Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di gennaio 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di gennaio 2023

Tra le pronunce emesse dalla Corte EDU nel mese di gennaio, la presente selezione annovera temi quali le intercettazioni penali, la tutela dei figli di madri detenute, i diritti e i doveri dell’editoria (anche per arginare recenti tendenze alla censura).

Con la sentenza Potoczká e Adamčo c. Slovacchia, la Corte approfondisce i requisiti delle intercettazioni disposte su linee telefoniche intestate a soggetti diversi dall’indagato, nonché il pertinente onere motivazionale.

Nel caso Minasian e Altri c. Repubblica Moldova, la Corte delinea la tutela dei figli di madri detenute, in particolare, i requisiti per l’accompagnamento, la residualità del medesimo e le modalità di accoglienza (i centri di custodia, anche quelli riservati agli stranieri in corso di espulsione, devono assicurare l’assistenza di specialisti e la possibilità di frequentare i propri coetanei).

Con la sentenza Axel Springer SE c. Germania, la Corte, nell’escludere la violazione della Convenzione con riguardo all’obbligo imposto all’editore di un quotidiano di pubblicare una lettera di correzione di un articolo, contribuisce a definire il punto di equilibrio tra due diritti parimenti tutelati, quello al rispetto della vita privata e quello alla libertà di espressione.

Infine, nella sentenza Macatė c. Lituania, la Grande Camera rileva una violazione della libertà di espressione a danno di una scrittrice di libri per bambini. In particolare, la Corte ritiene che le misure adottate nei confronti della raccolta di fiabe della ricorrente, volte a limitare l’accesso dei minori a due racconti che raffiguravano relazioni omosessuali, qualificando tali contenuti come dannosi, non perseguivano uno scopo legittimo ai sensi dell’art. 10 § 2 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 12 gennaio 2023, ric. n. 7286/16, Potoczká e Adamčo c. Slovacchia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – intercettazioni telefoniche su linea telefonica intestata a un soggetto diverso dall’indagato – provvedimento privo di motivazione effettiva.

Articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) – mancanza di un rimedio interno avverso la decisione di intercettazioni.

Il caso riguarda l’intercettazione disposta sulla linea telefonica intestata alla prima ricorrente nell’ambito di un procedimento penale a carico del secondo ricorrente, effettivo utilizzatore di quella linea, secondo la ricostruzione dell’autorità inquirente. 

I ricorrenti, all’epoca delle intercettazioni, vivevano insieme.

Nel 2004, l’autorità slovacca avviava un procedimento penale contro ignoti per sospetti episodi di estorsione. Il Pubblico Ministero chiedeva l’autorizzazione per intercettare una linea telefonica, richiesta accolta dal tribunale competente. Secondo i ricorrenti, il provvedimento indicava che l’abbonamento alla linea telefonica in esame era intestato al primo ricorrente, ma veniva utilizzato dal secondo ricorrente; riportava una motivazione superficiale, ossia la mancanza di mezzi di ricerca della prova ulteriori rispetto alle intercettazioni; infine, non riportava né il sigillo ufficiale del tribunale emittente né la firma del giudice.

Le note della polizia davano conto della trascrizione testuale di otto conversazioni telefoniche cui aveva partecipato il secondo ricorrente che, nel 2005, veniva accusato di estorsione come membro di un’associazione a delinquere. 

In due occasioni, nel 2008 e nel 2013, il secondo ricorrente chiedeva di prender visione del fascicolo senza però ottenere copia del provvedimento di intercettazioni.

Il 31 ottobre 2013 i ricorrenti presentavano reclamo alla Corte costituzionale proprio in merito a tale provvedimento, identificando il Tribunale regionale come convenuto e lamentando una violazione degli artt. 6 § 1 e 8 della Convenzione. La Corte costituzionale, dopo l’istruttoria, dichiarava il reclamo inammissibile, rilevando quanto segue: in ordine al coinvolgimento della prima ricorrente, questo non risultava illegittimo in quanto, al momento dell’intercettazione, la linea telefonica era stata utilizzata dal secondo ricorrente (invero, poiché la prima ricorrente non aveva affermato di essere utilizzatrice della linea, mancavano gli estremi dell’interferenza nei suoi confronti); in ordine alle violazioni allegate dal secondo ricorrente, poiché avvenute nella fase preliminare del procedimento, l’interessato avrebbe dovuto contestarle nella pertinente fase processuale.

