Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di febbraio 2024

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di febbraio 2024

Le pronunce di febbraio della Corte Edu qui selezionate concernono la gestione del rischio di autolesionismo in carcere, l’utilizzabilità delle dichiarazioni di testimone anonimo, la divulgazione e conservazione di intercettazioni.

In Pintus c. Italia, la Corte riconosce la legittimità della detenzione ordinaria del soggetto con disturbi psichici, qualora gestibili adeguatamente dal carcere, nonché la legittimità di una temporanea prosecuzione della medesima, qualora la compatibilità col carcere venga meno ma il supporto psichiatrico e psicologico sia costante e la ricerca di una struttura specializzata sia effettiva.

In Snijders c. Paesi Bassi, il test di equità della condanna basata su dichiarazioni accusatorie di testimone assente viene applicato in ipotesi di testimone rimasto anonimo, di cui vengono delineate analogie e differenze in termini di incidenza sui diritti di difesa. La pronuncia presenta interessanti opinioni concorrenti e dissenzienti che sollevano perplessità non solo in merito all’ipotesi specifica del testimone di cui non si conosce identità e passato (dunque, nella prospettiva difensiva, di cui non possono essere eccepiti eventuali motivi personali per testimoniare il falso), ma in ordine al three-pronged test consolidato dalla Grande Camera, nella misura in cui ridimensiona l’importanza dei requisiti minimi dell’equità alla luce di un giudizio “complessivo”.

In Kaczmarek c. Polonia, la Corte stigmatizza l’interpretazione estensiva delle norme sulle ipotesi di divulgazione del materiale investigativo, senza veicolare la mancanza di base legale tramite la mancanza di prevedibilità.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 1° febbraio 2024, ric. n. 35943/18, Pintus c. Italia

Oggetto: articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di tortura) della Convenzione – aspetto materiale – obblighi positivi – mantenimento in detenzione ordinaria di un uomo affetto da disturbi psichiatrici che si era ferito all’avambraccio con una lama di rasoio in tre occasioni – certezza e immediatezza del rischio per la vita del ricorrente note alle autorità penitenziarie solo a partire dal primo episodio e al più tardi al momento della successiva relazione del servizio di salute mentale – reazione adeguata del personale penitenziario agli eventi – visita medica e psichiatrica supplementare e costante dopo ogni episodio – sforzi delle autorità penitenziarie per trovare una struttura di accoglienza specializzata, dove il ricorrente è stato trasferito non appena possibile.

Il ricorrente veniva sottoposto a regime detentivo a partire da ottobre 2017, in esecuzione di una condanna per violenza sessuale. Dopo un mese, il difensore chiedeva il differimento della pena e la detenzione presso centro psichiatrico e riabilitativo gestito dall’associazione Insieme Onlus. L’autorità giudiziaria chiedeva apposite relazioni psichiatriche al carcere: una prima relazione ripercorreva i precedenti psichiatrici del detenuto, diagnosticava una psicosi cronica residua con disturbo della personalità, ritardo mentale e dipendenza da sostanze psicotrope, ma rilevava che il ricorrente aveva ritirato la richiesta di custodia in centro apposito per tentare il reinserimento nel circuito carcerario ordinario; una seconda relazione dava conto della stabilità delle condizioni del detenuto e della sottoposizione a regime di sorveglianza psichiatrica continua. L’autorità giudiziaria accoglieva comunque la richiesta a gennaio 2018, sollecitando il DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) perché l’articolazione per la salute mentale presso il carcere di Rebibbia (ATSM) accogliesse il ricorrente; in ben due occasioni, il DAP comunicava l’assenza di posti letto disponibili. Durante la ricerca, il ricorrente riceveva trattamento psichiatrico e follow up terapeutico sotto la supervisione del dipartimento di salute mentale del carcere di Rebibbia. Dopo un episodio di lieve auto-ferimento, mediante lametta di rasoio, il ricorrente veniva sottoposto a ulteriore esame psichiatrico e riceveva supporto psicologico. In seguito ad altri due episodi di auto-ferimento, nel giugno 2018, l’associazione Ego Onlus comunicava di poter accogliere il ricorrente e l’Autorità giudiziaria disponeva il trasferimento.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione.

