquistare una legittimazione perduta mediante la riduzione dei margini di azione di quella che nei decenni recenti, unitamente alle piattaforme digitali e al linguaggio dei social network, è diventata l’alternativa alla presa della politica sulla sfera pubblica: la magistratura.
I partiti non hanno più la legittimazione che conferiva loro l’art. 49 della nostra Costituzione, ha scritto molto bene di recente Giuliano Amato[12]. Il senso del partito politico, per la Costituzione, è nel consentire ai cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». La legittimazione dei partiti non è istituzionale, non deriva dall’elezione negli organi rappresentativi, ma è sociale, discende dalla capacità di rendere il processo di elaborazione della decisione politica un’esperienza di popolo. Partecipare alla determinazione della politica nazionale significa forgiare scelte sul bene comune mediante la continua interazione fra popolo e attori della politica. Questo sono stati i partiti di massa nel corso del trentennio glorioso. Da una certa epoca in poi, è accaduto che, al livello della politica, vi è stata la sclerotizzazione istituzionale dei partiti, mentre, al livello della società, si è assistito all’avvio di processi di frantumazione sociale che hanno condotto all’isolamento dell’individuo nelle piattaforme e all’identificazione del potere pubblico, con cui interloquire, nella magistratura. Il risultato, sul piano sociale è stata la perdita del nesso fra popolo e visione generale e l’esaltazione del particulare. Al declino della partecipazione di popolo alla politica attraverso i partiti sono conseguiti l’imponente astensionismo elettorale e la volatilità degli elettori, che ormai connota le tornate elettorali.
Mentre le piattaforme vanno cavalcate, la magistratura va messa in un angolo. La politica pensa così di riconquistare la legittimazione sociale perduta, ma non è dalla solitudine di colui che naviga sui social che può ripartire la politica come elaborazione dialogica e collettiva del bene comune, e non è sulla base delle piattaforme che può essere ricostruito il “noi” che fonda un’identità collettiva[13]. Quanto all’altro versante, depotenziare le corti ha il solo effetto di sfigurare il volto liberale della democrazia, ma il problema, che è alle origini dello spostamento del cittadino dai circuiti della politica alle aule di giustizia, si ripresenta tale e quale. La politica deve assumersi le sue responsabilità e rifondare la propria legittimazione sociale ricostituendo il senso della partecipazione politica. I partiti devono tornare ad essere ciò che sono nella Costituzione: lo strumento per permettere ai cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
La magistratura, per sua parte, deve difendere la propria autonomia e indipendenza, vero pilastro del costituzionalismo europeo-continentale, ma in modo costruttivo, ricollocando la funzione giudiziaria all’altezza della nuova epoca[14]. In questo modo non solo si scioglie il nodo del corto circuito fra atomizzazione sociale e giudiziario emerso nei decenni recenti, ma si è in grado di porre l’argine più efficace ai tentativi di delegittimazione istituzionale del potere giudiziario, perché in grado di far cadere gli alibi ad ogni tentativo di limitazione del potere delle corti. Resistere comporta sapersi ripensare. Sotto questo aspetto, non c’è da restaurare un ordine perduto e da rimettere le cose al loro posto, per riprendere la domanda da cui siamo partiti. C’è sicuramente da ricostituire un ordine, ma immaginando un futuro, sia per la politica che per la magistratura.
7. Il nuovo secolo e l’incombente democrazia illiberale
Mi avvio alla conclusione. Noi dobbiamo assumere in pieno la responsabilità oggi di cosa è stato il Novecento giuridico. In realtà, la pagina di Michel Foucault con cui ho esordito ci dice che la responsabilità va assunta in relazione all’intero Novecento. Rispetto alle «ontologie attivistiche» e al «risoluto attualismo» del secolo scorso, Peter Sloterdijk invita «a un’inversione del radicalismo, a volgersi verso ciò che è aereo, senza radici, atmosferico», reagendo alla «metafisica della gravità» con «un’ermeneutica dell’esistenza antigravitazionale o sgravata»[15]. Nella seconda metà del secolo il diritto del Continente europeo è entrato in una dinamica di secolarizzazione grazie alla compenetrazione di diritto ordinario e costituzione. Quella dinamica ha significato progresso civile e sociale, ma dobbiamo oggi governare gli esiti di quella secolarizzazione, restaurando (questa volta è termine pertinente) limiti e sfere di sacertà. Va superato il modello di giurisdizione funzionalizzata, generato dalla costituzione-indirizzo fondamentale, ed espressione, più in generale, dell’epoca di pensiero attuoso descritta dalla pagina foucaultiana da cui siamo partiti. Quel modello non è più compatibile con la fase del costituzionalismo per principi.