Nel 2018, la Corte distrettuale chiudeva il procedimento in ragione della durata del procedimento e del tempo trascorso dalla commissione del presunto reato; la decisione non conteneva alcuna considerazione in merito all’autorizzazione di intercettazioni.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 6 e 8 e della Convenzione. 

Sotto il profilo dell’applicabilità ratione personae dell’art. 8, le parti sono in disaccordo sul fatto che la prima ricorrente abbia dimostrato che le intercettazioni della linea telefonica in questione la riguardavano in modo tale da renderla vittima di una violazione dei suoi diritti di cui all’articolo 8. Sul punto, per la ripartizione dell’onere probatorio circa la soggezione individuale e diretta alla misura contestata, la Corte valorizza la natura segreta delle intercettazioni, la quale rende intrinsecamente difficile per gli interessati dimostrare che l’attuazione di tali misure li riguardasse. 

Nel caso di specie, la constatazione delle autorità nazionali per cui la linea telefonica era utilizzata dal secondo ricorrente non esclude che fosse utilizzata anche dalla prima; inoltre, mancano prove circa la mancata intercettazione di conversazioni diverse da quelle del secondo ricorrente. Ne discende l’ammissibilità della doglianza della prima ricorrente in ordine all’art. 8 della Convenzione.

Nel merito, la Corte ribadisce che (i) le conversazioni telefoniche rientrano nelle nozioni di “vita privata” e di “corrispondenza” di cui all’art. 8, sicché (ii) il loro controllo integra un’ingerenza nell’esercizio dei diritti ivi tutelati e (iii) tale interferenza è giustificata, ai sensi del § 2, solo se è “conforme alla legge”, persegue uno o più degli scopi legittimi ed è “necessaria in una società democratica” per raggiungere lo scopo o gli scopi. Per quanto riguarda la conformità alla legge, quando un potere è esercitato in segreto, i rischi di arbitrarietà sono evidenti. Pertanto, il diritto interno deve essere sufficientemente chiaro sulle circostanze e sulle condizioni che consentano misure quali le intercettazioni. 

Nel caso di specie, il diritto slovacco prevede che le intercettazioni siano autorizzate da un giudice, con provvedimento motivato, soprattutto perché gli interessati potrebbero far valere sulle medesime un controllo solo a posteriori. Poiché il provvedimento contestato non è stato prodotto e, in ogni caso, è dato incontroverso che non contenesse alcuna motivazione, manca il requisito di “necessità in una società democratica”. Vi è stata pertanto una violazione dell'articolo 8 della Convenzione nei confronti di entrambi i ricorrenti.

Con riguardo alla doglianza riguardante l’art. 6 della Convenzione, la Corte la riqualifica entro l’art. 13, quale mancanza di rimedio interno effettivo contro le presunte violazioni dell'articolo 8 della Convenzione.

Già in sede di ammissibilità della censura sollevata rispetto all’art. 8, la Corte ha constatato che le vie di ricorso invocate dal Governo non erano efficaci ai fini dell’art. 35 § 1 della Convenzione. Ne discende la violazione dell’art. 13 in combinato disposto con l’art. 8 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 17 gennaio 2023, ric. n. 26879/17, Minasian and Others c. Repubblica Moldova

Oggetto: articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza) – legalità della detenzione – attraversamento illegale del confine tra Moldavia e Romania da parte di una famiglia georgiana – provvedimento di espulsione nei confronti di della madre – provvedimento di detenzione nei confronti della madre, con la previsione di accompagnamento dei tre figli minori – applicazione dei criteri di legalità: conformità ai requisiti sostanziali e procedurali nazionali nonché “non arbitrarietà” secondo la Convenzione – mancata osservanza del criterio dell’extrema ratio che contraddistingue l’accompagnamento dei minori nel luogo ove sono detenuti i genitori – idoneità del centro di detenzione ad accogliere famiglie con minori.

