Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di giugno 2025

di Chiara Buffon , Alessandro Dinisi , Giulia Battaglia
dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di giugno 2025

Le pronunce di giugno della Corte Edu qui selezionate riguardano la prescrizione di reati entro cui sussumere fatti di tortura; la portata discriminatoria dei controlli d’identità su strada effettuati dalla polizia; l’estensione e l’adeguatezza del consenso informato.

In Cioffi c. Italia, la Corte di Strasburgo, in relazione a un episodio di scontri tra forze dell’ordine e manifestanti durante il terzo Global Forum on Reinventing Government, torna a censurare la disciplina italiana sulla prescrizione, soprattutto con riguardo a reati entro cui sussumere fatti di tortura rilevanti ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, prospettando un difetto sistemico.

In Seydi e altri c. Francia, la Corte verifica se i controlli d’identità operati dalla polizia francese, sospettati di costituire profiling etnico o razziale, avessero violato il diritto al rispetto della vita privata e il divieto di discriminazione, ai sensi de gli artt. 8 e 14 della Convenzione.

Infine, S.O. c. Spagna concerne il consenso prestato da una paziente oncologica a un’operazione di chirurgia conservativa rivelatosi, in seguito, un intervento più esteso. Secondo la Corte, nonostante la conformità del quadro normativo sul consenso informato ai principi della Convenzione di Oviedo, le autorità giurisdizionali non avevano esaminato in maniera adeguata le doglianze della ricorrente relative alla mancanza di un valido consenso all’ampliamento dell’intervento, trascurando, peraltro, aspetti importanti concernenti la tutela della sua integrità psico-fisica.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 5 giugno 2025, ric. n. 17710/15, Cioffi c. Italia

Oggetto: art. 3 della Convenzione (divieto di tortura) – scontri tra forze dell’ordine e manifestanti e successivo trattenimento in caserma – apertura di un procedimento penale, a carico di diversi agenti, per sequestro di persona con abuso di autorità, perquisizione e ispezione arbitrarie, danneggiamento, abuso d’ufficio, falsità ideologica in atti pubblici, violenza privata – proscioglimento per prescrizione – sospetta incompatibilità tra divieto di tortura, obbligo di perseguire i colpevoli e disciplina domestica sulla prescrizione.

Nell’ambito del terzo Global Forum on Reinventing Government, alcuni manifestanti tentavano di rimuovere cordoni e transenne a tutela della “zona rossa” (ove il forum si stava svolgendo). Le forze dell’ordine caricavano per impedire loro l’accesso e i membri della folla reagivano lanciando oggetti contundenti.

Diversi feriti raggiungevano, in autonomia o a bordo di ambulanze, gli ospedali più vicini, ma gli agenti e le pattuglie sopraggiunti presso gli ospedali ricevevano l’ordine di trasferire i primi alla stazione di polizia Virgilio Raniero. Il ricorrente, in particolare, veniva condotto alla stazione tra le 12:30 e le 13:00 e rilasciato verso le 17:30.

Trentuno agenti venivano sottoposti a procedimento penale per sequestro di persona con abuso di autorità, perquisizione e ispezione arbitrarie, danneggiamento, abuso d’ufficio, falsità ideologica in atti pubblici, violenza privata e, per quel che qui interessa, per lesioni ai danni del ricorrente.

Il Tribunale accertava i maltrattamenti subiti dai manifestanti durante le ore di trattenimento in caserma; il trattenimento di soggetti che non avevano partecipato alla manifestazione; nei confronti del ricorrente, gli insulti, le lesioni e gli abusi di autorità. 

In sentenza, il tribunale assolveva gli agenti ritenuti estranei ai fatti; dichiarava rispetto alcuni la prescrizione di diversi reati; pronunciava condanna nei confronti degli agenti ritenuti responsabili dei reati di sequestro di persona aggravato e violenza o minaccia per costringere a commettere un reato; concedeva l’indulto a taluni imputati.