In merito all’articolo 2, la Corte ricorda che tale norma impone allo Stato di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone che rientrano nella pertinente giurisdizione. L’obbligo in parola risulta rafforzato nei confronti dei detenuti, stante la posizione di vulnerabilità, tanto più nei confronti dei detenuti con disturbi mentali, stante la posizione di particolare vulnerabilità. In questa seconda ipotesi, la Corte riconosce l’insorgenza di un obbligo positivo di prevenire il rischio di suicidio o autolesionismo solo quando le autorità conoscevano o avrebbero dovuto conoscere l’esistenza del medesimo, purché reale e immediato.  Ritenuto esistente sia il rischio che l’obbligo positivo, la violazione ricorre quando le autorità non abbiano adottato misure che avrebbero ragionevolmente potuto attenuare la concretizzazione del medesimo; quest’ultima valutazione non deve essere condotta in modo da imporre un onere insopportabile o eccessivo a carico delle autorità, stante la non prevedibilità del comportamento umano e la necessità di scegliere e selezionare misure secondo priorità e risorse.

Nel caso di specie, la Corte distingue tra un primo periodo di detenzione, rispetto cui le relazioni psichiatriche avevano escluso rischi suicidi o autolesivi, e un secondo caratterizzato dall’evidente peggioramento dello stato psichico del detenuto, con evidenti rischi autolesivi. Sul punto, la Corte nutre perplessità circa il fatto che il detenuto aveva accesso a un rasoio (concretamente utilizzato per procurarsi ferite all’avambraccio), tuttavia valorizza la tempestività dell’intervento medico in ciascuna occasione e la costante ricerca di strutture per il trasferimento da parte sia dell’autorità giudiziaria che penitenziaria.

In merito all’articolo 3, laddove il ricorrente riteneva il mantenimento nel carcere ordinario, nonostante il parere di specialisti, trattamento inumano e degradante, la Corte chiarisce di dover considerare l’effetto delle modalità di detenzione sullo sviluppo della salute della persona interessata in base a diversi fattori rilevanti in tema di adeguatezza delle cure fornite in carcere (informazioni complete in base al diario clinico, diagnosi e cure tempestive, monitoraggio regolare e sistematico, strategia terapeutica globale e causale piuttosto che sintomatica, predisposizione delle condizioni necessarie a stimolare l’adesione volontaria del detenuto al trattamento). In concreto, la non compatibilità della salute del ricorrente col carcere era emersa solo a fronte dei primi atti di autolesionismo e, da allora, il carcere aveva garantito supporto psichiatrico e psicologico supplementare; inoltre, l’autorità giudiziaria aveva ordinato la detenzione presso centro terapeutico specializzato dopo pochi mesi e grazie a un’interpretazione estensiva dell’articolo 47-ter o.p. (secondo un approccio che la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto solo con la sentenza n. 99/2019).

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 6 febbraio 2024, ric. n. 56440/15, Snijders c. Paesi Bassi

Oggetto: articolo 6 (equo processo) §§ 1 e 3 (d) – esame dei testimoni – impossibilità di controinterrogare direttamente il testimone anonimo che abbia reso dichiarazioni accusatorie – ragionevolezza dei motivi di protezione dell’identità del testimone – peso non trascurabile ma neanche decisivo per la condanna – esistenza di altri fattori di bilanciamento – equità complessiva del procedimento.

La polizia riveniva il corpo di un uomo (Y) a bordo di un furgone abbandonato, con una ferita mortale d’arma da fuoco; a 50 metri, veniva rinvenuto un mozzicone di sigaretta con residui di DNA corrispondenti a un paio di occhiali da sole lasciati sul locus commissi delicti di un furto con violenza. 

Un testimone (X) dichiarava di conoscere l’omicida ma di esser disposto a rilasciare una dichiarazione solo sotto garanzia di anonimato, temendo per la propria vita. Secondo X, il ricorrente gli aveva riferito di aver ucciso Y su incarico di un terzo, per recuperare denaro connesso al traffico di stupefacenti. L’autorità giudiziaria riteneva tale dichiarazione credibile, resa in modo inequivocabile, spontaneo e senza esitazioni. 

Il profilo di DNA del ricorrente veniva inserito in banca dati e risultava corrispondere al profilo altrove rinvenuto. Nell’ambito del procedimento penale sull’omicidio di Y, l’autorità giudiziaria interrogava l’ex fidanzata del ricorrente, secondo cui quest’ultimo le avrebbe riferito di aver ucciso un giovane in un furgone dopo che l’organizzazione che lo aveva ingaggiato era stata truffata in un affare di droga.

