1. Questa rivista si è occupata più volte di Mario Amato, il magistrato ucciso a Roma, il 23 giugno 1980, da due esponenti dei Nar[1], mentre aspettava l’autobus con cui avrebbe raggiunto il suo ufficio a Piazzale Clodio. In particolare, in un articolo del 2007, Betta Cesqui, nell’illustrare il clima sconfortato e sconfortante della Procura della Repubblica giunse la notizia dell’uccisione di Amato, sottolineava che «La ricostruzione di quella vicenda [...] attende ancora di essere fatta. I tempi sono ormai maturi per guardare a come quegli anni ci vengono restituiti dagli atti dei processi con il margine di distacco richiesto allo storico e sarebbe forse il caso di porvi mano. Specie ora che, a leggere la pubblicistica che negli ultimi anni ha ripreso quota, sembra crescere un’ondata revisionista e giustificazionista»[2].
Quella sollecitazione, tanto più pressante perché resa acuta dalla regressione del contesto culturale e politico in atto già allora ed aggravata oggi, è stata finalmente raccolta da Mario Di Vito che, dopo le ricerche sulle Brigate Rosse e sugli anarchici[3], ha dato alle stampe uno stimolante e documentato libro, Il nero dei giorni. Storia del giudice Amato, delle sue indagini e del suo omicidio (Laterza ed., 2025).
Di Vito non è uno storico, ma un attento giornalista che ogni giorno racconta e analizza per i lettori de Il Manifesto fatti e avvenimenti, sempre offrendo una pertinente chiave di lettura per collocarli nell’adeguato contesto spaziale e temporale, consentendo a chi legge non soltanto la piena comprensione del singolo fatto, ma anche la connessione con la trama di eventi in cui esso si inserisce. Metodo fecondo e collaudato nel suo lavoro di cronista e di scrittore, funzionale a consentire ricostruzioni approfondite e attendibili che, senza avere pretesa e tanto meno saccenza accademica, mettono i lettori in condizione di capire dinamiche complesse e pezzi di storia del Paese, soprattutto di quelli più accidentati e terribili in cui più drammatica è stata la sfida tra la Repubblica democratica e gruppi e aggregazioni minoranze che non hanno esitato a utilizzare anche la violenza e il terrore per interrompere e deviare il processo democratico di attuazione della Costituzione.
«L’identità della nostra Repubblica – ha ricordato il presidente Mattarella in una commemorazione dei magistrati uccisi nel 1980[4] – è stata drammaticamente segnata dagli anni del terrorismo, per sconfiggere il quale l’Ordine giudiziario ha fornito un contributo decisivo». Magistrati che erano «consapevoli dei rischi cui erano esposti e li hanno coraggiosamente affrontati per rispetto della dignità propria e di quella del loro compito di magistrati. Hanno svolto la loro attività, con coraggiosa coerenza e autentico rigore, senza rincorrere consenso ma applicando la legge. Fedeli soltanto alla Costituzione». Come è dovere di ogni magistrato.
2. Di Vito rinnova e ci restituisce la memoria di anni terribili e di un magistrato impegnato e tenace nel perseguire il suo compito, nonostante le condizioni proibitive in cui fu costretto a operare per tre anni, sino alla morte. Il libro dovrebbe essere letto soprattutto dai giovani, e particolarmente dai giovani magistrati che non hanno vissuto gli anni ’70, il decennio cruciale delle più avanzate riforme attuative della Costituzione, ma anche di vicende buie e di trame ordite contro la democrazia repubblicana (basti pensare alla uccisione di Aldo Moro). Il libro si sofferma sul lato oscuro e nero di quel decennio, sugli «anni del terrore in Italia, nei quali» – scrive Di Vito – «Roma è un campo di battaglia […] quando essere dei militanti esponeva a rischi di vario genere: quello di finire in galera o di essere uccisi dalla polizia, ad esempio. Ma anche quello di farsi spaccare la testa o ammazzare dai camerati. E’ vero anche il contrario: nemmeno loro, i camerati, possono vivere tranquilli. Può capitare di uscire di casa una sera e poi di non farci più ritorno, in una spirale perversa di vendette per precedenti vendette in cui è impossibile risalire fino al punto zero».
