Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di giugno 2020

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo a giugno 2020

Le più rilevanti sentenze di giugno della Corte europea dei diritti dell’uomo coinvolgono l’Italia sotto diversi profili: nella causa Citraro e Molina, l’Italia è stata condannata sotto il profilo materiale dell’art. 2, avendo dimostrato una mancanza di diligenza nell’impedire il suicidio di un detenuto; negli altri due casi invece – Santonicola e Palumbo e S.L. e A.L. – in cui si lamenta la violazione dell’art. 8, la Corte ha statuito l’irricevibilità della richiesta. I giudici della Grande Camera si sono poi pronunciati sull’equa soddisfazione nella causa Molla Sali c. Grecia, di fondamentale importanza in tema di libertà religiosa e diritto all’autodeterminazione. Infine, la Corte si è pronunciata sul diritto alla libertà di espressione, garantito dall’art. 10, in due casi che hanno visto coinvolte la Francia e l’Islanda.

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera) 18 giugno 2020 rich. nn. 20452/14, Molla Sali c. Grecia

Oggetto: articolo 41 (equa soddisfazione), restitutio in integrum, danno materiale, danno morale, spese processuali, forza vincolante delle sentenze della Corte Edu

La Corte Edu ha stabilito all’unanimità un’equa soddisfazione per quanto riguarda i beni situati in Grecia. Ha invece rigettato, con quattordici voti contro tre, la richiesta della ricorrente relativa ai beni situati in Turchia.

 

Sentenza della Grande Camera del 19 dicembre 2018

Con sentenza del 19 dicembre 2018, la Grande Camera della Corte Edu ha condannato all’unanimità la Grecia per aver violato l’articolo 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 1 del Protocollo addizionale (protezione della proprietà). La ricorrente – la sig.ra Molla Sali, cittadina greca sposata con un membro della comunità musulmana della Tracia – ha ricevuto un trattamento discriminatorio da parte dello Stato greco, che ha applicato la sharia in tema di successioni, contro la volontà del testatore, il quale aveva scelto di redigere il testamento secondo le norme del codice civile greco. A seguito della sentenza della Corte di cassazione greca, la ricorrente è stata privata di tre quarti dei beni lasciati in eredità. La Corte Edu, tuttavia, non ha disposto un’equa soddisfazione, riservandola a una fase successiva e auspicando il raggiungimento di un accordo tra le parti. 

Si veda anche: Principio di non discriminazione e norme speciali per le minoranze. La legge sacra islamica di fronte alla Cedu

 

I fatti successivi alla sentenza della Grande Camera

A seguito della sentenza del 20 novembre 2018, del tribunale di primo grado di Rhodope – che ordinò la modifica dei beni all’ufficio catastale, sulla base delle decisioni dei giudici interni a favore delle sorelle del defunto – la sig.ra Molla Sali presentò ricorso alla Corte d’appello della Tracia. Allegando la sentenza della Corte Edu, sostenne l’impossibilità per le sorelle del marito defunto di registrare i loro diritti successori, in applicazione della sharia, nel registro catastale; aggiunse inoltre che le sorelle del marito in passato avevano accettato la successione del padre secondo le disposizioni del codice civile greco. La Corte d’appello, facendo riferimento a una sentenza precedente passata in giudicato, a cui si considerava vincolata, decise che nel caso di specie doveva ritenersi applicabile la sharia. La sig.ra Molla Sali presentò quindi ricorso per Cassazione, processo ancora pendente.

La ricorrente inoltre, a seguito della morte del marito, agì in giudizio davanti alla giurisdizione turca relativamente ai beni situati sul territorio turco. Le sorelle del marito, parallelamente, presentarono alle autorità turche domanda di annullamento del testamento. Tale procedimento è pendente davanti alla Corte d’appello di Istanbul.

La ricorrente ha nuovamente adito la Corte Edu per sollecitare un’equa soddisfazione – per il danno morale e materiale ricevuto, nonché per le spese processuali – relativa ai beni del marito defunto situati in Grecia e in Turchia. Poiché le parti non hanno raggiunto un accordo autonomamente, la Grande Camera ha deciso con sentenza del 18 giugno 2020.