Articolo 5 § 4 – diritto di contestare la detenzione.

La sig.ra Minasian (prima ricorrente), suo marito G. S. e i loro tre figli (ricorrenti due, tre e quattro), cittadini georgiani, attraversando illegalmente il confine tra la Repubblica di Moldova e la Romania, venivano trattenuti dalla polizia rumena e rimpatriati nel territorio della Repubblica di Moldova. 

L’Ufficio moldavo per la migrazione e l’asilo (BMA) ordinava il rimpatrio della prima ricorrente in Ucraina, senza menzionare i figli in tale decisione (peraltro non contestata dall’interessata), e chiedeva al Tribunale distrettuale di Chișinău di ordinare la custodia della prima ricorrente accompagnata dai minori, considerato che era la madre a prendersene cura. Il Tribunale, in ragione della mancata esecuzione dell’ordine di espulsione, dal rifiuto della prima ricorrente di tornare volontariamente nel proprio paese, anche per mancanza di risorse economiche, accoglieva la richiesta di custodia. 

L’avvocato della prima ricorrente impugnava tale decisione, rilevando che l’assistita non aveva fruito dell’assistenza di un avvocato entro tre ore dalla privazione della libertà e che i tre bambini erano rimasti totalmente sprovvisti di tutela dinanzi al tribunale. La Corte d’appello di Chișinău accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo che la detenzione in carcere fosse necessaria e l’ordine di espulsione fosse legittimo. Con riguardo ai minori, la Corte rilevava che la detenzione dei medesimi con i loro genitori doveva rappresentare l’extrema ratio e durare il meno possibile. Nel caso di specie, il tribunale di primo grado non aveva dimostrato la necessità di trattenere la prima ricorrente, accompagnata dai figli minori, per 90 giorni, un periodo di tempo non breve, che i giudici di appello riducevano a 60 giorni.

Dopo la presa in custodia e il collocamento nel Centro di permanenza temporanea degli stranieri (CTPF), la prima ricorrente presentava la richiesta di asilo nella Repubblica di Moldova, ai fini del rilascio e dello spostamento presso il Centro per il collocamento temporaneo dei richiedenti asilo (CTPAS). Nelle more dell’esame della richiesta, la prima ricorrente veniva condannata, nei gradi di merito, per aver attraversato illegalmente il confine di Stato. Il BMA chiedeva allora al Tribunale di prorogare di 30 giorni la detenzione della prima ricorrente, accompagnata dai figli minori. Nel 2018, la Corte Suprema di Giustizia assolveva la prima ricorrente.

Una volta rilasciati, respinta la richiesta di asilo nel settembre 2017, i ricorrenti lasciavano il Paese nel marzo 2018.

Dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 5 della Convenzione, in relazione alla durata della detenzione che, per le famiglie con minori, sarebbe dovuta durare il più breve possibile. Inoltre, i minori sarebbero stati detenuti nonostante l’assenza di un provvedimento di espulsione o detenzione, nonché in condizioni non adatte a loro.

Sotto il profilo dell’ammissibilità, la Corte dichiara irricevibile il ricorso della prima ricorrente, stante il mancato esaurimento dei rimedi interni (nello specifico, stante la mancata impugnazione della decisione di espulsione). Viceversa, i ricorsi presentati nell’interesse dei minori non possono dirsi irricevibili, considerato che la detenzione era stata applicata in assenza di una decisione da impugnare. 

Nel merito, la Corte ribadisce la consistenza del principio di legalità della detenzione, nell’ottica della Convezione: accanto all’obbligo di rispettare la procedura prescritta dalla legge nazionali, dunque alla conformità della detenzione col diritto nazionale, occorre verificare la “non arbitrarietà”, ossia l’attuazione secondo buona fede, motivata, per la durata ragionevolmente necessaria alla luce dello scopo perseguito.