La Corte di appello dichiarava la prescrizione del reato di sequestro di persona, annullava la pena accessoria della sospensione dall’esercizio delle funzioni, rideterminava la pena per la coercizione criminale, riconoscendo il beneficio della non menzione nel casellario; infine, confermava la condanna al risarcimento ma rinviava la liquidazione dei danni.

Sotto il profilo disciplinare, solo due agenti sono stati sottoposti a procedimento disciplinare, uno prosciolto, l’altro sottoposto a richiamo per cui pende ricorso al TAR.

Dinanzi alla Corte, il governo solleva un’eccezione di inammissibilità per mancanza dello status di vittima, rilevando come, nonostante la prescrizione, i giudici domestici avessero accertato il maltrattamento e il ricorrente avesse ottenuto una condanna al risarcimento del danno; la Corte afferma, però, che siffatta eccezione deve essere vagliata col merito della causa.

Nel merito, la Corte ritiene innanzitutto provati i maltrattamenti, in base all’accertamento dei medesimi già compiuto dai giudici nazionali.

Ciò posto, quando un individuo sostiene in modo plausibile di aver subito maltrattamenti da parte delle autorità statali in violazione dell’art. 3 della Convenzione, tale disposizione richiede implicitamente che vi sia un’indagine ufficiale effettiva. Nel valutare l’efficacia di un’indagine, la Corte considera il suo esito e quello del procedimento penale che ne è seguito, compresa la sanzione inflitta e le misure disciplinari adottate. Inoltre, quando l’accusa di maltrattamento ricade su agenti dello Stato, il decorso della prescrizione (così come la concessione della grazia o dell’amnistia) non sembra compatibile con la Convenzione (Abdülsamet Yaman c. Turchia, n. 32446/96, § 55, 2 novembre 2004) e misure quali la sospensione dal servizio o il licenziamento sembrano opportune, rispettivamente, durante il processo o dopo la condanna.

Nel caso di specie, la prescrizione dei reati, come disciplinata dal diritto interno allora applicabile, ha impedito di accertare la responsabilità penale e di punire i responsabili del maltrattamento. La Corte ricorda che già in Cestaro c. Italia aveva invitato l’Italia a introdurre meccanismi giuridici idonei a impedire che i responsabili di tortura o altri maltrattamenti potessero beneficiare della prescrizione. Inoltre, la sospensione delle pene irrogate per la coercizione criminale non sembra adeguata alla gravità dei fatti per cui gli agenti sono stati condannati. In definitive, la Corte non è convinta che la risposta complessiva delle autorità ai maltrattamenti possa essere considerata adeguata in termini di capacità di punitiva e deterrente, sicché i requisiti di un’indagine efficace non sono stati pienamente soddisfatti nel caso di specie.

Con opinione dissenziente, i giudici Serghides e Adamska-Gallant stigmatizzano la scelta della maggioranza di non vagliare né l’ammissibilità né la fondatezza delle doglianze formulate ai sensi degli artt. 5 e 13 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 26 giugno 2025, ric. n. 35844/17, Seydi e altri c. Francia

Oggetto: art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 della Convenzione (divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata) – accuse di discriminazione durante i controlli d’identità in strada – motivazione delle decisioni dei tribunali nazionali – esistenza di un quadro giuridico e amministrativo compatibile con la Convenzione – assenza prima facie di prove di atteggiamenti discriminatori basati su motivi razziali – esistenza di prove gravi, precise e concordanti circa il trattamento discriminatorio subito da uno dei ricorrenti. Art. 13 (diritto a un rimedio effettivo).

I ricorrenti, sei cittadini francesi (che si descrivevano come di origine africana o nordafricana), venivano sottoposti a controlli di identità da parte della polizia. A seconda del ricorrente, i controlli avevano diversa natura e motivazione: controlli «su richiesta» previa autorizzazione del pubblico ministero, al fine di individuare i responsabili di taluni reati, controlli «spontanei» o «di routine» o per «ordine pubblico» o «preventivi». Alcuni ricorrenti venivano controllati più volte nell’arco di pochi giorni.

