Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di giugno 2019

Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo a Giugno 2019

Le più rilevanti sentenze di giugno della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’articolo 8 della Convenzione. In particolare, si tratta il tema del bilanciamento dei vari interessi in gioco, tra cui il best interest of the child. La Corte ha inoltre riconosciuto la violazione dell’articolo 3 (proibizione della tortura), in tema di ergastolo ostativo, da un lato, in tema di accoglienza di minori stranieri non accompagnati, dall’altro. Ancora, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato l’importanza del diritto garantito dall’art. 5 § 1, ossia il diritto alla libertà e alla sicurezza, che fornisce una tutela contro l’arbitrarietà dell’arresto.

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 13 giugno 2019 rich. nn. 77633/16, Marcello Viola c. Italia (n. 2)

Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), associazione per delinquere di stampo mafioso, ergastolo ostativo, dignità umana, liberazione condizionale, irriducibilità de iure e de facto della pena.

La Corte Edu ha statuito, con sei voti contro uno, la violazione dell’art. 3.

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http://questionegiustizia.it/articolo/ergastolo-ostativo-la-corte-di-strasburgo-condanna-l-italia_13-06-2019.php

 

Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 13 giugno 2019 rich. nn. 14165/16, SH.D. e altri c. Grecia, Austria, Croazia, Ungheria, Macedonia del Nord, Serbia e Slovenia

Oggetto: articolo 3 (proibizione della tortura), 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), minori stranieri non accompagnati, custodia, condizioni di vita degradanti, assegnazione di un tutore, soggetti vulnerabili, interesse superiore del minore, detenzione irregolare.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 3 e 5 § 1.

 

Il caso coinvolge cinque minori afgani, minori stranieri non accompagnati, e chiama in causa sette Stati membri del Consiglio d’Europa, accusati di aver violato gli artt. 3 e 5 § 1 della Convenzione.

I minori, di un’età compresa tra i 14 e i 17 anni al momento di ingresso nel territorio greco e appartenenti alla minoranza religiosa ismaili, nel febbraio 2016, furono arrestati dalla polizia greca. Venne poi ordinato loro di lasciare il territorio dello Stato, con un ordine di espulsione. Alcuni tentarono di varcare il confine attraverso la frontiera macedone, ma vennero fermati, mentre nei confronti di SH.D., arrestato dalla polizia greca, venne disposta la custodia presso il comando di polizia di Polykastro, dove rimase per ventiquattr’ore. Altri minori, arrestati sull’isola di Chio e ricevuto un ordine di espulsione, si recarono a Idomeni, luogo di frontiera verso la Macedonia del Nord, e rimasero per circa un mese in condizioni precarie all’interno di un campo profughi gestito da alcune ONG (allora il campo poteva ospitare 1.500 persone e ne conteneva 13.000). Vennero poi accompagnati dal loro avvocato ad Atene, presso il Servizio centrale d’asilo, affinché potessero fare richiesta di protezione internazionale. Soggiornarono in un albergo occupato; tre di loro vennero poi trasferiti nella struttura d’accoglienza per minori stranieri non accompagnati «Faros», supervisionata da soggetti internazionali, mentre gli altri due furono collocati in un’altra struttura specializzata, gestita dall’UNHCR. Uno dei soggetti tentò di arrivare in Italia attraverso il porto di Igoumenitsa: venne arrestato, condotto alla stazione di polizia della città e, dopo un tentativo di suicidio, venne trasferito alla stazione di polizia di Filata. Due dei cinque ricorrenti, infine, ottennero lo status di rifugiato tra il 2016 e il 2017.

I ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 3 della Convenzione, a causa delle condizioni di soggiorno nel territorio greco. Nello specifico, i minori denunciano le condizioni delle stazioni di polizia di Polykastro e Filiata, nonché la situazione precaria e disumana del campo di Idomeni. I ricorrenti allegano inoltre la violazione dell’art. 5 § 1, poiché ritengono che tale diritto non sia stato garantito nelle stazioni di polizia.

