Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di ottobre 2025

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di ottobre 2025

Le decisioni di ottobre della Corte Edu, qui selezionate, riguardano la posizione dei terzi destinatari della confisca urbanistica; il bilanciamento tra libertà di espressione e reputazione in un dibattito pubblico; la responsabilità statale per il cambiamento climatico in relazione alle licenze di esplorazione petrolifera.

In Petruzzo e Altri c. Italia, la Corte Edu, nel confermare i principi enunciati in G.I.E.M. e Altri c. Italia, ne approfondisce la portata nei confronti degli acquirenti dei terreni abusivamente lottizzati e, per l’effetto, confiscati: in quanto destinatari degli effetti diretti della “pena”, dovrebbero partecipare al processo penale principale, entro cui gli elementi costitutivi del reato vengono accertati (nell’incidente di esecuzione, la difesa non sarebbe piena e la presunzione di innocenza sarebbe compromessa). Una conclusione che sa di provocazione, nella misura in cui più passaggi della sentenza sembrano suggerire risposte non penali in caso di prescrizione del reato e/o nei confronti di terzi acquirenti.

In Mortensen c. Danimarca, la Corte condanna lo Stato per violazione dell’art. 10, rilevando, da un lato, l’inadeguatezza del bilanciamento operato dal giudice penale, il quale aveva riconosciuto il ricorrente colpevole di diffamazione per aver pubblicato, sull’account social media di un altro privato, un post ove descriveva un noto e controverso leader di un partito politico nazionale di estrema destra e anti-Islam come «autorizzato a essere un nazista»; dall’altro, la sproporzione della risposta penale.

Nel caso Greenpeace Nordic e altri c. Norvegia, la Corte esamina la legittimità del processo decisionale di concessione di dieci licenze di esplorazione petrolifera nel Mare di Barents alla luce degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 8. Dopo aver dichiarato inammissibili le doglianze dei ricorrenti individuali per mancanza dello status di vittima, la Corte riconosce la legittimazione delle organizzazioni ambientaliste e valuta l’adempimento, da parte dello Stato, dell’obbligo di una valutazione di impatto ambientale adeguata, tempestiva e completa. Pur rilevando lacune nella VIA iniziale, la Corte ritiene sufficienti il quadro normativo e le garanzie successivamente rafforzate, concludendo per la non violazione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 9 ottobre 2025, nn. 1986/09 e 67556/13, Petruzzo e Altri c. Italia

Oggetto: art. 7 della Convenzione (nulla poena sine lege) e art. 1 del Protocollo n. 1 (tutela della proprietà) – procedimento penale per lottizzazione abusiva – prescrizione del reato e confisca dei terreni lottizzati dagli imputati, in parte venduti a terzi – incidente di esecuzione attivato dagli acquirenti – norma incriminatrice prevedibile – legittimità della confisca punitiva nei confronti degli imputati, a fronte dell’accertamento degli elementi costitutivi del reato – illegittimità della confisca punitiva nei confronti dei terzi acquirenti, in quanto non coinvolti nel processo penale ove gli elementi costitutivi del reato sono stati accertati.

La presente procedura concerne la confisca urbanistica di terreni su cui il primo gruppo di ricorrenti aveva fatto costruire una serie di edifici, con successiva parziale rivendita al secondo gruppo di ricorrenti.

Nel 1995, i ricorrenti del primo gruppo, comproprietari di diversi terreni in Campobello di Mazara (Trapani), ottenevano la licenza di costruire edifici rurali da adibire ad abitazione. Tra il 1996 e il 1998, realizzavano un edificio con due appartamenti e giardino, chiedendo poi all’amministrazione comunale il certificato di agibilità (in base alla relazione di abitabilità redatta dal costruttore, Sig. Petruzzo). Gli appartamenti venivano venduti alla sig.ra Marsala, e al sig. Damato e alla sig.ra Lodato.

A dicembre 1998, i ricorrenti aveva presentato una suddivisione in lotti dei terreni (parte dei quali occupati dal nuovo edificio). Nel 2000, il Comune rilasciava un’altra licenza per la costruzione di due edifici; ne fu però costruito solo uno.