Nel caso di specie, la detenzione dei minori risulta priva di base giuridica, in quanto avvenuta in mancanza sia del provvedimento di espulsione che di detenzione, quale conseguenza della custodia della madre. Oltre alla base giuridica, è mancata la valutazione dell’idoneità di misure alternative, con violazione del criterio dell’extrema ratio. Dalle informazioni allegate dai ricorrenti, sembra che il centro di custodia non fosse provvisto di personale qualificato per il benessere di ragazzi (psicologi o altro personale medico) e non consentisse la comunicazione o condivisione di attività con coetanei.

In conclusione, la Corte accerta la violazione dell’art. 5 della Convenzione, non solo del § 1, per le ragioni anzidette, ma del § 4, in forza del “limbo giuridico” in cui versavano i minori, non avendo una decisione di detenzione da impugnare.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 17 gennaio 2023, ric. n. 8964/18, Axel Springer SE c. Germania

Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione) – ordine giudiziale a una casa editrice di pubblicare la risposta di un funzionario politico – finalità di rettificare un’inesattezza fattuale – misura giustificata e proporzionata – valutazione del tribunale nazionale ben motivata alla luce della giurisprudenza CEDU – bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla libertà di espressione.

La ricorrente è una casa editrice berlinese, responsabile del quotidiano Die Welt. Il giornale ha pubblicato un articolo dal titolo La donna della Stasi al fianco di Gregor Gysi (Die Stasi-Frau an Gregor Gysis Seite). All'epoca, Gregor Gysi era membro del Parlamento tedesco e presidente del partito politico die Linke (ex PDS). Nell’articolo si affermava che la donna menzionata, direttrice esecutiva del partito, era stata un’agente del Ministero per la Sicurezza dello Stato (Ministerium für Staatssicherheit, comunemente chiamata “Stasi”) dell'ex Repubblica Democratica Tedesca. Si riportava anche la scomparsa, dopo la caduta del regime comunista nel 1989, di vasti beni appartenuti al Partito Comunista della Germania Est (SED). Una settimana dopo, l'avvocato della donna ha chiesto alla casa editrice di pubblicare una risposta all'articolo, in cui la sua assistita affermava, in particolare, di non essere coinvolta nella sparizione dei beni della SED. 

Quando la casa editrice si è rifiutata di pubblicare la risposta, la donna ha presentato un'istanza cautelare di ingiunzione al Tribunale regionale di Berlino, che è stata respinta. Il tribunale ha ritenuto che l'articolo non l’avesse effettivamente collegata alla scomparsa del patrimonio della SED e che il fatto che il testo potesse essere interpretato in tal senso non giustificasse una rettifica. La donna ha presentato ricorso contro la decisione. La Corte d'appello, basandosi sulla legge sulla stampa di Berlino, ha accolto il ricorso e ha ordinato alla casa editrice di pubblicare una risposta. 

Nel successivo procedimento di merito, il Tribunale regionale di Berlino ha nuovamente respinto la sua richiesta di ingiunzione, essenzialmente per le stesse ragioni di prima. In risposta all’ulteriore ricorso presentato dalla donna, la casa editrice ha sostenuto che questa, prima della pubblicazione dell'articolo, si era rifiutata di rispondere alle loro domande sulla scomparsa dei beni. Inoltre, ha sostenuto che alcune delle informazioni fornite dalla donna nella sua risposta erano superflue rispetto al contenuto dell’articolo. La Corte d'appello ha nuovamente ordinato alla società Axel Springer di pubblicare la risposta della donna, respingendo però la sua richiesta di un annuncio in prima pagina. Sebbene l'articolo non affermasse esplicitamente che la donna avesse occultato beni del partito SED, la Corte ha ritenuto che un lettore medio sarebbe giunto a tale conclusione e che la donna avesse il diritto di replicare. Il fatto che non avesse risposto alle domande della casa editrice era irrilevante, poiché non aveva alcun obbligo di farlo.