La Corte Edu dichiara ricevibili le accuse rivolte alla Grecia, mentre dichiara irricevibili le domande rivolte agli altri Stati. In merito alla violazione dell’art. 3, la Corte valuta le condizioni sofferte rispettivamente nelle stazioni di polizia e nel campo profughi di Idomeni. Sul primo profilo, i giudici della prima sezione affermano che le diverse stazioni di polizia non erano adatte a una permanenza prolungata e potevano suscitare sentimenti di solitudine e isolamento dal mondo esterno, portando conseguenze negative sul benestare fisico e psicologico dei minori. Si considera, dunque, equivalente a un trattamento degradante ex art. 3.

Sul secondo profilo, relativo al campo profughi di Idomeni, la Corte ricorda che gli Stati membri hanno il dovere di proteggere e prendere in carica i minori stranieri non accompagnati. Quattro ricorrenti hanno soggiornato per un mese circa in un campo profughi precario costruito dagli stessi migranti, luogo in cui mancano i controlli delle autorità statali. La Corte sottolinea come lo Stato permetta l’esistenza di questo campo, e l’aggravamento delle sue condizioni, non proceda allo smantellamento, né metta in campo soluzioni per limitare la crisi umanitaria in atto. Inoltre, la normativa nazionale prevede la necessità di individuare un tutore: le autorità sono obbligate a informare il procuratore competente e tale soggetto agisce come tutore provvisorio. Tuttavia, nel presente caso, le autorità non hanno informato alcun procuratore della presenza dei minori, procedura che avrebbe permesso il trasferimento in un luogo più adatto alla loro situazione. La Corte Edu dunque, dimostrando che le autorità interne non hanno agito in modo ragionevole e trattandosi di soggetti particolarmente vulnerabili, ha statuito la violazione dell’art. 3.

Infine, il terzo e ultimo profilo esaminato dalla Corte riguarda l’art. 5 § 1: la collocazione in custodia protettiva dei tre ricorrenti presso le stazioni di polizia ha costituito una privazione di libertà e, in particolar modo, una detenzione irregolare, poiché non sono state rispettate le norme che definiscono tale misura come rimedio di ultima istanza, né le disposizioni che obbligano lo Stato a considerare nella decisione l’interesse superiore del minore.

In conclusione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, nel caso SH.D. e altri c. Grecia, Austria, Croazia, Ungheria, Macedonia del Nord, Serbia e Slovenia, la Grecia ha violato gli artt. 3 e 5 § 1 della Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 11 giugno 2019 rich. nn. 42305/18, Ozdil e altri c. Repubblica di Moldova

Oggetto: articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), diritto d’asilo, arbitrarietà dell’arresto, standard minimi contro l’arbitrario, ingerenza dello Stato.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione degli artt. 5 § 1 e 8.

 

Nel caso Ozdil e altri c. Repubblica di Moldova, i ricorrenti, cinque cittadini turchi, lamentano la violazione degli artt. 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6 § 1 (diritto a un equo processo) della Convenzione, nonché l’art. 1 del Protocollo n. 7 (garanzie procedurali in caso di espulsione di stranieri).

Dopo il tentativo di colpo di stato militare del 2016, i ricorrenti, professori presso un istituto scolastico privato chiamato Orizont, furono accusati dall’ambasciatore turco in servizio in Moldova di appartenere al movimento Gülen. Gli insegnanti della scuola vennero dunque accusati di terrorismo. In seguito all’arresto del direttore dell’istituto Orizont di Chişinău, i ricorrenti presentarono la domanda d’asilo presso le autorità moldave, temendo eventuali azioni da parte del Governo turco a causa delle loro opinioni politiche. Nel quadro di un’operazione congiunta dei servizi segreti moldavi e turchi, i ricorrenti furono arrestati e condotti in Turchia. Le famiglie, all’oscuro delle motivazioni dell’arresto, ricevettero il diniego della richiesta d’asilo, il divieto, per i ricorrenti, di entrare nel territorio moldavo per cinque anni, nonché l’espulsione con accompagnamento alla frontiera. L’ufficio competente in materia di immigrazione e asilo aggiunse che, nonostante i ricorrenti si trovassero in una condizione favorevole all’ottenimento dell’asilo, erano considerati una minaccia per la sicurezza nazionale da parte dei servizi segreti moldavi.