Durante il procedimento di primo grado, il ricorrente chiedeva di esaminare direttamente X mentre il pubblico ministero chiedeva di applicare la disciplina dell’esame di testimone minacciato, alla luce della natura del reato, dell’identità del ricorrente e dei suoi precedenti, connotati da violenze e minacce. Dopo due decisioni di segno contrario, ribaltate su impugnazione del pubblico ministero, l’autorità giudiziaria riconosceva il suddetto status, sulla base dei motivi già enunciati e dell’accordo raggiunto da X prima di rendere le dichiarazioni accusatorie. X veniva quindi nuovamente ascoltato dal giudice istruttore in luogo segreto, senza la presenza del ricorrente, né del suo avvocato, né del pubblico ministero; tuttavia, il giudice concedeva alle parti la possibilità di presentare domande scritte da rivolgere a X (alcune domande del ricorrente non venivano incluse, o comunque solo parzialmente, per tutelare l’identità di X). 

Il ricorrente veniva condannato a diciotto anni di reclusione per l’omicidio di Y. La Corte di Appello confermava il dispositivo valorizzando anche altre prove, soprattutto quella del DNA e la testimonianza dell’ex fidanzata, pronunciandosi altresì sull’utilizzabilità delle dichiarazioni di X alla luce dei principi interni e dell’articolo 6 della Convenzione, dell’incidenza dell’utilizzo delle medesime sull’equità complessiva del procedimento penale. La Corte di Cassazione rilevava la legittimità della sentenza di merito e rigettava le doglianze del ricorrente.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorrente lamentava l’iniquità del procedimento penale a suo carico, stante l’impossibilità di interrogare direttamente un testimone chiave.

Nel valutare l’equità complessiva, la Corte tiene conto dei diritti o requisiti minimi di cui all’articolo 6 § 3 della Convenzione. Premesso che le questioni sull’ammissibilità delle prove sono rimesse al diritto nazionale, la lettera d) del § 3 sancisce il principio secondo cui, ai fini della condanna, le prove a carico dell’imputato devono essere prodotte in sua presenza, in un’udienza pubblica, nel contraddittorio tra le parti; rientra nei diritti di difesa l’adeguata e corretta opportunità di contestare e interrogare un testimone a carico, sia al momento della deposizione che in una fase successiva. Le eccezioni sono possibili ma non possono compromettere i diritti di difesa.

La giurisprudenza della Corte ha da tempo elaborato e perfezionato il test di equità (three-pronged test) per le ipotesi di testimone assente e utilizzo delle pertinenti dichiarazioni accusatorie.

In Al-Khawaja c. il Regno Unito (nn. 26766/05 e 22228/06, 15 dicembre 2011), la Grande Camera ha richiesto di verificare (i) se vi fosse una buona ragione per la mancata presenza del testimone e, di conseguenza, per l’ammissione come prova della dichiarazione del testimone assente; (ii) se la prova del testimone assente fosse la base unica o decisiva per la condanna; (iii) se vi fossero sufficienti fattori di contro-bilanciamento, tra cui forti garanzie procedurali, per compensare gli svantaggi subiti dalla difesa a causa dell’ammissione della prova non verificata (untested evidence), ai fini di un’equità complessiva.

Quando il testimone non si presenta per timore della propria incolumità, si può distinguere tra la paura attribuibile a minacce dell’imputato o di chi agisca per suo conto e un timore più generale di ciò che potrebbe accadere a causa e dopo la deposizione. Nel primo caso, la dichiarazione sarà ammissibile, senza compromettere l’equità, anche se decisiva, poiché consentire all’imputato di trarre vantaggio dalla paura suscitata sarebbe incompatibile coi diritti di vittime e testimoni. Benché non sia necessaria una minaccia diretta da parte dell’imputato, il giudice è tenuto ad accertare l’esistenza di dimostrati motivi oggettivi per il timore di deporre.

In Schatschaschwili c. Germania (n. 9154/10, 15 dicembre 2015), la Grande Camera ha spiegato che il “buon motivo per l’assenza di un testimone” deve esistere dal punto di vista del tribunale, cioè il tribunale deve avere buoni motivi di fatto o di diritto per non assicurare la presenza del testimone al processo.