La casa editrice di fronte all’ordine di pubblicazione ha invocato la Corte Europea lamentando che la misura aveva violato la sua libertà di espressione ai sensi dell'articolo 10 della Convenzione. 

Nel merito la Corte ha osservato che l'interferenza con la libertà di espressione della società ricorrente aveva una base giuridica, derivante dall'articolo 10 della legge sulla stampa di Berlino[1], e perseguiva lo scopo legittimo di proteggere la reputazione della donna. Ciò che restava da stabilire era se fosse stata "necessaria in una società democratica", cioè se avesse risposto a un'esigenza sociale pressante, se fosse stata proporzionata, pertinente e giustificata. 

La Corte ha ribadito che l'obiettivo principale del diritto di replica è quello di consentire ai singoli di contestare le informazioni false pubblicate sulla stampa. In casi come questo, che richiedevano di bilanciare il diritto al rispetto della vita privata con il diritto alla libertà di espressione, l'articolo 8 della Convenzione e l'articolo 10 assumevano il medesimo peso assiologico e, quindi, una eguale meritevolezza di tutela. La Corte di Strasburgo ha anche apprezzato che, nel valutare il contenuto dell'articolo di giornale, la Corte d'appello azionale aveva preso in considerazione le varie affermazioni ivi contenute in cui il nome della donna era collegato alla scomparsa di beni del partito SED, ma che nessuna prova la collegava ad attività criminali. Secondo la Corte, il giudice nazionale aveva valutato in modo approfondito e ben motivato il contenuto dell'articolo e non vi erano segni di arbitrarietà nella sua interpretazione. Inoltre, il diritto di replica richiesto era sufficientemente connesso e pertinente al contenuto dell’articolo in questione ed era stato richiesto senza ritardo. Ancora, secondo la Corte, il rifiuto della donna di rispondere alle domande della casa editrice prima della pubblicazione non poteva essere utilizzato come argomento valido per impedire la pubblicazione della rettifica. Mentre gli organi di stampa in buona fede sono tenuti a fornire informazioni affidabili e precise in conformità con l'etica del giornalismo e dovrebbero offrire all'interessato lo spazio editoriale necessario a difendersi, tali obblighi non sono attenuati dalla circostanza che le accuse fossero state notificate all'interessato in anticipo. Questo preavviso non giustifica una libertà illimitata di pubblicare accuse non verificate, né consente di impedire il diritto di replica dell'interessato.

La Corte EDU ha osservato che la Corte d'appello nazionale aveva accertato che l'articolo di giornale avesse presentato in modo dettagliato il legame della donna con società con presunti legami con la SED e, di conseguenza, che le informazioni fornite nella sua risposta di replica non fossero sproporzionate. Inoltre, a preservare la proporzionalità vi era anche il fatto l’ordine giudiziale imponesse di pubblicare la rettifica sulla stessa pagina dell'articolo originale (e non in una pagina maggiormente visibile, come la prima). 

In base a tutte queste considerazioni, la Corte ha ritenuto che la Corte d'appello berlinese avesse tenuto in debita considerazione i principi e i criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte per bilanciare il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla libertà di espressione e non ha visto alcun motivo per contestare o dissentire dalla sua valutazione. Di conseguenza, la Corte ha accertato che non vi è stata alcuna violazione dell'articolo 10 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 23 gennaio 2023, ric. n. 61435/19, Macatė c. Lituania

Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione) – restrizioni imposte alla diffusione di libri per l’infanzia che narrano di relazioni omosessuali – carenza del requisito della legittimità dell’obiettivo perseguito dalle restrizioni.

Nel 2013, la ricorrente, autrice di libri per l’infanzia dichiaratamente omosessuale, aveva pubblicato una raccolta di fiabe destinate a bambini di età compresa tra i nove e dieci anni, i cui protagonisti appartengono a minoranze emarginate o comunque vulnerabili e affrontano problemi legati alla discriminazione, al pregiudizio e al bullismo. L’intento della scrittrice era quello di trasmettere ai piccoli lettori un messaggio di accettazione delle diversità e di promozione dell’inclusione sociale. 