Lo stesso anno, il GIP presso il Tribunale di Marsala ordinava il sequestro dei menzionati lotti per indizi di lottizzazione abusiva. I ricorrenti venivano poi rinviati a giudizio, unitamente ad alcuni membri dell’amministrazione comunale, con l’accusa di aver modificato la destinazione dei terreni, suddiviso i terreni in piccoli lotti in spregio dei limiti di edificabilità delle zone non urbanizzate, venduto quanto costruito sulla base di permessi rilasciati per edifici rurali e non per abitazioni residenziali.

Il Tribunale, con sentenza del 27 aprile 2005, assolveva i ricorrenti rilevando che: (i) i terreni in esame rientravano nel regime, non delle zone bianche, ma della zona a verde agricolo e a verde pubblico; (ii) gli edifici rispettavano limiti di volumetria e le caratteristiche previste per le abitazioni di siffatta zona; (iii) la sola (difforme) suddivisione in lotti non integrava il reato di lottizzazione abusiva.

La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 22 maggio 2007, accoglieva l’impugnazione della procura, rilevando quanto segue: (i) i ricorrenti non avevano adempiuto all’obbligo di iscrivere, nei registri catastali, i terreni annessi agli edifici; (ii) i terreni avevano destinazione agricola; (iii) la destinazione agricola (che consente di costruire edifici connessi ad azienda agricola o abitazioni rurali per l’alloggio di lavoratori) non era stata rispettata dai ricorrenti, i quali avevano realizzato una speculazione immobiliare, costruendo edifici a uso residenziale. Rilevata la prescrizione del reato, la Corte ordinava la confisca dei terreni già in sequestro.

La Corte di cassazione, con sentenza del 27 maggio 2008, confermava la violazione della destinazione d’uso e del regime relativo alle zone bianche.

Il secondo gruppo di ricorrenti, non avendo preso parte al procedimento penale, presentava incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di appello di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, chiedendo la revoca della confisca. La Corte di appello, con ordinanza del 19 maggio 2009, rigettava la richiesta osservando che: (i) la confisca aveva natura amministrativa e si fondava sulla natura oggettivamente illecita dell’immobile, con effetti erga omnes opponibili agli acquirenti; (ii) le ragioni degli acquirenti potevano essere fatte valere sui venditori in giudizi civili risarcitori; (iii) i ricorrenti non erano stati diligenti nell’acquisto, non avendo rilevato (benché possibile) l’incompatibilità tra la destinazione agricola e gli immobili costruiti.

Riqualificato il ricorso in atto di opposizione, la Corte di appello di Palermo confermava il precedente provvedimento, così come, di seguito, la Corte di cassazione.

Dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, entrambi i gruppi di ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 6, §§ 1 e 3 (d), e 7 della Convenzione, nonché dell’art. 1 del Protocollo n. 1.

La prima doglianza esaminata è quella riguardante la violazione dell’art. 7.

In punto di ammissibilità, la Corte ritiene che la condizione del previo esaurimento dei rimedi interni sia stata osservata e che l’art. 7 della Convenzione sia applicabile nei confronti di entrambi i gruppi di ricorrenti.

Sotto il primo aspetto, la Corte ribadisce il principio per cui, a fronte di più rimedi interni egualmente efficaci nella tutela del diritto controverso, è sufficiente esperirne uno; in concreto, quanto alla posizione dei ricorrenti del secondo gruppo, era sufficiente l’incidente di esecuzione, non risultando viceversa necessario esperire (di conseguenza attendere) né il procedimento amministrativo sulla legittimità della confisca né quello civile per ottenere il risarcimento del danno da parte del primo gruppo di ricorrenti.

Per il secondo aspetto, la Corte conferma la validità dei principi enunciati in G.I.E.M. e altri c. Italia circa la natura “punitiva” della confisca urbanistica, anche nei confronti del secondo gruppo di ricorrenti. Questi ultimi non hanno subito “semplicemente” gli effetti patrimoniali della pena irrogata a terzi (come suggerito dal governo convenuto), ma i suoi effetti diretti, in prima persona, tant’è vero che sono stati considerati corresponsabili (per negligenza) della lottizzazione abusiva (§§ 75-76).