I ricorrenti inviavano una lettera al Ministro dell’Interno, chiedendo di conoscere i motivi dei controlli subiti. Il Ministero rispondeva che avrebbe incaricato la Direzione Generale della Polizia Nazionale di effettuare una verifica. Non avendo ricevuto ulteriori notizie, i ricorrenti adivano il Tribunal de Grande Instance di Parigi nei confronti del Governo e del Ministro dell’Interno. Sostenendo che i controlli fossero stati discriminatori, chiedevano che lo Stato fosse ritenuto responsabile per il malfunzionamento della giustizia (art. L. 141-1 del Code de l’organisation judiciaire). Gli agenti coinvolti non erano stati identificati e, non essendo seguite procedure di diritto penale, non era stato redatto alcun verbale.

Il Tribunal de Grande Instance di Parigi rigettava le azioni dei ricorrenti. Tutti presentavano appello. Il Défenseur des droits – un’istituzione indipendente col compito di garantire la tutela dei diritti degli individui – interveniva in ciascun procedimento. Con sei sentenze del 24 giugno 2015, la Corte d’appello di Parigi confermava le decisioni di primo grado, ritenendo che non vi fosse stata discriminazione. I ricorrenti ricorrevano per cassazione. Con sei decisioni, la Cour de cassation rigettava i ricorsi, escludendo ogni colpa grave o discriminazione.

I ricorrenti si sono allora rivolti alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata) in combinato disposto con l’art. 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione, in quanto i controlli di identità subiti costituivano una forma di profiling etnico o razziale. Denunciano, inoltre, la violazione dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo) a causa dell’assenza di rimedio efficace per ottenere l’esame del loro reclamo ai sensi dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8.

La Corte valuta il rispetto dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 scomponendo la questione nel suo aspetto procedurale e sostanziale. 

Rispetto al profilo procedurale, viene in rilievo la presunta omissione nell’accertare se vi fossero motivi discriminatori alla base dei controlli d’identità. 

Per accertare il rispetto degli obblighi procedurali, la Corte fa applicazione dei principi sviluppati nella sua precedente giurisprudenza (cfr. in particolare Basu c. Germania, ric. n. 215/19, 18 ottobre 2022; Muhammad c. Spagna, ric. n. 34085/17, 18 ottobre 2022; Wa Baile c. Svizzera, ric. nn. 43868/18 e 25883/21, 20 febbraio 2024), secondo cui la discriminazione razziale è una forma di discriminazione particolarmente ingiusta che, data la pericolosità delle sue conseguenze, richiede una particolare vigilanza e una risposta vigorosa da parte delle autorità, che devono utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per combatterla. In particolare, qualora la persona interessata possa sostenere in modo argomentato di essere stata sottoposta a un controllo dell'identità a causa delle sue caratteristiche razziali e il controllo è stato effettuato solo su di lei (o su persone con le sue stesse caratteristiche), anche se non era evidente alcun altro motivo per il controllo o è chiaro dalle spiegazioni dei funzionari che lo hanno effettuato che era motivato dalle caratteristiche fisiche o etniche della persona l'interferenza derivante dall'atto (soglia di gravità), le autorità hanno il dovere di indagare sull'esistenza di un possibile legame tra atteggiamenti discriminatori per motivi razziali e l'atto di un pubblico. Rispetto al controllo giurisdizionale, i giudici nazionali devono motivare in modo sufficientemente dettagliato le loro decisioni, in particolare per consentirle di svolgere il controllo di fronte alla CEDU. Una motivazione insufficiente da parte dei giudici nazionali, senza un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco, è di per sé contraria ai requisiti dell’art. 8 della Convenzione. 