I cinque ricorrenti, invocando la Convenzione Edu, lamentano l’illegittimità delle azioni volte alla privazione della libertà personale e all’estradizione verso la Turchia.

La Corte di Strasburgo accoglie la domanda relativa agli artt. 5 § 1 e 8 della Convenzione, mentre dichiara irricevibile la richiesta sotto il profilo dell’art. 6; inoltre, la valutazione di un’eventuale violazione dell’art. 1 Protocollo n. 7 è stata assorbita dalle conclusioni in merito ai primi due articoli.

I giudici della seconda sezione pongono in evidenza che le circostanze del caso concreto hanno dimostrato la premeditazione e l’organizzazione nel dettaglio dell’operazione congiunta, pianificata in modo tale da cogliere alla sprovvista i ricorrenti, al fine di non consentire la difesa. Inoltre, l’ufficio competente in materia di immigrazione e asilo non ha comunicato il rigetto delle domande di asilo direttamente alle persone interessate, ma alle famiglie, successivamente all’espulsione dei richiedenti. Di conseguenza, la Corte Edu, considerate le circostanze del caso e la rapidità delle operazioni, ritiene che la privazione di libertà non sia stata regolare né necessaria ex art. 5 § 1 f): non sono state fornite dunque garanzie contro l’arbitrarietà. La privazione di libertà di tali soggetti si è rivelata un trasferimento extragiudiziario, dal territorio moldavo a quello turco, privo di qualsiasi garanzia assicurata dal diritto interno e dal diritto internazionale.

Sotto il profilo dell’art. 8, visto l’elevato livello di integrazione dei soggetti nella società moldava, la Corte ritiene che l’allontanamento dalla Moldova abbia provocato uno sconvolgimento nella loro vita privata e familiare. Poiché il trasferimento forzato non è stato giustificato da alcun presupposto legale sufficiente, tale ingerenza non era prevista dalla legge, come richiesto dall’art. 8 § 2 della Convenzione. Inoltre, chiunque sia soggetto a una misura per motivi di sicurezza nazionale deve essere posto nella condizione di adire un organo indipendente e imparziale (§ 68).

Data la mancanza di un livello minimo di garanzie contro l’arbitrario da parte delle autorità moldave, la Corte Edu afferma che l’ingerenza dello Stato nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non è stata giustificata da alcuna previsione legislativa.

I giudici di Strasburgo dichiarano dunque la violazione degli artt. 5 § 1 e 8 della Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione I) 6 giugno 2019 rich. nn. 78392/14, Bileski c. Macedonia del Nord

Oggetto: 6 § 1 (diritto a un equo processo), principio di oralità, diritto a «far esaminare i testimoni», motivazione delle decisioni.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 6.

 

Il sig. Bileski lamenta la violazione degli artt. 6 § 1 (diritto a un equo processo), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo); la Corte ha dichiarato ammissibili le domande, ma non ha ritenuto necessaria una valutazione separata delle richieste relative agli articoli 8 e 13, considerate assorbite dall’esame dell’art. 6 § 1.

Il cittadino macedone, accusato di aver collaborato con i servizi di sicurezza dell’allora regime comunista, fu destituito dalla sua funzione di giudice nel 2014, poiché la commissione competente («Fact Verification Commission», conosciuta come «the Lustration Commission») lo aveva individuato come «intermediario operativo» del regime presso i servizi di sicurezza, in cambio di una promozione, e fu considerato responsabile di aver fornito informazioni relative a determinati soggetti, causando loro pregiudizio.

Durante il procedimento amministrativo, il sig. Bileski contestò le conclusioni della commissione, nonché la veridicità dei documenti. Richiese, inoltre, al tribunale le testimonianze dell’ufficiale sulle cui dichiarazioni si basava l’accusa e di un esperto, ex agente dei servizi segreti. Il tribunale amministrativo rigettò le richieste del ricorrente e, nel 2013 la Corte affermò in primo grado che il sig. Bileski non aveva fornito elementi che provassero fatti diversi. Decisione poi confermata dalla giurisdizione superiore.