 

In diritto

a)     Beni situati in Grecia

In merito al danno materiale, la Corte rileva che, in base alle informazioni allegate dalle parti, il registro catastale non è ancora stato modificato: le sorelle del defunto perciò potranno risultare comproprietarie dei beni del testatore solo con una sentenza irrevocabile a loro favore. Di conseguenza, la violazione della Convenzione non si è ancora concretizzata. La Grande Camera sottolinea dunque che «il ripristino della situazione, il più vicino possibile a quella che sarebbe stata in assenza della violazione accertata, consisterebbe nell’adozione di misure che consentano alla ricorrente di rimanere proprietaria dei beni lasciati in eredità in Grecia […] oppure, qualora vi sia una modifica del registro catastale, che siano rispettati i suoi diritti di proprietà» (§ 42).

I giudici di Strasburgo invitano dunque lo Stato greco ad adottare le suddette misure entro un anno dalla sentenza della Corte. Se il termine non viene rispettato, continua la Grande Camera, la Grecia dovrà versare un indennizzo alla ricorrente pari a tre quarti del valore totale dei beni.

In merito al danno morale e alle spese di giustizia, la Corte condanna lo Stato greco al pagamento rispettivamente di 10.000 euro e 5800 euro circa. 

b)     Beni situati in Turchia

La Corte rigetta a maggioranza la richiesta. Ricorda anzitutto che la ricorrente ha allegato la violazione dei suoi diritti solamente da parte della Grecia. Rileva inoltre che il procedimento è ancora pendente davanti alle giurisdizioni turche. I beni situati sul territorio turco non possono dunque essere ricompresi nella richiesta di equa soddisfazione nel quadro del presente procedimento (§ 50).

La Grande Camera precisa poi che, ex art. 46, le sentenze della Corte Edu vincolano esclusivamente gli Stati che prendono parte al procedimento. La Turchia, nel caso di specie, non rientra dunque nella fattispecie dell’art. 46 della Convenzione. Ciò non toglie la possibilità per le autorità turche di pronunciarsi tenendo conto della sentenza della Corte Edu o per la sig.ra Molla Sali di presentare un nuovo ricorso alla Corte di Strasburgo contro la Turchia (§ 52).

Molla Sali c. Grecia

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 4 giugno 2020 rich. nn. 50988/13, Citraro e Molina c. Italia

Oggetto: articolo 2 (diritto alla vita), 3 (proibizione della tortura), suicidio di un detenuto, responsabilità delle autorità, adeguatezza delle misure adottate, diligenza, efficacia dell’indagine  

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’elemento materiale dell’art. 2 della Convenzione. Non vi è stata, secondo la Corte, violazione dell’art. 2 sul profilo procedurale. 

I ricorrenti, genitori di A.C. morto in carcere per suicidio il 16 gennaio 2001, lamentano la violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione, contestando alle autorità nazionali di non aver adottato tutte le misure necessarie a evitare la morte del figlio e di non aver condotto un’indagine effettiva sull’accaduto. 

A.C., detenuto nel carcere di Messina, nel gennaio 2001 dichiarò di temere per la sua vita e venne, quindi, trasferito nel reparto penitenziario «sosta». Nel 1995 gli fu diagnosticato un insieme di disturbi della personalità (dramatic clauster). I giorni precedenti la morte, compì diversi agiti autolesionisti per i quali fu necessario sorvegliarlo costantemente e privare la sua cella di qualsiasi oggetto. Lo psichiatra che lo visitò sottolineò l’urgenza di trasferire il detenuto presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario e la direttrice del carcere ne fece richiesta al magistrato di sorveglianza. Il 16 gennaio A.C. fu trovato morto nella sua cella.