Nel merito, la Corte rinvia a principi consolidati:

- (i) sulla prevedibilità della legge penale. Il principio di legalità dei reati e delle pene postula la prevedibilità delle pertinenti norme, in base alla formulazione letterale e all’interpretazione giurisprudenziale, anche grazie al supporto di una consulenza qualificata (Vasiliauskas c. Lituania [GC], § 157). Quando l’interpretazione di una norma viene fornita per la prima volta nel processo riguardante il ricorrente, il significato prevedibile è quello in linea con la sostanza del reato (Khodorkovskiy e Lebedev c. Russia, n. 2, § 570). La prevedibilità va accertata guardando al momento in cui l’imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo al procedimento (Del Río Prada c. Spagna [GC], § 80). Siffatti principi si applicano anche alle fattispecie incriminatrici che contengono elementi normativi, vagliando qualità e prevedibilità delle norme cui si fa rinvio (législation par référence);

- (ii) sul requisito del nesso di natura intellettuale. Una pena può essere irrogata per un fatto se sussiste la responsabilità personale, pertanto, proprio in virtù del requisito di prevedibilità, il “nesso di natura intellettuale” in capo all’agente; forme di responsabilità presunta sono ammesse solo accordando all’interessato la facoltà di discolparsi. Non è possibile punire una persona per il reato commesso da altri (G.I.E.M. e altri c. Italia, §§ 271-272)

- (iii) sull’applicazione di una pena in assenza di condanna formale. Mentre la dichiarazione di responsabilità penale è imprescindibile, non altrettanto può dirsi per la condanna formale: è necessario che i giudici aditi accertino la sussistenza di tutti gli elementi del reato – «ces constatations s’analysent, en substance, en une condamnation» (ibidem, § 261).

Nel caso di specie, la Corte rileva:

- la prevedibilità della fattispecie incriminatrice, considerata la formulazione dell’art. 18 l. n. 47/85 (enuncia diversi esempi di comportamenti idonei a comportare la trasformazione dei terreni) e, nonostante la parziale genericità del rinvio ai parametri urbanistici suscettibili di violazione, la sussistenza di abbondante giurisprudenza;

- la legittimità della confisca, in assenza di condanna formale, nei confronti del primo gruppo di ricorrenti, stante l’avvenuto accertamento di tutti gli elementi della lottizzazione abusiva, in un procedimento in contraddittorio, con accordati sufficienti diritti di difesa;

- l’illegittimità della confisca, in assenza di condanna formale, nei confronti del secondo gruppo di ricorrenti. Questi non hanno partecipato al processo penale, né sono stati formalmente accusati di lottizzazione abusiva. A differenza di quanto avvenuto per le società ricorrenti in G.I.E.M. e altri c. Italia (rispetto alle quali la questione di buona fede o meno non era emersa, né era stata esaminata dai giudici domestici), gli attuali ricorrenti sembrano esser stati puniti, non per il comportamento degli imputati, ma per la propria (negligente) condotta: le pertinenti constatazioni integrano, sostanzialmente, una condanna. Siffatta, sostanziale, condanna non giustifica però l’applicazione della pena (la confisca urbanistica), perché quest’ultima è stata applicata in un momento precedente: le autorità interne avrebbero dovuto perseguire gli acquirenti unitamente ai venditori, ovvero separatamente purché prima dell’irrogazione della pena, anche ai fini della presunzione di innocenza. Invero, in G.I.E.M., la Corte ha riconosciuto la possibilità di irrogare una pena anche al di fuori di una condanna formale, a fronte di una constatazione di responsabilità, a condizione che quest’ultima sia sorretta dal rigoroso rispetto dei diritti di difesa. Nell’incidente di esecuzione, gli acquirenti non hanno potuto contestare gli elementi costitutivi del reato di lottizzazione abusiva. Le autorità interne restano, in alternativa, libere di ricorrere a strumenti di natura non penale al fine di ripristinare una legittima pianificazione urbanistica.

La Corte affronta poi la doglianza relativa alla violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1.