La Corte Edu esamina i differenti elementi che compongono il diritto garantito dall’art. 6, al fine di determinare l’equità del procedimento nel suo complesso. Anzitutto, la mancanza di trattazione orale e coinvolgimento del soggetto in tutto il procedimento pregiudica l’esercizio del diritto stesso. I tribunali amministrativi non hanno accolto le testimonianze allegate dal ricorrente e hanno fondato la loro decisione esclusivamente su atti scritti. L’art. 6 della Convenzione richiede alle corti interne una motivazione sostanziale delle decisioni, garanzia violata dalle corti macedoni. Inoltre, non vi sono state circostanze eccezionali che abbiano giustificato la negazione di un esame orale.

In aggiunta, la Corte Edu evidenzia il mancato esame delle prove allegate dal ricorrente: tali elementi «erano cruciali per l’esito della causa e, pertanto, necessitavano di una risposta puntuale» (§ 41). La Corte Edu riconosce dunque, da parte delle corti interne, il mancato rispetto del principio di oralità, l’assenza di una precisa giustificazione delle decisioni, nonché di un’analisi puntuale delle prove allegate dal ricorrente.

Considerate complessivamente tali limitazioni del diritto, i giudici della prima sezione hanno individuato una violazione del diritto a un equo procedimento ex art. 6 § 1 della Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 18 giugno 2019 rich. nn. 15122/17, Vladimir Ushakov c. Russia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), Convenzione Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, ingerenza dello Stato, bilanciamento degli interessi, best interest of the child.

La Corte ha accertato la violazione dell’art. 8.

 

Il ricorrente, cittadino russo residente in Finlandia, lamenta la violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare per sottrazione internazionale di minori.

Il sig. Ushakov sposò una cittadina russa, I.K., con cui nel 2012 ebbe una figlia, V. Poco dopo la nascita della figlia, I.K. rimase parzialmente paralizzata a causa di due ictus e il ricorrente si occupò di V. In seguito, i coniugi avviarono la procedura di divorzio, al termine della quale si statuì la custodia congiunta e la residenza della figlia presso l’abitazione del padre. A tale decisione la madre si oppose; venne tuttavia rigettato il ricorso. Di conseguenza, nel febbraio 2015, I.K., senza il consenso del ricorrente, portò la figlia in Russia, comunicando il suo rifiuto a fare ritorno. Il sig. Ushakov agì in giudizio per ottenere il ritorno della figlia, invocando la Convenzione dell’Aja del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori. La pronuncia finale del Tribunale di San Pietroburgo riconobbe come luogo di residenza abituale della minore – richiesta dall’art. 13 b) della Convenzione, secondo cui l’autorità non è tenuta a ordinare il ritorno del minore qualora si dimostri «che sussiste un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, ai pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile» – lo Stato russo e sostenne che il trasferimento di V. e il suo mancato rientro in Finlandia non fossero da considerarsi illegittimi ai sensi dell’art. 3 della medesima Convenzione. Al contrario, le autorità russe affermarono che tali elementi erano da considerarsi eccezioni al ritorno immediato richiesto dall’art. 13 lett. b). Il sig. Ushakov presentò ricorso in Cassazione, ma le autorità giudiziarie russe rifiutarono di sottoporre il caso all’esame della Corte Suprema.

La Corte Edu, nell’analisi della violazione dell’art. 8, ricorda anzitutto che tale disposizione sancisce il diritto dei minori e dei genitori di godere della reciproca compagnia. Nel presente caso, la prima interferenza nel diritto al rispetto della vita familiare è stata posta in essere da un privato cittadino, vale a dire I.K. Tuttavia, allo Stato rimane l’obbligo positivo di assicurare l’effettività di tale diritto. In aggiunta, nelle fasi successive, lo Stato russo ha interferito anch’esso nel diritto del ricorrente, interferenza giustificata dalla Convenzione dell’Aja del 1980. I giudici di Strasburgo dunque esaminano la necessità di tale ingerenza in una società democratica, nonché la correttezza del bilanciamento degli interessi concorrenti, tra cui vi è l’interesse superiore del minore.