A seguito di tale evento, venne aperta un’indagine nei confronti della direttrice del carcere, dello psichiatra e di sei guardie della struttura carceraria. Venne immediatamente richiesta l’autopsia sul corpo di A.C., vennero svolte diverse audizioni, compresa quella dei ricorrenti, e alcune ispezioni all’interno del carcere. All’esito di tale indagine, il pm chiese il rinvio a giudizio degli indagati e il giudice di primo grado – ritenendo che tra i comportamenti degli imputati e la morte di A.C. non vi fosse alcun nesso causale e che gli stessi avessero adottato tutte le misure necessarie alla salvaguardia della sua vita – pronunciò l’assoluzione. I ricorrenti, che si costituirono parte civile, non ottennero un’equa soddisfazione per le questioni civili (danni materiali e morali subiti) né in sede di appello né di fronte alla Corte di cassazione. 

La Corte Edu, anzitutto, rammenta che «l'obbligo per le autorità di proteggere la vita di una persona privata della libertà sussiste dal momento in cui queste ultime sapevano o avrebbero dovuto sapere che vi era un rischio reale e immediato che la persona interessata attentasse alla propria vita» (§70). Lo Stato ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per evitare tale rischio. 

Nel presente caso la Corte ritiene che le autorità fossero a conoscenza del rischio reale e immediato, visti gli agiti autolesionisti compiuti nei giorni precedenti la morte e il peggioramento della sua condizione psichica. Le autorità, da un lato, adottarono alcune misure per proteggere A.C.; dall’altro, alcuni elementi dimostrano una mancanza di diligenza: un lasso di tempo non compatibile con il carattere urgente della situazione nel trasferire A.C. all’OPG, la decisione di abbassare il livello di sorveglianza, la mancata decisione di spostare A.C. in un’altra cella (dopo che lo stesso distrusse tutti gli oggetti presenti nella sua, compreso l’impianto di illuminazione e rimase per giorni totalmente al buio). La Corte Edu ritiene dunque che l’elemento materiale dell’art. 2 sia stato violato. 

Non ritiene che vi sia stata violazione sul profilo procedurale – considerando l’indagine svolta pienamente efficace e, quindi, adeguata, indipendente, celere, caratterizzata da ragionevole diligenza e accessibile ai familiari della vittima (§ 99) – e non ritiene necessaria una valutazione separata dell’art. 3.

Citraro e Molina c. Italia

 

Decisione della Corte Edu (Sezione I) 18 giugno 2020 rich. nn. 30589/18, Santonicola e Palumbo c. Italia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita familiare e privata), diritto dei nonni, diritto di visita, esaurimento delle vie di ricorso interne

La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, l’irricevibilità del ricorso.

I ricorrenti sono i nonni di P., minore nata nel 2012, e lamentano la violazione dell’art. 8 da parte delle autorità nazionali che non hanno tutelato il loro diritto di instaurare un rapporto con la bambina. Diritto negato dai conflitti esistenti con la figlia, madre della minore, la quale si era sempre opposta. Il diritto degli ascendenti a mantenere un rapporto significativo con i nipoti è previsto dall’art. 337 bis cc, il quale prevede anche la possibilità di adire il giudice competente per chiedere che vengano adottati i provvedimenti necessari. 

I ricorrenti, quindi, nel 2012 presentarono ricorso al Tribunale per i Minorenni di Napoli. Quest’ultimo, tuttavia, respinse il ricorso a seguito dell’esito dell’indagine psicosociale svolta dai Servizi Sociali, dalla quale emergeva un rapporto di grande conflittualità con la figlia, che affermava di aver subito da bambina maltrattamenti e vessazioni da parte dei genitori, per cui era in corso un procedimento penale a loro carico. 

La decisione del tribunale fu impugnata nel 2013 davanti alla Corte d’Appello, che ordinò di fissare degli incontri in uno spazio neutro tra nonni e nipote. Nel 2016 i Servizi Sociali informarono il giudice di secondo grado che gli incontri erano stati interrotti, principalmente a causa della conflittualità esistente tra la madre della minore e i ricorrenti. Contemporaneamente, i ricorrenti adirono il giudice tutelare con la richiesta di esaminare la mancata esecuzione da parte della figlia del provvedimento della Corte d’Appello. In sede penale, gli stessi vennero condannati a quattro anni di reclusione per maltrattamenti (tale pronuncia fu impugnata davanti alla Corte d’Appello, senza ulteriori informazioni circa l’esito). 