Sul versante istituzionale, erano anni di grave inefficienza organizzativa degli uffici giudiziari, di incompetenza e irresponsabilità della gran parte dei dirigenti, più interessati alla rappresentanza formale nelle cerimonie pubbliche che all’efficacia ed efficienza della giustizia; anni nei quali anche ai magistrati poteva accadere di uscire di casa al mattino con il rischio di non avere la possibilità di ritornare, come tante volte (troppe volte!) tragicamente accadde.
Di Vito descrive la disorganizzazione, anzi lo sfascio della Procura romana, sia per mancanza di strumenti materiali e di autovetture (blindate e non), sia per la particolare grave irresponsabilità e indifferenza del suo capo, che si sottraeva persino dall’onere di firmare un mandato di cattura in caso di urgenza e di assenza dei sostituti, lasciando Amato in totale solitudine contro la criminalità politica di destra, nonostante i numerosi segnali di allerta per l’incolumità di quel magistrato, divenuto il nuovo bersaglio dell’eversione nera, come quattro anni primo era stato Vittorio Occorsio.
3. Il racconto parte dal famoso documento del 12 febbraio 1980, firmato da 34 sostituti della Procura di Roma. Un fatto clamoroso, nel quale i magistrati chiesero al Csm un’inchiesta sul proprio ufficio e sul diffuso discredito che lo circondava, determinato anche dall’inefficienza e l’incompetenza di chi lo dirigeva. Quel documento fu in sostanza una forte richiesta di “fare luce” sul porto delle nebbie, secondo la nota espressione utilizzata da Stefano Rodotà per qualificare l’attività della procura romana.
Nelle due audizioni di Amato (25 marzo e 13 giugno), nel corso dell’inchiesta aperta dal Csm, emerse incontestabilmente che il Procuratore capo gli aveva irresponsabilmente assegnato, appena da Rovereto giunse alla procura di Roma nel 1977, tutti i 600 fascicoli già affidati a Vittorio 0ccorsio, il quale – proprio per essere l’unico magistrato che si occupava del terrorismo di destra – era stato individuato come bersaglio e ammazzato da Pierluigi Concutelli, esponente di Ordine Nuovo, nel luglio del 1976.
Mario Amato, nelle stesse difficili condizioni di Occorsio, fu l’unico sostituto incaricato di occuparsi dell’eversione di destra, particolarmente attiva a Roma, e tentò di supplire, con un massacrante lavoro individuale, alle carenze organizzative e strumentali, cercando di cogliere le connessioni tra i protagonisti della violenza politica di destra (tra cui rampolli della classe media e professionale romana ben introdotta in tutti gli ambienti di potere, compresi quelli giudiziari), i delitti commessi, le armi utilizzate, di cui prendeva personalmente nota così come era costretto ad ascoltare personalmente e senza alcun aiuto le intercettazioni telefoniche.
«Lasciato solo in una Procura allo sbando», è la sintetica valutazione sull’esito dell’inchiesta consiliare formulata da Di Vito, che non manca di ricordare la falsa e stupida accusa che gli ambienti reazionari facevano circolare nei confronti di Amato, di essere un magistrato di Md che pretendeva «inventare il terrorismo nero».
Il quadro che emerse dall’inchiesta fu tanto sconvolgente da imporre il trasferimento di ufficio del procuratore di Roma (provvedimento allora inaudito per un capo di ufficio), soprattutto per la desolante condizione di solitudine in cui era stato lasciato Amato (non a caso il capitolo di esordio è intitolato L’uomo più solo), nonostante le sue reiterate richieste di aiuto e di collaborazione, anche per necessità di condividere con altri le conoscenze accumulate tra le diverse sigle e i diversi personaggi dell’eversione nera. Amato era drammaticamente consapevole dei rischi: «Affiancandomi dei colleghi» – affermò dinanzi al Csm – «sarebbe possibile sia ridurre in rischi propri della personalizzazione dei processi, sai darmi un confronto in quanto se dei colleghi giungessero a conclusioni analoghe alle mie sarebbe evidente che le stesse non sarebbero frutto della mia asserita faziosità».
Dopo l’assassinio di Occorsio, era assolutamente evidente che – in mancanza di una minima banca dati e di qualsiasi condivisione del lavoro con altri colleghi – sarebbe toccato a lui: ciò accadde esattamente dieci giorni dopo l’audizione dinanzi al Csm, il 23 giugno. Non potendo contare su una autovettura di ufficio (l’autista cominciava il suo servizio giornaliero alle 9!), prima delle 8 si recò alla fermata dell’autobus in viale Ionio[5]. Venne ucciso da due uomini[6] a bordo di una Honda 400 («La morte di un giudice alla fermata dell’autobus» è l’efficace intitolazione del secondo capitolo). Nel documento di rivendicazione i Nar scrissero: «abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore dott. Mario Amato: per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei Camerati» (sottolineatura aggiunta).