Due racconti riguardavano, segnatamente, relazioni amorose e matrimoni tra persone dello stesso sesso.

A distanza di un anno dalla pubblicazione, in conseguenza delle preoccupazioni manifestate da alcune associazioni di genitori e da un gruppo di parlamentari per l’influenza che, a loro avviso, questi ultimi contenuti avrebbero potuto avere sui minori, l’editore, un’università pubblica lituana, aveva in un primo momento ordinato la sospensione della distribuzione del libro. Successivamente, ne aveva disposto la ripresa, previa apposizione di un’etichetta con l’avvertenza che il contenuto dell’opera poteva essere dannoso per i bambini di età inferiore ai quattordici anni. Quest’ultimo provvedimento era stato adottato sulla scorta delle raccomandazioni espresse dall’Ispettorato per la deontologia dei giornalisti, interpellato dal Ministero della Cultura che aveva in parte sovvenzionato il libro. A parere del suddetto organo, i racconti in questione presentavano contenuti nocivi per i bambini, ai sensi della Legge sulla protezione dei minori che, all’articolo 4 § 2 punto 16), considera tali quelle pubblicazioni che «esprimono disprezzo per i valori della famiglia, [o] incoraggiano una concezione del matrimonio e della creazione della famiglia diversa da quella sancita dalla Costituzione e dal codice civile», atteso che tali disposizioni fanno espressamente riferimento al matrimonio eterosessuale.

Dopo aver promosso senza successo un’azione civile nei confronti dell’editore dinanzi ai tribunali lituani, l’Autrice si è rivolta alla Corte EDU, lamentando la violazione della propria libertà di espressione in conseguenza di una misura discriminatoria e, dunque, invocando l’art. 10, da solo e in combinato disposto con l’art. 14 della Convenzione. A seguito della sua prematura scomparsa, nel 2020, la causa è stata proseguita dalla madre – si ricorda, infatti, che, in base alla giurisprudenza convenzionale, gli eredi e i prossimi congiunti del ricorrente possono portare avanti il ricorso, purché vi abbiano sufficiente interesse –, ed è stata rimessa all’esame della Grande Camera, alla luce della particolare rilevanza della questione (art. 30 CEDU).

Proprio in considerazione di questo aspetto, peraltro, la Corte ha, in punto di ricevibilità, respinto l’eccezione proposta dal Governo convenuto, secondo cui la ricorrente non avrebbe subito «alcun pregiudizio importante» (art. 35, par. 3, lett. b).

Nel merito, la Corte stabilisce, anzitutto, che i provvedimenti censurati erano imputabili allo Stato convenuto. Tanto la sospensione della diffusione del libro, quanto la successiva apposizione dell’avvertenza erano state, difatti, adottate dall’Università di scienze dell’educazione, che è un ente di diritto pubblico, come pure, dopo, esaminate e considerate legittime dai giudici lituani, e derivavano direttamente dall’applicazione del diritto interno, vale a dire l’articolo 4 § 2 punto 16) della Legge sulla protezione dei minori. Invero, nell’ambito dei procedimenti nazionali, l’Università aveva dichiarato di aver adottato i provvedimenti contestati per ottemperare alle richiamate prescrizioni normative, nonché alle raccomandazioni dell’Ispettorato, sia pure non vincolanti, al fine di non incorrere nelle sanzioni amministrative previste per la distribuzione di contenuti dannosi per i minori in assenza dell’idonea etichettatura.

La Corte rileva, poi, che entrambe le misure hanno costituito restrizioni poste dall’autorità pubblica alla libertà di espressione (§§ 180-182); di talché, la loro compatibilità con il diritto convenzionale doveva essere testata in base ai canoni posti dall’art. 10, par. 2 CEDU.

Ciò posto, e constatato, in primo luogo, che le misure in parola hanno trovato la loro base legale nella disciplina interna poco sopra citata (§ 184), la Grande Camera si concentra sull’identificazione dello scopo delle restrizioni in parola, al fine di valutarne la legittimità.