La Corte Edu, anzitutto, rammenta che ai sensi 35 § 1 della Convenzione, la stessa può essere adita solo dopo aver esaurito tutte le vie di ricorso interne. Sottolinea inoltre che «il mero fatto di nutrire dubbi quanto alle prospettive di successo di un dato ricorso che non è, secondo ogni evidenza, destinato al fallimento non costituisce un motivo valido per giustificare il mancato utilizzo di ricorsi interni» (§ 35). Affermando ciò, la Corte condivide una delle eccezioni sollevate dal Governo: i ricorrenti avrebbero dovuto impugnare la mancata esecuzione del provvedimento emesso a loro favore di fronte alla Corte d’Appello e non di fronte al giudice tutelare (come previsto dall’art. 337 ter cc). Secondo la Corte, quindi, i ricorrenti non hanno dato ai giudici nazionali la possibilità di «prevenire e riparare nel loro ordinamento giuridico interno le violazioni della Convenzione» (§ 37) e per questo motivo il ricorso va considerato irricevibile.

Santonicola e Palumbo c. Italia

 

Decisione della Corte Edu (Sezione I) 4 giugno 2020 rich. nn. 896/16, S.L. e A.L. c. Italia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), Convenzione Aja, durata del procedimento, litispendenza europea, separazione e divorzio, affidamento, interesse del minore

La Corte ha statuito, all’unanimità, l’irricevibilità del ricorso. 

La causa nasce dal ricorso di un cittadino italiano, in nome proprio e per conto del figlio minorenne che vive in Romania con la madre. 

Il ricorrente nel 2007 chiese la separazione e l’affidamento esclusivo del figlio davanti al tribunale di Teramo, mentre la moglie nel 2009 chiese davanti alle autorità rumene il divorzio e l’affidamento del figlio. Nel 2012 quest’ultima ottenne quanto chiesto, mentre l’anno successivo il ricorrente ottenne la separazione e la custodia del figlio. La moglie del ricorrente adì la Corte d’appello de L’Aquila perché sospendesse l’esecuzione della pronuncia, riconoscendo che nel frattempo la stessa aveva ottenuto il divorzio in Romania con sentenza definitiva. Il ricorrente, di conseguenza, ricorse per cassazione, chiedendo che la questione della litispendenza europea – ai sensi dell’art. 19 del regolamento n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003 – fosse sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea. A seguito della pronuncia della Corte di giustizia, la Cassazione confermò la decisione di secondo grado.

La Corte Edu, anzitutto, ricorda che il diritto di genitori e figli di avere un rapporto e poter passare il tempo insieme rientra nel campo di applicazione dell’art. 8 e le misure nazionali che impediscono tale diritto si pongono in conflitto con la Convenzione. Nel caso di specie, la Corte evidenzia che il ricorrente – che contesta al Governo italiano di aver impiegato troppo tempo nel pronunciarsi sull’affidamento del minore e di non aver garantito il rientro del minore in Italia – non ha fatto domanda ai sensi della Convenzione Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. Si è limitato a iniziare un procedimento di separazione e non ha presentato contestazioni davanti alla Corte d’appello. La Corte ricorda che il Tribunale di Teramo si è pronunciato in via provvisoria dopo quattro mesi e dodici giorni, nel rispetto del profilo procedurale dell’art. 8 della Convenzione (§ 69). La prima sezione inoltre evidenzia come il rapporto conflittuale degli ex coniugi abbia contribuito fortemente al ritardo, che non ha permesso di giungere a un accordo nell’interesse del minore in tempi brevi (§72).

Le autorità italiane, quindi, hanno agito secondo la dovuta diligenza, adottando tutte le misure necessarie a garantire al ricorrente di mantenere un legame con il figlio (§73). La Corte Edu valuta dunque la richiesta manifestamente infondata e dichiara il ricorso irricevibile ex art. 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione. 