La Corte verifica quindi se i tribunali competenti abbiano debitamente esaminato l’accusa di profiling razziale ed emesso decisioni sufficientemente motivate al riguardo. Nel caso di specie, rileva che i giudici nazionali avevano adeguatamente svolto tale verifica. I ricorrenti avevano visto i loro casi esaminati dal Tribunal de Grande Instance, dalla Corte d’appello e dalla Cour de Cassation, che avevano adottato decisioni concordi dopo un’analisi accurata delle prove fornite. In particolare, Corte d’appello e Cour de cassation avevano applicato un onere della prova favorevole ai ricorrenti: poiché in Francia non si tiene alcun registro dei controlli di identità, i giudici nazionali avevano ritenuto che i ricorrenti potessero fornire indizi forti, chiari e concordanti, creando una presunzione di discriminazione, lasciando poi allo Stato l’onere di dimostrare la legittimità dei controlli.

La Corte conclude che i giudici nazionali avevano adempiuto al loro dovere di verificare l’esistenza di motivi discriminatori, conducendo un esame equilibrato, obiettivo e completo della documentazione presentata. In ciascun caso, i giudici avevano ritenuto insufficienti le prove di una differenziazione di trattamento. Non c’è stata pertanto violazione dell’art. 14 combinato con l’art. 8 sotto il profilo procedurale.

Rispetto invece al profilo sostanziale, la Corte verifica l’effettiva natura discriminatoria dei controlli. In tale materia, i principi generali elaborati dalla Corte prescrivono, innanzitutto, l’obbligo positivo di istituire un quadro giuridico e amministrativo che consenta loro di adempiere ai doveri previsti dalla Convenzione, in particolare di proteggere le persone vulnerabili. Inoltre, quando vengono in gioco accuse di discriminazione, vige il principio dell'affirmanti incumbit probatio per quanto riguarda le prove. Spetta quindi al ricorrente dimostrare di essersi trovato in una situazione paragonabile a quella di altre persone che hanno ricevuto un trattamento diverso, tenuto conto della natura particolare del suo reclamo. Si tratta di una prova prima facie che, se raggiunta, ha l’effetto di trasferire l'onere della prova contraria in capo allo Stato convenuto. Affunché tale prova sia raggiunta sono sufficienti un insieme di elementi di prova sufficientemente seri, precisi e corroboranti. Inoltre, il grado di convinzione richiesto per giungere a una determinata conclusione e, a tale riguardo, la ripartizione dell'onere della prova sono intrinsecamente legati alla specificità dei fatti, alla natura dell'accusa formulata e al diritto della Convenzione in gioco. Tra tali elementi di prova possono essere considerati – anche se non sufficienti da soli - i dati statistici sull'esistenza di una differenza di trattamento tra due gruppi in una situazione simile nonché i rapporti degli organi di controllo indipendenti nazionali e internazionali che hanno esaminato il caso in questione.

La Corte ritiene che il quadro giuridico francese non manifestasse difetti sistemici e che i giudici nazionali avessero correttamente adattato l’onere della prova. 

Per i primi cinque ricorrenti, non erano emersi indizi sufficienti a fondare la presunzione di discriminazione, anche tenuto conto della tensione sociale dell’epoca e dell’assenza di verbali scritti. Non c’è stata violazione dunque per questi ricorrenti. Per il sesto ricorrente, invece, la Corte ritiene fondata la presunzione di discriminazione: egli era stato controllato tre volte in dieci giorni, una volta senza base legale, una volta al di fuori del periodo autorizzato e una volta entro il periodo, durante la quale subì anche insulti e una manata, e aveva prodotto statistiche su un presunto eccesso di controlli nei confronti della sua comunità. Poiché lo Stato non ha fornito giustificazioni oggettive per tali controlli, gli artt. 8 e 14 risultano violati.