Posta la qualità della base legale (quanto meno per i ricorrenti del primo gruppo) e la legittimità dello scopo perseguito (la tutela del territorio e del paesaggio), i giudici sovranazionali si concentrano sulla proporzionalità dell’ingerenza.

La valutazione di proporzionalità della confisca può ricomprendere: la possibilità di adottare misure meno restrittive (ad esempio, la demolizione delle opere e l’annullamento del progetto di lottizzazione); il carattere illimitato della sanzione (nella misura in cui riguarda indifferentemente zone edificate o meno, o appartenenti a terzi); il grado di colpa o il rapporto tra condotta e infrazione; il rispetto degli obblighi procedurali (in primis, la possibilità di contestare efficacemente la misura).

Nel caso di specie, la violazione dell’art. 1 viene affermata per i motivi che seguono:

- i giudici non hanno giustificato l’estensione (in termini di metri quadrati) della confisca (§ 166);

- nei confronti dei ricorrenti del secondo gruppo, benché le valutazioni dei giudici dell’esecuzione non appaiano né arbitrarie né irragionevoli, l’accertamento della buona fede sarebbe dovuto avvenire nel processo penale, ove gli elementi costitutivi del reato erano in discussione. Il caso di specie si differenzia da quelli in cui la Corte ha ritenuto legittima la possibilità per il proprietario dei beni di far valere la propria buona fede dopo la conclusione del procedimento penale, poiché in quei casi la confisca non era punitiva.

Alla luce delle valutazioni e delle conclusioni raggiunte ai sensi degli artt. 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1, la Corte dichiara non necessario esaminare le doglianze sollevate ex art. 6 §§ 1 e 3 (d).

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 21 ottobre 2025, n. 16756/24, Mortensen c. Danimarca

Oggetto: art. 10 della Convenzione (libertà di espressione) – condanna del ricorrente per diffamazione – inadeguato bilanciamento tra gli interessi in gioco da parte dei giudici interni – post relativo all’amministrazione della giustizia in Danimarca e ai limiti della libertà di espressione – sanzione cumulativa consistente in una condanna penale, nel pagamento di un’ammenda e di un rilevante risarcimento, eccessivamente severa – ingerenza non necessaria in una società democratica.

Nel maggio 2021, con il proprio account privato, il ricorrente pubblicava,  in risposta a un thread presente sull’account Twitter di un’altra persona, un post dal seguente tenore «Lasciatemi capire bene...R.P. può permettersi di essere un nazista, bruciare Corani e dire cose orribili sulle persone unicamente sulla base della loro origine etnica, ma [un altro individuo specifico] viene arrestato per aver dato dell’idiota a un agente di polizia?».

In conseguenza di tali esternazioni, R.P., fondatore e leader del partito politico di estrema destra, noto per posizioni e manifestazioni islamofobe, Stram Kurs, intentava un’azione per diffamazione contro il sig. Mortensen, il quale veniva condannato a un’ammenda e al versamento di un’indennità a favore del primo, per un importo complessivo di circa 5.400 euro.

Il ricorrente si rivolgeva, quindi, alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione.

La questione centrale consiste nel valutare se la misura era “necessaria in una società democratica”, considerato che la condanna del ricorrente costituiva pacificamente un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione, che essa era “prevista dalla legge” e che perseguiva lo scopo legittimo di proteggere la reputazione e i diritti altrui.

A tale proposito, la Corte richiama i principi generali elaborati dalla propria giurisprudenza, rammentando, anzitutto, che, anche laddove un’affermazione costituisca un giudizio di valore – come tale non suscettibile di prova, a differenza di un’affermazione concernente un fatto – deve essere comunque corroborata da una base fattuale sufficiente, in mancanza della quale essa risulterebbe eccessiva.