S.L. e A.L. c. Italia

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione V) 11 giugno 2020 rich. nn. 15271/16 e altre, Baldassi e altri c. Francia

Oggetto: articolo 7 (nullum crimen sine lege), 10 (libertà di espressione), ingerenza dello Stato, necessità in una società democratica, boicottaggio, libertà di espressione politica

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 10. Ha inoltre statuito, con sei voti contro uno, la non violazione dell’art. 7. 

La causa nasce dal ricorso di alcuni cittadini francesi, facenti parte del collettivo «Palestina 68», che lamentano la violazione degli artt. 7 e 10 della Convenzione. 

A seguito di un parere della Corte Internazionale di Giustizia, che stabilì la contrarietà al diritto internazionale delle azioni di Israele, in merito alla costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, i ricorrenti intrapresero azioni non violente all’interno di supermercati, invitando al boicottaggio dei prodotti israeliani. A causa di tali comportamenti vennero indagati per i reati previsti dalla legge sulla libertà di stampa, del 29 luglio 1881, e riguardanti l’incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione nei confronti di persone o gruppi di persone a causa della loro origine o dell’appartenenza a un gruppo etnico. Il tribunale di primo grado assolse i ricorrenti, ma la Corte d’Appello ribaltò la sentenza condannandoli. La Corte di Cassazione, infine, affermò che la libertà di espressione potesse essere limitata a tutela dei diritti altrui e dell’ordine pubblico (§ 17). 

Invocando la violazione dell’art. 7 della Convenzione, i ricorrenti lamentano di essere stati condannati sulla base dell’art. 24 c. 8 della legge sulla libertà di stampa, per incitazione alla discriminazione economica, senza che tale discriminazione rientri nella fattispecie dell’art. 24. La Corte Edu non rileva alcuna violazione del principio del nullum crimen sine lege previsto dall’art. 7, nonostante la discriminazione economica non fosse prevista dalla disposizione in questione, perché esiste un precedente giurisprudenziale della Corte di cassazione francese (§ 39). I ricorrenti potevano sapere di correre il rischio di una condanna sulla base dell’art. 24 della legge del 29 luglio 1881.

In merito alla violazione dell’art. 10, i ricorrenti contestano di essere stati limitati nella loro libertà di espressione, in cui rientra il boicottaggio, sottolineando che le loro azioni non sono mai state connotate da incitamento all’odio, alla violenza e all’antisemitismo. Specificano inoltre che il boicottaggio è una forma di espressione politica relativa a una questione di interesse generale: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese mediante l’applicazione del diritto internazionale (§ 48). 

La Corte Edu afferma, in linea con i ricorrenti, che vi è stata ingerenza da parte dello Stato nella loro libertà di espressione. Deve tuttavia valutare se tale interferenza sia giustificata, ex art. 10 § 2, perché prevista dalla legge, necessaria in una società democratica e perché persegue uno scopo legittimo. La Corte ritiene tale ingerenza fosse prevista dalla legge, sulla base delle considerazioni fatte in merito all’art. 7 della Convenzione. Il governo francese intendeva perseguire lo scopo di proteggere i diritti dei produttori e dei fornitori, secondo i giudici di Strasburgo: ha perseguito dunque uno scopo legittimo. La quinta sezione rileva, tuttavia, che i giudici nazionali non hanno tenuto in considerazione le circostanze del caso, ma hanno applicato la legge in maniera generale. L’ingerenza non era dunque necessaria in una società democratica. La Corte ricorda, infatti, che il discorso politico è sempre fonte di controversie, ma rimane un diritto di interesse pubblico, il cui limite invalicabile è l’appello all’odio, alla violenza e all’intolleranza, limite che, secondo la Corte, non è stato superato dai ricorrenti. 

