Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di aprile 2018

di Alice Pisapia
Prof. a contratto in Diritto dell’UE per l’impresa, Università degli Studi dell’Insubria<br>Prof. a contratto in Diritto europeo della concorrenza, Università degli Studi dell’Insubria<br>Avvocato Foro di Milano
Le più interessanti pronunce della Corte Edu emesse ad aprile 2018

La condanna di un avvocato per aver commentato pubblicamente l’origine etnica dei membri di una giuria viola la sua libertà di espressione

Sentenza della Corte Edu (Sezione Quinta), 19 aprile 2018, rich. n. 41841/12, Ottan c. France

Oggetto: libertà di espressione – commenti sull’origine etnica di una giuria – condanna di un avvocato – violazione art. 10 Cedu

Il ricorrente è stato l’avvocato del padre di un giovane ragazzo di origini straniere ucciso da un poliziotto durante un inseguimento in auto nel 2003. Dopo un processo ad alta tensione, nell’ottobre 2009 il poliziotto è stato assolto. A seguito del verdetto, i giornalisti presenti, data la sensibilità e la natura mediatica del processo, hanno interrogato il difensore. Invitato a dire se si aspettava il verdetto di assoluzione, l’avvocato ha risposto che l’assoluzione non era una sorpresa, considerata la composizione etnica della giuria, «composta esclusivamente da bianchi». Il 2 aprile 2010, l’avvocato ha ricevuto un mandato di comparizione dinanzi al Consiglio disciplinare degli Ordini della giurisdizione della Corte d’appello di Montpellier per aver seriamente violato i principi etici essenziali della professione di avvocato, attribuendo parzialità razziale e xenofoba alla Corte e alla Giuria. L’avvocato è stato rilasciato l’11 giugno 2010. La Corte d’appello, adita dal procuratore generale ha dichiarato che i fatti costituivano una violazione degli obblighi deontologici dell’avvocato. In considerazione della natura e del grado delle accuse, la Corte d’appello ha emesso un avvertimento, la sanzione disciplinare minima. Il 5 aprile 2012, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso, dichiarando in particolare che, al di fuori del tribunale, l’avvocato non beneficia dell’immunità giudiziaria prevista nell’esercizio delle sue funzioni. Basandosi sull’articolo 10 (libertà di espressione) il difensore ha adito la Corte Edu, ritenendo che la sanzione imposta dai tribunali nazionali costituisse una violazione ingiustificata del suo diritto alla libertà di espressione.

La Corte ritiene che la sanzione disciplinare imposta al richiedente costituisca un’interferenza con il suo diritto alla libertà di espressione, che è previsto dalla legge e persegue uno scopo legittimo. Per quanto riguarda la necessità di questo provvedimento in una società democratica, la Corte rileva, in primo luogo, che la difesa di un cliente può continuare nei media se le parole non sono attacchi seriamente dannosi e se gli avvocati parlano nel contesto di un dibattito di interesse generale.

A giudizio della Corte, il ricorrente stava cercando un’opportunità per estendere la difesa del cliente continuando il procedimento davanti ad una Corte di assise. Ritiene che i commenti del ricorrente fanno parte di un dibattito di interesse generale e che è responsabilità delle autorità nazionali garantire un elevato livello di protezione della libertà di espressione. Queste osservazioni costituiscono un giudizio di valore fondato su di una base fattuale sufficiente e una parte della difesa penale del cliente dell’avvocato. Di conseguenza, la condanna dell’avvocato, quand’anche consista in un mero avvertimento, deve essere considerata come un’ingerenza sproporzionata al suo diritto alla libertà di espressione e inutile in una società democratica. Soggiunge la Corte che la constatazione della violazione dell’art. 10 della Cedu costituisce giusta soddisfazione per il danno non patrimoniale subito.

***

La Corte Edu si pronuncia in merito all’adozione di bambini, vittime di violenza domestica.