 In ordine alla decisività della prova, questa deve essere interpretata in senso restrittivo, in termini di importanza determinante per l’esito del caso. Quando la prova del testimone assente è supportata elementi di riscontro, la valutazione della sua decisività dipenderà dalla forza delle altre prove.

Infine, in merito ai fattori di contro-bilanciamento, assume rilevanza l’approccio che il giudice riserva alla prova non verificata; la disponibilità e la forza dei riscontri; le misure procedurali adottate per compensare l’impossibilità di controinterrogare direttamente il testimone.

La Corte chiarisce l’applicabilità dei suddetti principi e test anche per il testimone anonimo che solleva i medesimi problemi del testimone assente: ciascuno di essi comporta un potenziale svantaggio per l’imputato che non può testarne la credibilità soggettiva né verificare l’attendibilità delle dichiarazioni. 

Invero, la Corte individua una difficoltà aggiuntiva per chi debba difendersi dalle dichiarazioni di un testimone anonimo, non potendo far valere le ragioni che il testimone potrebbe avere per mentire.

Nel caso di specie, la Corte esclude l’esistenza di una violazione rilevando: 

(i) l’esistenza di buone ragioni per l’anonimato: sebbene la fonte precisa dei timori di X non sia mai stata resa nota, la loro gravità e fondatezza sono state esaminate dal Tribunale secondo motivazione dettagliata, alla luce sia delle informazioni fornite da X, che di fatti oggettivi (il reato oggetto di indagine e i precedenti);

(ii) l’importanza ma non decisività delle dichiarazioni di X ai fini della condanna del ricorrente, stante le dichiarazioni dell’ex fidanzata e la prova del DNA, dimostrativa di un preciso collegamento temporale e geografico con l’omicidio di Y che, tuttavia, il ricorrente non sapeva altrimenti spiegare;

(iii) l’esistenza di sufficienti fattori di contro-bilanciamento, in particolare il vaglio della credibilità e attendibilità di X, la ricerca di elementi di riscontro, la preclusione dell’esame anche per il pubblico ministero, oltre che per l’imputato, la possibilità di stilare domande scritte da sottoporre al testimone anonimo.

La decisione non è unanime. 

In un’opinione concorrente, i giudici Pavli e Zünd, pur condividendo la conclusione della maggioranza, evidenziano taluni aspetti problematici della testimonianza anonima: la mancanza di informazioni sui dettagli della minaccia non ha consentito di valutare la possibilità di esperire diverse modalità di interrogatorio; la prassi comparativa sull’interrogatorio di testimoni protetti evidenzia la possibilità di livelli significativamente maggiori di divulgazione alla difesa circa il passato del testimone (Ellis e Simms c. Regno Unito, nn. 46099/06 e 46699/06, 10 aprile 2012); il tribunale dibattimentale avrebbe potuto ascoltare direttamente il testimone senza basarsi solo sul verbale redatto dal giudice istruttore (in virtù della dottrina olandese sul “principle of internal disclosure in criminal proceedings”, per cui il decidente non può saperne di più rispetto alle parti; la verifica dei fattori di contro-bilanciamento dovrebbe basarsi sulle prerogative procedurali senza valutare nuovamente aspetti di equità sostanziale quali il peso di altre prove a carico.

Infine, il giudice Serghides allega un’opinione dissenziente, corredata da un’analisi approfondita di altri precedenti sui testimoni anonimi (Kostovski c. Paesi Bassi, 20 novembre 1989; Windisch c. Austria, 27 settembre 1990; Doorson c. Paesi Bassi, 26 marzo 1996, ove la deposizione del teste anonimo era avvenuta in presenza dell’avvocato di parte; Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi, 23 aprile 1997), riconducendo l’iniquità ai seguenti fattori: le “buone ragioni” per non ascoltare direttamente il teste non sussistevano, nella misura in cui non è stata valutata l’esistenza di mezzi alternativi all’anonimato completo; la testimonianza di X risultava determinante per la condanna anche perché solo grazie ad essa le altre due prove (DNA e dichiarazioni della ex fidanzata del ricorrente) sono state acquisite; il principio della parità delle armi era stato erroneamente ritenuto rispettato in forza della mancata partecipazione del pubblico ministero all’audizione di X, benché X fosse un testimone dell’accusa; X ha fornito una dichiarazione sui fatti senza alcun elemento indiziario aggiuntivo. 