Seguirono polemiche, proteste, interrogazioni parlamentari, imbarazzanti risposte del ministro della giustizia. La realtà è che tutti sapevano (negli uffici giudiziari romani, negli apparati di polizia, al ministero della giustizia) la verità urlata dal giudice istruttore Antonino Stipo: «Amato era una banca vivente dei dati dell’eversione nera, quindi un obiettivo ben preciso». Nessuno però aveva mosso un dito, tanto meno il capo della procura romana, che ebbe la spudoratezza di affermare: «Mario Amato è morto per eccesso di zelo. Se non si fosse preoccupato di arrivare puntuale in aula, lunedì mattina avrebbe avuto la scorta»! Era lo stesso uomo che qualche anno prima, censurando i magistrati che si lasciano ispirare dai loro orientamenti ideologici e sociologici, si chiedeva «E’ possibile risalire la china, superare la crisi, dopo questo medioevo che è iniziato nel 1943 [...]?»[7].
Una nota ufficiale del Quirinale, dopo un incontro del Presidente della Repubblica con i magistrati della procura di Roma e i ministri competenti, fece sapere che i ministri dell’Interno e della Giustizia avevano «assunto l’impegno, a nome del Governo, di portare a termine l’attuazione delle misure già in corso per la protezione dei magistrati più esposti nelle indagini sul terrorismo».
Come spesso accade in Italia, ci fu bisogno dell’ennesima tragedia per determinare una svolta, per molto tempo inutilmente sollecitata, sia nell’attività di protezione dei magistrati, sia nell’organizzazione degli uffici inquirenti: fu proprio l’uccisione di Amato a determinare la formazione di banche dati e l’istituzione di pool di magistrati che si occupavano della stessa materia o di materie affini.
Merita di essere di ricordato che, in tanto vociare di indignazione e rammarico, tardivo e talvolta ipocrita, e tra non isolate richieste di più dure misure repressive, per equilibrio e saggezza si elevarono le parole del cardinale Poletti, che officiò il rito funebre di Amato: «I brigatisti, di qualsiasi organizzazione, sono seminatori di morte. Vorrebbero la pena di morte per poter dire, con infamia: ecco, siamo in guerra, siamo prigionieri politici. No! I terroristi sono delinquenti comuni, con il primato della crudeltà».
Dopo qualche settimana, il 2 agosto. il Paese fu sconvolto dalla strage della stazione di Bologna, che gettò tutti nello sgomento e sospese le nostre vite. Strage materialmente realizzata da Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Gilberto Cavallini, cioè gli stessi autori dell’omicidio di Mario Amato, a cui si aggiunse Paolo Bellini (proveniente da Avanguardia nazionale), condannato con sentenza passata in giudicato a seguito della recentissima decisione della Corte di cassazione.
Come è noto, la storia non si fa con i se, eppure viene spontaneo domandarsi se una diversa organizzazione di prevenzione e protezione dei magistrati non avrebbe consentito di poter fermare per tempo Fioravanti, Mambro, Cavallini e Ciavardini (già entrati nel raggio di investigazione di Mario Amato), cioè proprio gli autori della strage di Bologna.
4. Il libro, come scrive lo stesso autore, non è soltanto la biografia di Mario Amato, ma anche delle sue indagini e della tante altre ad esse collegate. Basta scorrere il lungo elenco delle vicende trattate e dei nomi dei loro attori (oltre ai fratelli Fioravanti, a Mambro, Cavallini e Ciavardini, anche Paolo Bellini, Alessandro Alibrandi, Luigi Concutelli, Aldo Semerari, Paolo Signorello, Gennaro Mokbel, Massimo Carminati, per non parlare di Licio Gelli e gli altri mandanti ) per condividere la definizione data dallo stesso Di Vito al suo lavoro: «un romanzo giudiziario», un romanzo giallo che si tinge frequentemente di sangue. Del romanzo il libro ha l’intreccio del titolo e sottotitolo, i titoletti dei singoli capitoli (con evocazioni che rimandano da Márquez a Miller a Gobetti, ma anche da Gino Paoli a Fabrizio De Andrè) la cadenza, le partizioni (non cronologicamente sequenziali ma tematiche), le connessioni, i ritorni all’indietro (come flashback) per rintracciare radici e precedenti, avvisaglie, segnali che erano stati trascurati o non colti per tempo (per incompetenza, per superficialità o peggio) al fine di rintracciare i fili e riannodarli per spiegare e per capire.