Rispetto all’art. 13, in combinato disposto con gli artt. 14 e 8, la Corte esclude la violazione: pur evidenziando l’assenza di un obbligo di registrare i controlli d’identità (circostanza che ostacola il controllo giudiziario), osserva che i giudici domestici avevano compensato siffatta mancanza attraverso il regime dell’onere della prova, richiedendo la sussistenza di indizi chiari, precisi e concordanti, e avevano garantito ai ricorrenti l’accesso a un rimedio effettivo davanti ai tribunali ordinari. 

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 26 giugno 2025, ric. n. 5742/22 , S.O. c. Spagna

Oggetto: art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – obblighi positivi – mancanza di un valido consenso informato in relazione all’ampliamento dell’ambito di un intervento di chirurgia conservativa del seno – carenze, da parte delle autorità giurisdizionali interne, nell’applicazione di un quadro normativo interno adeguato, sotto il profilo del rispetto dell’autodeterimazione in ambito medico – omessa valutazione, da parte dei giudici nazionali, dei riflessi significativi sull’integrità psico-fisica della donna.

Alla ricorrente, cui era stato diagnosticato un tumore al seno, veniva proposto un intervento di chirurgia conservativa alla mammella. Durante l’operazione, a seguito dell’analisi immediata di due campioni di tessuto mammario, si decideva di abbassare l’incisione e procedere alla rimozione del capezzolo e dell’areola. Dopo l’intervento, la ricorrente presentava reclamo al Dipartimento della Salute della Comunità Autonoma di Madrid, chiedendo un risarcimento di 100.000 euro. La donna sosteneva, in particolare, che le suddette parti erano state rimosse nonostante l’assenza di cellule tumorali e affermava di aver prestato il proprio consenso esclusivamente per la chirurgia conservativa e la rimozione dei linfonodi. A fronte del rigetto del reclamo amministrativo, la ricorrente adiva le giurisdizioni spagnole per far valere la propria pretesa risarcitoria. Tuttavia, nel settembre 2020, l’Audiencia Nacional di Madrid riteneva valido e adeguato il consenso prestato dalla paziente ed evidenziava che l’obiettivo primario era rappresentato dalla sicurezza oncologica e che la possibilità di adattare la tecnica chirurgica era stata contemplata tra le informazioni fornite alla paziente.

La donna si rivolgeva, quindi, alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione.

In primo luogo, la Corte EDU ribadisce che, sebbene il diritto alla salute non rientri di per sé tra i diritti sanciti dalla Convenzione e dai Protocolli ad essa allegati, gli Stati, oltre a quelli derivanti dall’art. 2, hanno, ai sensi dell’art. 8, un obbligo positivo di implementare un quadro normativo che imponga alle strutture ospedaliere pubbliche e private di proteggere l’integrità fisica dell’assistito, assicuri l’accesso a rimedi effettivi in caso di negligenza medica e, inoltre, tuteli il diritto del paziente al consenso informato, che comporta il corrispondete obbligo del medico di fornire preventivamente informazioni sui rischi prevedibili dell’intervento, affinché il primo possa assumere una decisione consapevole. Se tali rischi si realizzano senza che il paziente sia stato adeguatamente informato, pur in presenza di una disciplina adeguata, lo Stato può, in taluni casi, essere ritenuto responsabile. Oltre alla predisposizione di un assetto normativo appropriato lo Stato deve, infatti, garantire che lo stesso sia effettivamente applicato e sorvegliato. 

Volgendo lo sguardo alla vicenda sottoposta al suo esame, la rimozione del complesso areola-capezzolo della ricorrente, nell’ambito di un intervento di chirurgia conservativa del seno,  poteva avere ripercussioni significative sull’integrità personale, impattando il benessere fisico e mentale, l’immagine corporea e l’autostima, nonché la vita sessuale della donna. Si tratta di elementi rilevanti della sfera personale tutelata dall’art. 8, disposizione, pertanto, ratione materiae applicabile.