Anzitutto la Corte Edu considera come «luogo di residenza abituale» Vantaa, comune finlandese, poiché luogo di nascita della minore, nonché luogo in cui ha trascorso la maggior parte della sua vita. La Corte, ricordando inoltre la decisione delle autorità finlandesi di riconoscere l’affidamento a entrambi i genitori, sottolinea come le disposizioni applicabili siano state «interpretate e applicate [da parte delle autorità russe] in un modo tale da rendere insignificante l’assenza del consenso del ricorrente».

Per quanto concerne il child’s best interest, i giudici della terza sezione osservano che, qualora la figlia avesse avuto realmente bisogno di cure mediche, le autorità russe avrebbero dovuto descrivere nello specifico gli opportuni trattamenti, nonché la loro equivalenza in Finlandia. La Corte afferma dunque che, nonostante sia possibile che ricorrano le circostanze eccezionali ex art. 13 lett. b), tali circostanze non sono state individuate dalle autorità russe. Lo stato di salute della minore non è stato sufficientemente considerato né valutato, non avendo così operato un corretto bilanciamento degli interessi in campo.

La Corte Edu dichiara, quindi, che vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione, non avendo l’interpretazione delle disposizioni della Convenzione dell’Aja assicurato le garanzie ex art. 8 Cedu, non essendo stata giustificata l’ingerenza dello Stato ex art. 8 c. 2 Cedu e non avendo la Russia ottemperato al suo obbligo positivo di assicurare il diritto al rispetto della vita familiare.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 18 giugno 2019 rich. nn. 16572/17, Haddad c. Spagna

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), bilanciamento degli interessi, best interest of the child, responsabilità genitoriale, obbligo positivo dello Stato di adottare misure che tengano conto degli interessi di tutti i soggetti.

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 8.

 

Nel caso Haddad c. Spagna, il ricorrente, un cittadino siriano, lamenta la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, accusando il servizio per la protezione dei minori spagnolo di non aver favorito in alcun modo la ripresa dei rapporti con la figlia, in particolare in seguito alla sua assoluzione dal reato di maltrattamenti e alla revoca delle disposizioni di allontanamento dalla famiglia.

Il cittadino siriano, a causa della guerra, nel 2012 si trasferì con la moglie, cittadina spagnola, e i tre figli (di nove, sei e un anno) in Spagna. Accusato di violenza domestica, il giudice dispose un’ordinanza di protezione provvisoria, che comprendeva il divieto di avvicinamento alla moglie e ai figli, con l’ulteriore divieto di comunicazione, nonché la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale e del diritto di visita. In seguito, fu dichiarato lo stato di abbandono dei tre minori su richiesta della madre, la quale rinunciò alla custodia, e furono collocati in centri di accoglienza, senza che il sig. Haddad ne fosse a conoscenza. Venne però convocato all’udienza di ratifica di tale decisione. Il 27 settembre 2013, il giudice penale assolse il ricorrente e revocò le misure cautelari; Haddad riuscì così a ottenere la custodia dei due figli mentre la figlia venne affidata a una famiglia in vista dell’adozione e le venne impedito di recuperare i rapporti con il padre; l’impedimento giunse dal servizio per la protezione dei minori, che richiamò i maltrattamenti fisici e psicologici perpetrati dal padre, nonché l’instabilità psicologica della madre e l’assenza di legami tra il ricorrente e la figlia. Inoltre, alcuni documenti confermarono che il processo di inclusione nella famiglia affidataria aveva avuto esito positivo.

La Corte Edu richiama anzitutto la sua giurisprudenza secondo cui l’art. 8 implica il diritto dei genitori a che vengano adottate misure che facilitino il ricongiungimento con i propri figli e l’obbligo positivo delle autorità interne di disporre tali misure. Inoltre, si evidenzia la difficoltà di bilanciare i numerosi interessi in campo, che coinvolgono l’interesse dei minori, dei genitori biologici, oltre agli interessi della famiglia affidataria.