A questo proposito, esclusa l’impostazione sostenuta dal Governo lituano, secondo il quale le misure avrebbero perseguito l’obiettivo di proteggere i bambini, da un lato, dal preteso carattere sessualmente esplicito dei due racconti, dall’altro da contenuti tesi a promuovere le relazioni omosessuali a discapito di quelle eterosessuali; i giudici europei procedono a un’interpretazione sistematica della disciplina legislativa da cui esse sono di fatto scaturite.  Pertanto, sulla scorta di una puntuale disamina del dibattito parlamentare che ha preceduto l’approvazione delle modifiche apportate nel 2009 alla normativa sulla protezione dei minori, la Corte evidenzia come l’intenzione di fondo del legislatore sia stata proprio quella di impedire ai bambini di accedere a contenuti in cui le relazioni omosessuali sono poste su un piano paritario rispetto a quelle eterosessuali. Lo si ricava, secondo la Grande Camera, se si considera che il progetto originario di modifica della legge in discorso aveva inteso classificare come nocivi contenuti «che promuovono rapporti omosessuali, bisessuali o poligami». Del resto, prosegue la Corte, il riferimento in questione era stato espunto dall’articolato solo per attenuare le molteplici critiche espresse a livello internazionale; mentre il legislatore aveva perseverato sia pure indirettamente nell’intento discriminatorio, mediante la formulazione dell’articolo 4 § 2 punto 16), posto che, come detto, la Costituzione e il codice civile lituano si riferiscono espressamente al matrimonio eterosessuale. A riprova di ciò, la Corte pone in luce che, come rilevato dalla ricorrente, tutti i casi in cui tale disposizione è stata applicata o comunque invocata hanno riguardato contenuti relativi a temi LGBTI (§197). 

D’altronde, la Corte esclude che i sia pur rilevanti approdi della giurisprudenza costituzionale in tema di tutela delle unioni omosessuali – nel 2019, la Corte costituzionale lituana ha sottolineato come la nozione costituzionale di famiglia sia, a differenza di quella di matrimonio, «senza genere» – abbiano in alcun modo influito sull’esito della vicenda in esame; come dimostra il fatto che il giudice di secondo grado, pronunciatosi successivamente al Giudice costituzionale, non ha annullato la pronuncia di primo grado in base alla più recente evoluzione del diritto costituzionale lituano.

Individuato, dunque, lo scopo sotteso alle misure oggetto del ricorso, la Grande Camera procede a valutarne la legittimità ricostruendo, anzitutto, i principi generali che interessano la questione. In proposito, dopo aver richiamato il principio del superiore interesse del minore, la Corte ricorda, per un verso, di aver più volte sottolineato, in casi concernenti il diritto all’istruzione, che lo Stato, nell’ambito della libera definizione dei programmi didattici, deve garantire che i contenuti destinati ai bambini siano diffusi in modo obiettivo, critico e pluralista. Per l’altro, che la giurisprudenza convenzionale ha sì considerato giustificate talune limitazioni imposte all’accesso dei bambini a determinate pubblicazioni, nel caso, però, in cui esse contenessero «un incoraggiamento a cimentarsi in esperimenti precoci e dannosi, o persino a commettere reati» (Handyside c. Regno Unito); oppure, ancora, accuse dirette contro una minoranza o affermazioni che incitavano all’odio (Vejdeland e altri c. Svezia); nonché, ha ritenuto ammissibili restrizioni a pubblicità rivolte ai minori, che potessero essere giustificate dalla particolare vulnerabilità e maggiore influenzabilità degli stessi  in quanto consumatori (Sigma Radio Television Ltd c. Cipro). Per contro, non ha mai avallato politiche o decisioni che incarnassero pregiudizi nei confronti di una determinata minoranza, come, ad esempio, quella omosessuale. 