Appare all’evidenza una maniera di rendere omaggio alle modalità di ricerca di Mario Amato, che grazie a quel metodo si stava avvicinando a quella «verità d’assieme» di cui parlò alla prima commissione del CSM in sede di audizione: «Sto arrivando a una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli atti criminosi»[8].
Una verità d’assieme che Amato aveva intravvisto e che perseguiva con tenacia, tra mille difficoltà. L’uccisione da parte dei Nar interruppe il cammino e «quella verità è uscita solo a pezzi, senza una forma precisa», rileva Di Vito, che prova egli stesso «a raccogliere quei pezzi, mostrando, sin dove è possibile, come si incastrano tra di loro». E quasi alla fine della sua ricerca, nel rilevare che Amato «la sua inchiesta sulla verità d’assieme non è riuscito a finirla», Di Vito evidenzia con gratitudine «la fatica dell’intuizione» di quel magistrato, sottolineando che «non sono le sentenze, ma la storia politica italiana a dirci quanto le intuizioni di Amato fossero giuste», a cominciare da una costatazione che Di Vito sottolinea: «se per quello che riguarda il terrorismo di sinistra siamo in grado di ricostruire quasi al millimetro gli spostamenti dei coinvolti e al minuto le loro giornate, per quello che riguarda i neri la chiarezza non c’è mai. Ogni verità ha una sua versione alternativa, ogni volta che qualcuno sembra sul punto di aver afferrato il senso di tutto, questo sfugge via e scompare nel nulla».
Prezioso perciò l’aiuto che questo libro ci offre non solo nel ripercorrere mezzo secolo di “fascistume” e neofascismo italiano attraverso gli atti giudiziari, evidenziando anche l’inconcludenza e i punti deboli di tanti procedimenti giudiziari, ma valorizzando ciò che siamo venuti a sapere, anche in mancanza di piena verità processuale. L’analisi del «nero dei giorni» cioè di «un percorso nel caos delle trame nere del nostro paese» trova un epilogo (provvisorio?) nella ultime pagine, dedicate al tentativo di smantellamento dell’assetto costituzionale della Repubblica da parte dell’attuale maggioranza di governo, e segnatamente di Fratelli d’Italia, che «non trae le suo origini dal Partito nazionale fascista, ma piuttosto dal Partito fascista repubblicano, quello di Salò» e si collega con i progetti del fascista e neofascista Giorgio Almirante.
Non meraviglia dunque che, per Mario Di Vito, il «cerchio si chiude» a fine settembre 2022 al Parco dei Principi, dove «il partito neofascista va a festeggiare la riconquista del potere», nello stesso albergo dove si tenne, «dal 3 al 5 maggio 1965, il Convegno sulla guerra rivoluzionaria, organizzato dall’Istituto di studi militari “Alberto Pollio”, con la partecipazione di une parterre incredibile: Pino Rauti, Guido Giannettini, Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Giorgio Pisanò». E’ il risultato dell’«autopsia della nazione», che dà il titolo al capitolo (per ora) conclusivo.
[1] Responsabili dell’omicidio furono furono Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini (esecutori), in concorso con Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, tutti componenti dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari).
[2] E. Cesqui, Come eravamo, in Questione giustizia trimestrale, n. 4/2007.
[3] M. Di Vito, Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate Rosse, Feltrinelli, 2022; Id., La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito, Feltrinelli 2023.
[4] Intervento nella cerimonia al Quirinale 18 giugno 2020 per commemorare Mario Amato, Gaetano Costa, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Rosario Livatino e Girolamo Minervini.
[5] Il contenuto dell’audizione è riportato nel libro per ampi stralci. Per la lettura integrale v. Questione giustizia trimestrale n.4/2007.
[6] Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini esecutori materiali, concorrenti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
[7] G. De Matteo, Società moderna e giustizia (II), in Politica & Strategia, n. 8, settembre 1974, p.173.
[8] AA. VV., Nel loro segno. In memoria dei magistrati uccisi dal terrorismo e dalle mafie, Consiglio superiore della magistratura, 2011.