Inoltre, con riguardo al bilanciamento che le autorità interne devono operare tra i due opposti valori che possono entrare in conflitto, vale a dire, da un lato, la libertà di espressione tutelata dall’art. 10 e, dall’altro, il diritto al rispetto della vita privata sancito dall’art. 8, la Corte osserva che, affinché quest’ultimo venga in considerazione, occorre, in primis, che l’aggressione alla reputazione della persona interessata raggiunga un certo livello di gravità e che sia  compiuta in modo tale da pregiudicare il godimento del diritto in parola. I giudici di Strasburgo ripercorrono, quindi, i criteri giurisprudenziali elaborati per stabilire il corretto punto di equilibrio tra il diritto alla libertà di espressione e il diritto alla reputazione del soggetto a cui si riferiscono i commenti. È necessario, ad avviso della Corte, valutare: a) l’eventuale contributo apportato dall’esternazione contestata a un dibattito su di un tema di pubblico interesse; b) la notorietà della persona interessata; c) l’oggetto dell’affermazione; d) la condotta precedente della persona interessata; e) il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione; nonché: f) il modo in cui l’informazione è stata ottenuta e la sua veridicità e g) la severità della sanzione imposta. Laddove tali profili siano stati adeguatamente valutati dalle autorità nazionali, sono necessarie ragioni particolarmente serie – precisa la Corte – affinché il giudice sovranazionale possa sostituire la propria valutazione a quella dei giudici interni.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte ritiene che le autorità danesi non avessero effettuato un adeguato bilanciamento tra il diritto del ricorrente alla libertà di espressione e il diritto di R.P. al rispetto della sua vita privata e conclude che l’ingerenza in questione non era necessaria in una società democratica, ravvisando, pertanto, una violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Segnatamente, i giudici di Strasburgo censurano l’operato dei giudici nazionali, nella misura in cui questi ultimi:

- (i) non avevano fornito alcuna motivazione specifica a sostegno della asserita mancanza di un’adeguata base fattuale relativamente all’esternazione del ricorrente che, pur consistendo in un giudizio di valore fortemente stigmatizzante, poteva tuttavia rientrare, in talune circostanze, nell’ambito della critica ammissibile. Invero, le autorità interne si erano limitate ad affermare apoditticamente che le informazioni relative a R.P., alle sue azioni, condotta, appartenenza politica, opinioni e posizioni non costituivano una base sufficiente o non erano adeguatamente corroborate da fonti ulteriori.

- (ii) avevano ritenuto che il post del sig. Mortensen non avesse contribuito ad alcun tema di interesse pubblico, e ciò nonostante il commento riguardasse l’amministrazione della giustizia in Danimarca e i limiti della libertà di espressione, ovvero, più concretamente, l’asserita ingiustizia per cui una persona era stata arrestata per aver insultato un agente di polizia, mentre le autorità – a giudizio del ricorrente – avevano tollerato le esternazioni notoriamente ben più controverse di R.P., tutt’altro che irrilevanti, pertanto, rispetto al dibattito pubblico in cui il ricorrente intendeva partecipare. Di talché, i giudici interni non avevano opportunamente collocato  l’esternazione del ricorrente all’interno di un discorso politico o, comunque, di una questione di interesse pubblico, contesto in cui la libertà di espressione gode di un livello di protezione particolarmente elevato, anche a fronte della potenziale gravità di certe affermazioni;

- (iii) non avevano considerato né la notorietà, né la condotta pregressa di R.P. Quest’ultimo, infatti, pur non essendo stato eletto in Parlamento, era un politico assai noto, le cui controverse posizioni e dimostrazioni contro la presenza della comunità islamica in Danimarca – tra le quali la partecipazioni a diverse manifestazioni anti-islamiche in cui venivano bruciate copie del Corano – erano stati al centro dell’attenzione mediatica e del dibattito pubblico; mentre il ricorrente era un privato cittadino che aveva pubblicato il post sul profilo Twitter di un altro privato.

- (iv) non avevano applicato i criteri relativi alle conseguenze dell’esternazione. In particolare, a fronte dell’incertezza dei dati sulla diffusione del post, i giudici interni avrebbero potuto considerare, secondo la Corte, che si trattava del post di un privato cittadino pubblicato sul profilo di un altro privato, che nessuno dei due era noto al grande pubblico e che non vi è alcun elemento che indicasse una diffusione significativa del contenuto tramite i media o altri canali.