Nella specifica prospettiva esaminata, la Corte ribadisce, poi, l’inesistenza di prove scientifiche o dati sociologici che suggeriscano che la proposizione ai bambini di contenuti relativi la diversità di orientamenti sessuali, esposti con uno stile e un linguaggio idonei all’età, possa essere dannosa; ma, anzi, siffatta narrazione risulta funzionale alla promozione delle idee di uguaglianza e di rispetto per la diversità che «sono insite nell’intera struttura della Convenzione».

La Corte nota, altresì, come molti Stati membri del Consiglio d’Europa abbiano espressamente incluso questo tipo di contenuti nei piani didattici o, comunque, approvato disposizioni volte a promuovere nel contesto educativo il rispetto della diversità e ad assicurare il divieto di ogni forma di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. In questo quadro, se è vero che non vi è uniformità tra gli Stati riguardo, ad esempio, l’individuazione della fascia di età a partire dalla quale si considera appropriato veicolare informazioni relative alle relazioni intime, eterosessuali o omosessuali, né in merito alle modalità; solo l’Ungheria ha adottato disposizioni che restringono l’accesso dei minori a contenuti relativi all’omosessualità o alle relazioni omosessuali, ed è, allo stato, soggetta a una procedura contenziosa promossa a livello euro-unitario dalla Commissione europea. 

In conclusione, la Corte rimarca come misure come quella appena ricordata, a prescindere dalla fonte che le legittima, abbiano «ripercussioni sociali più ampie»; in quanto «dimostrano [...] che le autorità preferiscono certi tipi di relazioni e famiglie rispetto ad altri, ovvero trovano più accettabili le relazioni eterosessuali rispetto a quelle omosessuali», contribuendo, così, al radicamento dello stigma nei confronti di queste ultime. Di conseguenza, anche quando la loro portata e i loro effetti sono limitati, siffatte restrizioni, qualora non vi siano altri motivi per ritenere che il contenuto a cui si riferiscono sia inappropriato o dannoso per la crescita e lo sviluppo dei minori, «sono incompatibili con le nozioni di uguaglianza, pluralismo e tolleranza che sono inseparabili da una società democratica» (Bayev e altri c. Russia).

Pertanto, la Corte ritiene che le misure adottate nei confronti del libro della ricorrente, che hanno avuto lo scopo di limitare l’accesso dei bambini ai due racconti che raffiguravano relazioni omosessuali in modo equivalente a quelle eterosessuali, qualificando tali contenuti come nocivi, non perseguivano uno scopo legittimo ai sensi dell’art. 10 § 2.

La Corte, invece, considera assorbita la violazione dell’art. 10, in combinato disposto con l’art. 14 CEDU.


 
[1] L'articolo 10 della Legge sulla Stampa di Berlino (Berliner Pressegesetz), nella misura in cui è pertinente, stabilisce che: «(1) Il direttore responsabile e gli editori di un mezzo di stampa periodico hanno l'obbligo di stampare una rettifica [scritta da] qualsiasi persona, fisica o giuridica, interessata da un'affermazione fattuale fatta nel mezzo di stampa. [...] (2) L'obbligo di stampare una rettifica non si applica se la persona, fisica o giuridica, interessata non ha un interesse legittimo, se la lunghezza della rettifica non è appropriata o se è pubblicata (a titolo di pubblicità) al solo scopo di transazioni commerciali. Se la lunghezza della rettifica non supera la lunghezza del testo contestato, sarà considerata adeguata. La rettifica deve limitarsi a una dichiarazione di fatto e non deve costituire un reato».

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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29/03/2024
In tema di sanzione disciplinare al giudice che posta messaggi politici su Facebook. La CEDU condanna la Romania per violazione del diritto alla libertà di espressione

In un caso relativo alla sanzione disciplinare della riduzione della retribuzione inflitta ad un giudice che aveva pubblicato due messaggi sulla sua pagina Facebook, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 20 febbraio 2024, Danileţ c. Romania (ricorso n. 16915/21), ha ritenuto, a strettissima maggioranza (quattro voti contro tre), che vi sia stata una violazione dell'articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 

26/03/2024
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