Vi è dunque stata violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Baldassi e altri c. Francia

 

Decisione della Corte Edu (Sezione II) 11 giugno 2020 rich. nn. 29297/18, C. J. Lilliendahl c. Islanda

Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione), hate speech, ingerenza dello Stato, bilanciamento dei diritti, tutela dei diritti altrui, ingerenza necessaria in una società democratica

La Corte Edu ha statuito, all’unanimità, la non violazione dell’art. 10 della Convenzione. 

La causa nasce dal ricorso di un cittadino islandese, il sig. Lilliendahl, condannato dalla Corte Suprema nazionale per aver pubblicamente criticato - attraverso commenti che la Corte stessa giudicò gravi, offensivi e pregiudizievoli («serious, severely hurtful and prejudicial», §16) - l’iniziativa intrapresa in una scuola di mettere in atto un progetto di educazione sul tema dell’identità di genere (nello specifico, in tema di LGBTI). Il ricorrente, infatti, considerò l’iniziativa disgustosa e utilizzò il termine «kynvilla» (letteralmente «devianza sessuale») riferito all’omosessualità. La Corte Suprema islandese ritenne il comportamento del ricorrente in violazione dell’art. 233 (a) del codice penale, che tutela gli individui da qualsiasi forma di discriminazione prevedendo una pena massima di due anni di reclusione. Statuì inoltre la violazione dell’art. 71 della Costituzione, che tutela il rispetto della vita privata e familiare, sottolineando che la libertà di espressione trova dei limiti di fronte alla necessità di proteggere i diritti altrui. 

Il ricorrente lamenta, quindi, la violazione dell’art. 10 della Convenzione, considerando illegittima la restrizione della propria libertà di espressione. 

La Corte Edu, anzitutto, è tenuta ad esaminare l’eventuale applicazione dell’art. 17 (divieto dell’abuso di diritto)[1] al presente caso. La condotta del ricorrente non integra la fattispecie dell’art. 17 poiché, nonostante i commenti fossero altamente pregiudizievoli, non avevano l’obiettivo di incitare alla violenza o all’odio e alla distruzione delle libertà e dei diritti fondamentali. Tali elementi devono essere presenti per l’applicazione dell’art. 17. 

Successivamente, la Corte esamina la fattispecie dell’art. 10, affermando che un’interferenza nella libertà di espressione è ammessa, ex art. 10 § 2, solo se prescritta dalla legge, se persegue uno o più scopi legittimi e se necessaria in una società democratica (§ 32). Nel presente caso, in primo luogo, la Corte indaga la natura dei commenti del ricorrente, affermando che rientrano nella seconda delle due categorie appartenenti al c.d. hate speech. La seconda categoria prende in esame le forme meno gravi di commenti, che attaccano singoli o gruppi di persone, offendendo, beffeggiando o calunniando («by insulting, holding up to ridicule or slandering», § 36). Prosegue, poi, analizzando se l’interferenza sia prescritta dalla legge, sottolineando come sia necessaria non soltanto una base legale, ma che la legge sia accessibile e prevedibile nei suoi effetti. L’art. 233 (a) del codice penale rientra nei requisiti richiesti e, quindi, si può ritenere che l’interferenza nel diritto del ricorrente fosse prescritta dalla legge. Non vi sono dubbi, inoltre, secondo la Corte, che lo scopo dell’art. 233 (a) del codice penale sia uno scopo legittimo che rientra nell’ambito dell’art. 10 § 2. Infine, i giudici di Strasburgo, concordando con la Corte Suprema, ritengono che sia necessario in una società democratica tutelare il diritto alla vita privata e familiare di fronte a discriminazioni e pregiudizi, attraverso la limitazione della libertà di espressione, tenuto conto anche del fatto che il ricorrente non è stato condannato a due anni di reclusione, ma a una sanzione pecuniaria. Il ricorso è, quindi, manifestamente infondato e non vi è stata violazione dell’art. 10.

 J. Lilliendahl c. Islanda

 
[1] Art. 17, Convenzione Edu: «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione».

[**]

Marika Ikonomu, Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa
 
Agnese Galatà, Università degli Studi di Milano, tirocinante ex. art.73 del dl 69/2013, presso il Tribunale per i Minorenni di Milano

16/12/2020
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