È questa un’esigenza che diventa ancora più forte se ci guardiamo intorno e ci accorgiamo che parlare di democrazia illiberale oggi non è più un tabù. È in discussione in settori dell’Occidente lo Stato di diritto, la soggezione della maggioranza che si forma nella procedura democratica ai vincoli dell’ordinamento costituzionale. Proprio quando viene messa in discussione la sottoposizione del potere politico alla legge, è necessario che il primato del diritto debba essere fatto valere come tale, sgravato (direbbe Sloterdijk) dei condizionamenti dell’etico-politico. Alla politica che non tollera limiti bisogna contrapporre la forza del giuridico ut sic, liberato di ogni radice etico-politica. A chi vuole sottrarsi alle regole bisogna contrapporre regole e non principi, perché contrapporre principi rischia di farci compartecipi inconsapevoli della riduzione del diritto a scontro fra visioni etico-politiche, che è l’obiettivo finale dei fautori della democrazia illiberale. Non più diritto, ma solo politica. Diventiamo anche noi, senza saperlo e mossi dalle migliori intenzioni, attori di quello scontro dominato dalla forza, ultima manifestazione e, allo stesso tempo, deriva radicale del primato novecentesco dell’azione trasformatrice, la quale, sganciata dai vincoli liberali che il dare voce a tutti impone, diventa ultra-democrazia e, in ultima analisi, tirannia della maggioranza. Alla riduzione del diritto a contrapposte visioni etico-politiche, che il neo-dispotismo democratico persegue, per riprendere un’espressione cara a Tocqueville, bisogna avere la capacità di opporre il diritto, il quale, oggettivandosi e acquistando neutralità (aerea e senza radici, direbbe ancora Sloterdijk), è diventato regola sia per il cittadino che per il potere. Ben lungi da quello attuoso novecentesco, il pensiero critico nel nuovo secolo potrebbe essere quello antigravitazionale della neutralità e della trascendenza.
[1] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1978, p. 353 (ed. or.: Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Gallimard, Parigi, 1966).
[2] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2017, p. 191.
[3] Il contenuto essenziale del principio, corrispondente al minimo non comprimibile, corrisponde al “bene” pensando al quale la norma costituzionale è stata posta: «man mano ci si allontani da quel centro, la protezione si indebolisce e subisce i compromessi che derivano dalla necessità di proteggere altre situazioni» (R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Franco Angeli, Milano, 2018, p. 43).
[4] Il moderno precetto dell’eguaglianza formale converge qui con il pensiero conservatore (Augusto Del Noce, Eric Voegelin, Leo Strauss), che guarda al primato dell’essere sull’azione, il che ricompone il conflitto che Isaiah Berlin ravvisa fra la razionalizzazione illuministica e il pluralismo del reale opposto dal Romanticismo (I. Berlin, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano, 2001, pp. 183 ss.).
[5] Esemplare in questa direzione è N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2013.
[6] Per una esemplificazione dell’indicazione di metodo della rilevanza ermeneutica dei principi, entro il limite del rispetto delle esigenze dogmatiche degli elementi costitutivi della fattispecie normativa, rinvio a E. Scoditti, Danno da cose in custodia, voce dell’Enciclopedia del diritto, VII, Responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 2024, pp. 281 ss., ove si dimostra anche come l’integrale appropriazione della fattispecie da parte di criteri materiali di valore determini l’obliterazione di elementi normativi. Non è inutile aggiungere che, come ha dimostrato la storiografia, fu l’elevata sublimazione tecnica della civilistica italiana che permise l’impermeabilità dell’elaborazione del Codice civile all’influsso dell’ideologia fascista, a dimostrazione di quanto la neutralità assiologica della tecnica preservi il diritto dai condizionamenti della politica.
[7] L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano, 1996, p. 125.
[8] Giuffrè, Milano, 1992, p. 41.