Infine, quanto alla natura e alla severità della sanzione inflitta, la Corte ribadisce che, pur non essendo di per sé sproporzionato il ricorso a sanzioni penali nei casi di diffamazione, una condanna penale costituisce comunque una sanzione particolarmente gravosa, tenuto conto che l’ordinamento ha a disposizione altri strumenti di risposta, in particolare rimedi civili e ritiene, in conclusione, che la sanzione complessivamente comminata, pari a circa 5.400 EUR, risultasse eccessivamente severa.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 28 ottobre 2025, n. 34068/21, Greenpeace Nordic e altri c. Norvegia

Oggetto: art. 34 della Convenzione (status di vittima e legittimazione ad agire) – applicazione criteri Verein KlimaSeniorinnen Schweiz – incompatibilità ratione personae per i singoli ricorrenti – legittimazione ad agire delle organizzazioni – art. 8 (vita privata) obblighi positivi –  erroneità del processo decisionale di concessione di licenze di esplorazione petrolifera – obblighi procedurali dello Stato – applicabilità principi generali di Verein KlimaSeniorinnen Schweiz – obbligo procedurale di effettuare una valutazione di impatto ambientale (VIA) – definizione di requisiti minimi – ampio margine di apprezzamento – aderenza al quadro giuridico internazionale sui cambiamenti climatici – processo di concessione delle licenze incompleto – sanabilità delle carenze nella fase del piano di sviluppo e gestione – garanzie sufficienti in tale fase per assicurare una VIA completa – nessun problema strutturale – possibilità per le persone di contestare l'autorizzazione di un progetto.

Il caso riguarda due organizzazioni non governative norvegesi, Greenpeace Nordic e Young Friends of the Earth Norway, e sei cittadini norvegesi nati tra il 1995 e il 2001, tutti membri attuali o passati della seconda organizzazione.

Nel 2016 il Ministero norvegese del Petrolio e dell’Energia ha concesso dieci licenze a tredici società private per la produzione di gas e petrolio sulla piattaforma continentale norvegese, dove si svolgono le attività petrolifere offshore del Paese. Le due organizzazioni ricorrenti hanno proposto ricorso per ottenere un riesame della validità di tale decisione. Il Tribunale distrettuale di Oslo ha dichiarato valida la decisione. La Corte Suprema ha respinto l’impugnazione dei ricorrenti, con una maggioranza di 11 voti contro 4, ritenendo valida la decisione di concessione delle licenze e stabilendo che gli effetti di eventuali future emissioni derivanti dalle licenze concesse non costituivano un “rischio immediato” e che, di conseguenza, la questione non rientrava nell’ambito dell’articolo 8 della Convenzione.

Di fronte alla Corte EDU i ricorrenti hanno lamentato la violazione degli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), sia presi singolarmente sia in combinato disposto con l’articolo 14 (divieto di discriminazione), in quanto, prima di rilasciare le licenze di produzione petrolifera, le autorità non avevano effettuato una valutazione di impatto ambientale (VIA) sugli effetti potenziali dell’estrazione di petrolio rispetto agli obblighi della Norvegia in materia di mitigazione del cambiamento climatico. Inoltre, secondo i ricorrenti, la politica norvegese in materia di cambiamenti climatici e l’esito della tornata di concessioni producevano effetti sproporzionatamente pregiudizievoli sui giovani e sui membri della minoranza indigena Sámi.

I ricorrenti lamentavano anche l’assenza di un rimedio effettivo ai sensi dell’articolo 13, poiché i giudici nazionali avrebbero esaminato le loro domande in modo superficiale e gravemente erroneo, senza nella sostanza dare applicazione alle norme della Convenzione.

In via preliminare, la Corte ha chiarito le diversità del presente caso rispetto al precedente leading case sulle responsabilità statali per il cambiamento climatico, la causa Verein Klima Seniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera (ricorso n. 53600/20). Il presente caso differiva da quello svizzero in quanto riguardava gli obblighi procedurali dello Stato piuttosto che quelli sostanziali e si limitava a esaminare dieci licenze di esplorazione piuttosto che l’intera azione di mitigazione statale. Il caso sollevava tuttavia la questione di una presunta incapacità dello Stato di proteggere efficacemente gli individui dai gravi effetti negativi dei cambiamenti climatici e quindi l'approccio della Corte nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, e i principi generali ivi elaborati, avrebbero trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in quel caso.
La Corte ha inoltre osservato che il caso in esame riguardava il processo decisionale presumibilmente errato in un ciclo specifico di concessione delle licenze, che era stato oggetto di un procedimento interno avviato dalle organizzazioni ricorrenti. Ne conseguiva che la denuncia generale relativa alla politica norvegese in materia di clima o di petrolio, vale a dire alcune misure di mitigazione dei cambiamenti climatici, come l'omissione di eliminare gradualmente la produzione di petrolio da giacimenti non ancora scoperti, non rientrava nell'ambito dell'esame della Corte.