I giudici della terza sezione riconoscono che le autorità interne non hanno tenuto conto dell’assoluzione e della revoca delle misure nei confronti del ricorrente, dunque del cambiamento della sua posizione penale. L’inerzia delle autorità nell’esame delle relazioni prodotte da diversi organi amministrativi e la grave mancanza di diligenza nella procedura di affido non hanno permesso di tenere conto della giovane età della figlia al momento della separazione, della relazione affettiva che intercorreva con i genitori, delle conseguenze sui tre minori, nonché del rapporto tra i tre fratelli. Inoltre, nonostante la buona fede con cui hanno agito le giurisdizioni interne, si sottolinea, in primo luogo, che il ricorrente non è stato sentito al momento della dichiarazione dello stato di abbandono,  e, in secondo luogo, la rapidità con cui il ricorrente ha riacquisito la custodia dei due figli maggiori. Di conseguenza, la Corte Edu afferma che «le autorità amministrative spagnole avrebbero dovuto considerare misure meno radicali, rispetto all’affido preadottivo della figlia minore, e tenere conto, per tutta la durata della procedura, delle richieste del padre, dal momento del chiarimento della situazione penale». Le autorità competenti, secondo la Corte, sono da considerarsi responsabili dell’interruzione dei contatti tra il padre e la figlia, in particolar modo a partire dalla assoluzione in sede penale: hanno perciò fallito nella loro obbligazione positiva di disporre misure che permettano di beneficiare di contatti regolari, poiché non sono state assicurate le garanzie necessarie a tutelare i diritti e gli interessi del ricorrente. Nonostante il margine di apprezzamento riservato allo Stato spagnolo, la Corte dunque riconosce che vi è stata una violazione dell’art. 8, richiedendo allo Stato la revisione della questione nel più breve tempo possibile alla luce della presente sentenza e auspicando l’adozione di misure appropriate, nell’interesse superiore del minore.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 18 giugno 2019 rich. nn. 43140/08, Leyla Can c. Turchia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), bilanciamento degli interessi, adozione, atti dello stato civile, interesse del minore, caso Gözüm c. Turchia

La Corte ha statuito, all’unanimità, la violazione dell’art. 8.

 

Il caso Leyla Can c. Turchia nasce dalla richiesta di una cittadina turca, madre adottiva, di modificare, sugli atti dello stato civile, i nominativi dei genitori biologici della figlia adottiva. Al momento dell’adozione, la figlia assunse il cognome della madre adottiva, a cui fu data inoltre la possibilità di cambiare il nome di battesimo della figlia. La sig.ra Can, tuttavia, adì al TGI (tribunal de grande instance) di Tarso, richiedendo la sostituzione dei nomi dei genitori biologici, rispettivamente con il proprio e con quello di suo padre poiché nubile. La ricorrente giustificò la sua richiesta argomentando che la presenza dei nominativi dei genitori biologici sulla carta d’identità, accompagnato dal cognome della madre adottiva, avrebbe avuto delle conseguenze negative sulla figlia, in età scolare; secondo la ricorrente, tale modifica avrebbe potuto preservare «la salute psicologica» della figlia.

A sostegno del rigetto, il TGI affermò che non si trattava di un soggetto in stato di abbandono (in tal caso avrebbe costituito una fattispecie differente), che i nominativi dei genitori biologici erano noti e che il loro rapporto di parentela, attraverso l’adozione, era stato definito: di conseguenza, tale modifica avrebbe creato incertezza e confusione in merito al rapporto. La Corte di cassazione confermò la decisione di prima istanza.

La ricorrente lamenta dunque la violazione dell’art. 8 della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 14 (divieto di discriminazione). La Corte Edu esamina il caso sotto il profilo del diritto al rispetto della vita familiare.

Richiamando i principi della sentenza Gözüm c. Turchia, la cui fattispecie coincide solo parzialmente, la Corte ricorda che «in materia di adozioni monoparentali, il diritto civile turco presentava lacune che colpivano soggetti ritrovatisi nella medesima situazione della ricorrente, la cui richiesta non trovava risposta nella legislazione esistente, non offrendo così un giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli interessi concorrenti dei singoli soggetti» (§ 26). Nonostante le allegazioni del Governo che dimostrano la novità legislativa avviata nel 2017, la Corte afferma che tale riforma non avrà effetto sul presente caso perché antecedente alla modifica normativa.

La Corte Edu statuisce dunque la violazione dell’art. 8, conseguente al rifiuto delle autorità di sostituire il nome della ricorrente, in qualità di madre della minore, sugli atti dello stato civile.

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08/11/2019
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