[9] Per una declinazione pluralistica di norma fondamentale, quale molteplicità illimitata di regole di bilanciamento proporzionato dei principi in relazione alle innumerevoli circostanze concrete, rinvio a E. Scoditti, Corti e carte dei diritti: il diritto come potenzialità, in Rivista di filosofia del diritto, n. 2/2013, pp. 411 ss.
[10] Se il giudice rileva che, mediante la lacuna legislativa, si consuma la lesione del contenuto essenziale di un principio costituzionale, o la sua compressione non proporzionata, deve sollevare l’incidente di costituzionalità, perché non di mera inerzia legislativa si tratta, ma dell’inadempimento a un obbligo giuridico di legiferare, e dunque di un’omissione, che spetta al giudice costituzionale accertare. Non è invece incostituzionale, sotto il profilo del diritto ad agire in giudizio, la mera inerzia legislativa, perché la controversia può comunque essere risolta mediante la diretta applicazione della costituzione. Fare di ogni inerzia legislativa una illegittimità costituzionale condurrebbe, peraltro, al “suprematismo giudiziario” di un tribunale costituzionale esecutore in ultima istanza del programma costituzionale rimasto inattuato (cfr. A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, e Id., Positivismo giudiziario. Appunti a partire dalle c.d. omissioni legislative, in Quaderni costituzionali, rispettivamente n. 2/2019, pp. 251 ss., e n. 1/2024, pp. 127 ss.), sul presupposto che la costituzione non sia altro che un progetto completo di società cui prestare attuazione (prospettiva su cui mi sono criticamente intrattenuto in Trasformazioni della costituzione materiale, op. cit.).
[11] L’evoluzione del tradizionale sindacato per eccesso di potere in quello di ragionevolezza, improntato al criterio della proporzionalità, permette al giudice amministrativo di accertare un fondo non comprimibile nell’interesse legittimo, quando la norma attributiva del potere amministrativo derivi da un bilanciamento relativo a un diritto fondamentale: il nucleo di intangibilità si manifesta, però, non sul piano della norma (si tratterebbe altrimenti di un diritto soggettivo), ma del fatto, nel quale risiede il vincolo per l’autorità amministrativa (E. Scoditti, Per una teoria costituzionale dell’interesse legittimo, in Foro it., 2022, V, cc. 162 ss.).
[12] G. Amato, Senza i partiti. Costituzione e partecipazione, oggi, in G. Amato, A. Barbera, E. Cheli, A. Manzella, Non solo sulla Carta. Quattro lezioni necessarie sulla Costituzione, Il Mulino, Bologna, 2025, pp. 37 ss.
[13] Sulla funzione, invece, che possono avere nella ricostituzione di un legame sociale i corpi intermedi e gli enti del cd. terzo settore, nel quadro di una possibile complementarità con i partiti politici, vds. F. Bassanini, T. Treu, G. Vittadini (a cura di), Comunità intermedie, occasione per la politica, Il Mulino, Bologna, 2024.
[14] La specificazione “europeo-continentale” del costituzionalismo – nel testo – non è casuale: l’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario da ogni altro potere, nell’Europa continentale, rappresenta l’eterogenesi dei fini del funzionario di derivazione napoleonica, una volta che la nomina per concorso, da mera collocazione in un apparato amministrativo, sia divenuta, grazie al governo autonomo affidato al Consiglio superiore della magistratura, garanzia, per l’appunto, di autonomia e indipendenza. La scelta del Costituente italiano, dopo l’esperienza del totalitarismo fascista, fu quella di prevedere una magistratura indipendente dal potere politico, e nomina per concorso e governo autonomo ne furono gli strumenti. Nel costituzionalismo americano, dove la magistratura ha invece una genesi politico-costituzionale, l’autonomia del potere giudiziario è piuttosto l’esito del sistema di pesi e contrappesi che caratterizza quell’ordinamento.
[15] P. Sloterdijk, Che cosa è successo nel XX secolo?, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, pp. 76 ss.
Il testo costituisce uno sviluppo del nostro Trasformazioni della costituzione materiale e magistratura: un manifesto, in Questione giustizia online, 10 febbraio 2025, a cui si fa necessario rinvio (www.questionegiustizia.it/articolo/trasformazioni-della-costituzione-materiale-e-magistratura-un-manifesto).