La Corte è poi passata a valutare l’ammissibilità del ricorso con riferimento allo status di vittima dei ricorrenti persone fisiche, al diritto delle associazioni ricorrenti di adire la Corte (locus standi) e all'applicabilità dell'articolo 8 della Convenzione al presente caso.

La Corte ha ritenuto che esistesse un nesso sufficientemente stretto tra la procedura di concessione delle licenze di esplorazione e gli effetti dei cambiamenti climatici sulla vita, la salute, il benessere e la qualità della vita delle persone. Sebbene l'esplorazione non sia sempre, e certamente non automaticamente o incondizionatamente, seguita dall'estrazione, in Norvegia essa costituisce un presupposto sia giuridico sia pratico per quest'ultima.

La Corte ha ritenuto quindi che le organizzazioni ricorrenti avessero il diritto di adire la Corte e che l'articolo 8 fosse applicabile alla loro denuncia. La loro denuncia ai sensi di tale articolo era quindi ammissibile.

Per quanto concerne i ricorrenti individuali, pur non volendo sottovalutare la serietà di condizioni quali l’ansia climatica o il lutto climatico, la Corte ha osservato che le loro affermazioni non erano state supportate adeguatamente da prove mediche. Inoltre, il fascicolo non conteneva altri elementi che potessero condurre la Corte a concludere che essi fossero stati esposti a effetti avversi di alta intensità del cambiamento climatico che li avessero colpiti personalmente, o che vi fosse un bisogno urgente di garantire la loro protezione individuale dagli effetti dannosi del cambiamento climatico sui loro diritti umani. Ne conseguiva che i ricorrenti individuali non soddisfacevano i criteri dello status di vittima ai sensi della Convenzione, sicché le loro doglianze erano inammissibili.

Per quanto riguarda l’esame della presunta violazione dell’art. 2, la Corte ha ritenuto opportuno, seguendo l’approccio adottato in Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, concentrare la propria analisi esclusivamente sull’art. 8, considerato il contenuto delle doglianze sollevate dalle organizzazioni ricorrenti.

Con riferimento all’art. 8, la Corte ha ribadito che, quando adotta decisioni nel settore ambientale e dei cambiamenti climatici, lo Stato è tenuto a svolgere una valutazione di impatto ambientale (VIA) adeguata, tempestiva e completa, condotta in buona fede e basata sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili. Nel contesto dei progetti di produzione petrolifera, tale obbligo procedurale implica, quanto meno, la quantificazione delle emissioni di gas serra previste, comprese quelle generate dalla combustione all’interno e all’esterno del territorio nazionale. Inoltre, le autorità pubbliche devono valutare se l’attività proposta sia compatibile con gli obblighi, derivanti dal diritto nazionale e internazionale, di adottare misure efficaci contro gli effetti negativi dei cambiamenti climatici. La Corte ha inoltre sottolineato la necessità che la consultazione pubblica sia svolta in un momento in cui tutte le opzioni siano ancora realisticamente percorribili e in cui sia possibile prevenire l’inquinamento alla fonte.

Il sistema norvegese di regolamentazione delle attività petrolifere si articola in tre fasi: una prima fase di apertura delle aree all’esplorazione, che richiede una VIA strategica e una consultazione pubblica; una seconda fase di concessione delle licenze, priva di obblighi formali di VIA o consultazione; e una terza fase relativa al Piano di sviluppo e gestione (PDO), corrispondente all’estrazione, la quale richiede in via generale una VIA e una consultazione pubblica, salvo deroghe. Le fasi della concessione e del PDO sono entrambe soggette a controllo giurisdizionale.