Nel merito, la Corte sottolinea, come già precisato anche nella recente sentenza Pindo Mulla (GC, 2024), che le disposizioni del diritto interno spagnolo in materia di consenso sono soddisfacenti e pienamente conformi ai principi sanciti dalla Convenzione di Oviedo. Occorre, dunque, valutare se l’attuazione pratica di tale assetto giuridico abbia effettivamente garantito il rispetto dell’autonomia della ricorrente e se le modalità con cui le autorità giurisdizionali nazionali – e, in particolare, l’Audiencia Nacional – hanno esaminato le doglianze relative alla mancanza di un consenso informato adeguato in merito all’ampliamento dell’intervento, possano considerarsi idonee a assicurare la protezione richiesta e, conseguentemente, a soddisfare gli obblighi positivi dello Stato ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione.

A questo proposito, la Corte EDU evidenzia che, sebbene dai documenti in atti emergesse che l’intervento chirurgico al seno mirava all’asportazione completa del tumore, compreso un margine chirurgico, con possibili modifiche tecniche intraoperatorie necessarie a tale scopo, contrariamente a quanto affermato dall’Audiencia Nacional, il consenso informato firmato dalla paziente non era idoneo a coprire in modo chiaro la resezione del complesso areola-capezzolo. Invero, il modulo specificava che il consenso era prestato per un intervento conservativo al seno, mentre il primo paragrafo riportava un elenco di possibili interventi senza indicare chiaramente quali fossero considerati conservativi e quali “più aggressivi”. In particolare, uno degli interventi elencati – l’unico per cui era esplicitamente prevista la possibile rimozione del capezzolo – era la mastectomia semplice, che, stante alle linee guida oncologiche presentate dal Governo, non è considerata operazione di chirurgia conservativa. Ad avviso della Corte, pertanto, per una persona senza competenze mediche non era chiaro che la firma del modulo autorizzasse anche la possibile resezione del capezzolo e, in alcuni casi, dell’areola circostante. 

Inoltre, sebbene il modulo del consenso informato e il fascicolo medico indicassero che la ricorrente aveva avuto l’opportunità di chiarire i propri dubbi con i medici, la natura di tali dubbi e le spiegazioni supplementari fornite non risultavano in alcun modo documentate. 

Le autorità giurisdizionali interne non avevano, perciò, approfondito se la paziente fosse stata effettivamente informata della possibilità di procedere all’intervento di rimozione  della zona areolare e del capezzolo, né considerato la prevedibilità dell’intervento esteso, come dimostrato, peraltro, dal fatto che lo spazio del modulo destinato all’informazione sui rischi specifici era rimasto vuoto.

La Corte ricorda, quindi, che, secondo il diritto interno e la Convenzione di Oviedo, il consenso scritto deve contenere informazioni sufficienti, chiare e specifiche sui rischi prevedibili, per consentire una decisione consapevole. 

Nel caso di specie, ad avviso del Giudice europeo, la necessità di ampliare la resezione rientrava in uno scenario possibile e, per di più, rilevante, considerate le conseguenze fisiche e psicologiche per la paziente. Da quest’ultimo punto di vista, la Corte sottolinea come i giudici interni non avessero considerato che un simile aggravamento può avere ripercussioni significative per la donna, data l’importanza del margine rimosso, tra l’altro, per l’immagine di sé e la vita sessuale, rafforzando così l’obbligo di informare la paziente affinché potesse decidere in modo consapevole se prestare il proprio consenso a una possibile rimozione.

Infine, la Corte rileva che l’intervento era stato pianificato con anticipo e non risultavano situazioni di emergenza che giustificassero una modifica non comunicata. 

In conclusione, le doglianze della ricorrente relative alla mancanza di un valido consenso all’ampliamento dell’intervento non erano state adeguatamente esaminate dalle giurisdizioni interne, che hanno trascurato aspetti importanti della tutela del suo diritto all’autodeterminazione in campo sanitario. Ne discende la violazione dell’art. 8 della Convenzione.

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