Infine, anche il giudice Serghides lamenta l’intreccio sostanziale e procedurale nel test Al-Khawaja, nonché lo svilimento, alla luce dell’equità complessiva, di quelli che vengono definiti dalla Corte stessa requisiti minimi.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 22 febbraio 2024, ric. n. 16974/14, Kaczmarek c. Polonia

Oggetto: articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata) – corrispondenza – indagini sotto copertura e intercettazioni – divulgazione del contenuto di una conversazione telefonica della ricorrente durante una conferenza stampa – conservazione delle intercettazioni nell’ambito di un procedimento di cui la ricorrente non era parte.

Nel 2007, l’ufficio anticorruzione di Varsavia apriva un’indagine per traffico di influenze illecite, anche avvalendosi di operazioni sotto copertura presso il Ministero dell’Agricoltura. 

L’operazione falliva stante la diffusione di notizie sulla medesima; seguiva un vero e proprio scandalo che coinvolgeva diversi ministri, tra cui il marito della ricorrente, sospettato di aver avvisato il ministro dell’Agricoltura.

La procura regionale di Varsavia avviava un’indagine per chiarire la dinamica degli ostacoli frapposti alla suddetta operazione sotto copertura, procedendo, tra le altre cose, alla sorveglianza segreta del marito della ricorrente e alla registrazione di chiamate intercorse con quest’ultima. Tutti i pertinenti procedimenti venivano però interrotti.

Alcuni sostituti procuratori indicevano una conferenza stampa, con diretta televisiva, rendendo pubbliche alcune informazioni ottenute con metodi investigativi occulti, compresa una conversazione tra la ricorrente e il Comandante della Polizia.

La ricorrente esercitava un’azione civile contro il sostituto procuratore che, all’epoca dei fatti, aveva divulgato l’informazione che la riguardava. I giudici rigettavano la richiesta di risarcimento ritenendo che le informazioni divulgate erano già note al pubblico, che la ricorrente non era stata presentata in modo negativo e che lo scopo della divulgazione era mostrare come il comandante di polizia avesse voluto informare il marito della ricorrente di una probabile perquisizione. Sia la Corte di Appello che la Corte Suprema rigettavano le ulteriori obiezioni sollevate dalla ricorrente.

Nel frattempo, la ricorrente chiedeva alla procura generale di distruggere il materiale raccolto durante la sorveglianza segreta; quest’ultima rispondeva che tale materiale, in quanto processuale, non poteva essere distrutto e che comunque le trascrizioni inerenti alla vita privata non sarebbero state rese né pubbliche né accessibili.

Poco dopo la richiesta, il legislatore modificava la disciplina sulla conservazione del materiale derivante dalla sorveglianza segreta, consentendo la distruzione parziale o totale, su istanza di parte. Ciononostante, la richiesta della ricorrente veniva nuovamente rigettata, anche alla luce dei limiti temporali di applicazione della novella. 

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la ricorrente lamentava la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, in relazione sia alla conferenza stampa che alla conservazione delle conversazioni intercettate.

Con riguardo al primo aspetto, nella giurisprudenza della Corte, le conversazioni telefoniche, benché non menzionate nell’articolo 8 § 1, rientrano nelle nozioni di “vita privata” e “corrispondenza”; altresì, la reputazione, facendo parte dell’identità personale e dell’integrità psicologica, rientra nella nozione di “vita privata”.

Qualsiasi ingerenza da parte di un’autorità pubblica nell’esercizio di un diritto garantito ai sensi dell’articolo 8 § 1 violerà tale disposizione a meno che non sia conforme alla legge, non persegua uno o più scopi legittimi di cui al § 2 e sia “necessaria” per raggiungerli.

Nel caso di specie, ove l’esistenza di un’interferenza è pacifica, la Corte esclude la base legale per la divulgazione, considerato che la norma sull’accesso al fascicolo d’indagine sembra contemplarlo solo per il diritto di copia e altri casi eccezionali, tra cui la conferenza stampa non rientra.

In ordine alla conservazione delle conversazioni intercettate, attività idonea a porre un’interferenza a prescindere dal successivo utilizzo delle medesime, la Corte rilevava la mancanza di sufficiente chiarezza nel quadro giuridico interno circa il diritto di ottenere la distruzione delle registrazioni.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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