La Corte ha rilevato che la VIA effettuata nel procedimento culminato nella decisione del 2016 non era stata pienamente esaustiva, poiché il documento di orientamento aveva rinviato l’esame di vari aspetti rilevanti — quali gli effetti climatici, le relazioni ecologiche e l’acidificazione degli oceani — alla successiva fase di predisposizione dei piani di gestione. Anche la Corte suprema norvegese aveva rinviato la valutazione delle emissioni derivanti dalla combustione esportata alla politica climatica generale o alle future decisioni sul PDO, ritenendo che l’omissione potesse essere sanata in una fase procedurale successiva. La Corte EDU ha osservato, inoltre, che diversi progetti di estrazione erano stati autorizzati senza una valutazione delle emissioni di combustione o del loro impatto sui cambiamenti climatici. Pur riconoscendo che un uso diffuso delle deroghe all’obbligo di VIA potrebbe compromettere lo scopo stesso di una valutazione tempestiva e completa, la Corte ha attribuito rilievo prevalente agli sviluppi normativi e giurisprudenziali che nel frattempo avevano rafforzato le garanzie procedurali nella fase del PDO: l’affermazione, da parte della Corte suprema norvegese, dell’obbligo costituzionale di non approvare un PDO contrario alle esigenze climatiche e ambientali; la recente sentenza della Corte EFTA che impone ai giudici nazionali di eliminare gli effetti di una VIA incompleta, anche retroattivamente, purché non si eluda la legge; e, infine, l’impegno ufficiale del Governo a garantire una valutazione delle emissioni da combustione e una consultazione pubblica informata prima dell’adozione delle decisioni rilevanti. Alla luce di tali elementi, la Corte ha concluso che non esisteva alcun problema strutturale idoneo a rimettere in discussione l’efficace attuazione del quadro normativo nazionale e che la scelta di rinviare la VIA alla fase del PDO non era, di per sé, incompatibile con l’articolo 8. Ne è derivata l’assenza di una violazione di tale disposizione.

Quanto alla doglianza relativa all’art. 14, in combinato disposto con l’articolo 8, la Corte l’ha dichiarata inammissibile, rilevando che nessun motivo di discriminazione era stato sollevato — nemmeno nella sua sostanza — nell’ambito del procedimento interno di revisione giudiziaria.

Infine, in relazione all’art. 13, la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali avessero svolto un esame adeguato delle questioni dedotte, sottolineando che la Corte suprema aveva dedicato una parte autonoma della propria decisione alla valutazione della rilevanza dei diritti convenzionali, rispondendo alle argomentazioni dei ricorrenti e discutendo la giurisprudenza della Corte EDU. Il fatto che alcune conclusioni della Corte suprema potessero essere messe in discussione alla luce della pronuncia di Strasburgo non significava che tale valutazione fosse stata condotta in modo insufficiente o non diligente. Non emergendo alcuna carenza nell’estensione del controllo giurisdizionale interno, la doglianza è stata dichiarata inammissibile.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

12/12/2025
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La filiazione di intenzione e l’obbligo positivo dello Stato nella tutela dell’identità del minore: nota alla sentenza CEDU del 9 ottobre 2025

Il ricorso sottoposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo concerne l’annullamento della trascrizione dell’atto di nascita di un minore, nato in Italia nel 2018 a seguito di procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata all’estero, nella parte in cui risultava menzionata la madre d’intenzione, ossia la partner della madre biologica, partecipe del progetto genitoriale. Invocando l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la ricorrente lamenta la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, ritenendo che l’annullamento della trascrizione, intervenuto a distanza di oltre cinque anni dalla nascita, abbia comportato la perdita del legame giuridico di filiazione che univa il minore alla madre d’intenzione, nonché un’incertezza protratta sulla sua identità personale e familiare. 
La pronuncia si colloca in un momento di profonda trasformazione del diritto di famiglia, chiamato a confrontarsi con modelli di filiazione che non coincidono più con lo schema tradizionale biologico e che, tuttavia, chiedono riconoscimento e protezione sul piano giuridico.

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