Sentenza della Corte Edu (Sezione Quinta) 26 aprile 2018, rich. n. 27496/15, Mohamed Hasan c. Norvegia

Oggetto: rispetto per la vita familiare – adozione di bambini vittime di violenza domestica – circostanze eccezionali

La ricorrente, Ivan Mohamed Hasan, è una cittadina irachena che è nata nel 1979 e vive in Norvegia. Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava la rimozione della sua potestà genitoriale sulle due figlie e l’adozione di queste ultime, contro la volontà della ricorrente, da parte di una famiglia ospitante. La ricorrente e suo marito, cittadini iracheni residenti in Norvegia all’epoca dei fatti, avevano due figlie, nate nel 2008 e nel 2010. Poiché il marito della ricorrente era violento la prima figlia è stata inserita due volte in un centro di emergenza. Alla fine del 2010 le autorità hanno dato entrambe le bambine in affidamento temporaneo. Nel 2011, durante una visita della ricorrente, le bambine furono rapite da due individui mascherati che si fecero strada e attaccarono la ricorrente usando un’arma con elettroshock. Le bambine furono poi trovate e il padre ammise di aver orchestrato il rapimento. A seguito di questo incidente, il County Social Welfare Board ha disposto che le bambine fossero prese in custodia in centri di adozione diversi e a indirizzi segreti, senza alcun contatto tra loro e i loro genitori. Un’ulteriore decisione è stata presa nel 2014 per mantenere le minori in affidamento, rimuovere la potestà ai genitori e consentire la loro adozione da parte dei genitori adottivi. La ricorrente e suo marito hanno presentato ricorso senza successo e, quindi, la madre ha adito la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’articolo 8 Cedu (diritto al rispetto della vita privata e familiare).

A giudizio della Corte, i fattori che hanno motivato le autorità nazionali a disporre l’adozione delle due bambine erano chiaramente la necessità di proteggere le minori e assicurarsi che potessero essere allevate in un ambiente sicuro adatto alla loro particolare vulnerabilità. Le autorità nazionali avevano anche tenuto conto delle caratteristiche personali di ciascuna bambina, come età e maturità, nonché degli effetti della decisione in merito al loro background culturale e ai rapporti con i parenti. La decisione di rimuovere la potestà genitoriale e di autorizzare l’adozione delle minori era stata presa «in circostanze eccezionali». I tribunali nazionali hanno fatto infatti riferimento a numerosi episodi di violenza domestica e abusi da parte del marito della ricorrente, a seguito dei quali le bambine erano diventate particolarmente fragili e bisognose di tutela. Le minori avevano perso il loro attaccamento ai genitori naturali sviluppandolo, invece, per i loro genitori adottivi e un’eventuale separazione da questi ultimi avrebbe determinato un enorme pregiudizio per le minori. Inoltre, secondo i giudici, la ricorrente non sarebbe stata in grado di prendersi cura delle due bambine con un passato così traumatico ed era impensabile che uno qualsiasi dei genitori naturali sarebbe stato in futuro in grado di esercitare su di loro l’autorità di genitore. A tale riguardo, l’adozione, rispetto ad un affidamento a lungo termine, ha certamente garantito un livello più elevato di sicurezza. In conclusione, a giudizio della Corte, il processo decisionale che ha determinato l’azione delle bambine è stato giusto. La rimozione della potestà genitoriale e il consenso all’adozione sono stati giustificati da circostanze eccezionali e motivati da esigenze imperative relative all’interesse superiore delle bambine. Pertanto, le misure impugnate non costituiscono un’interferenza sproporzionata con il diritto della ricorrente al rispetto della sua vita familiare.

13/07/2018
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Ancora due condanne dell’Italia per i suoi hotspot

Sadio c. Italia,  n. 3571/17, sentenza del 16 novembre 2023, e AT ed altri c. Italia, ricorso n. 47287/17, sentenza del 23 novembre 2023. Ancora due condanne (una di esse, anzi, doppia e l’altra triplice) per l’Italia in tema di immigrazione, con specifico riferimento alle condizioni di un Centro per richiedenti asilo in Veneto e di un Centro di Soccorso e Prima Accoglienza in Puglia.

14/12/2023
I criteri probatori della violazione del principio del giusto processo di cui all'art. 6 Cedu. Una visione comparatistica

La Supreme Court del Regno Unito ha fornito, in una propria recente sentenza, un contributo di essenziale rilevanza su questioni il cui intreccio avrebbe potuto portare, se non si fosse saputo individuare l'appropriato filo di cucitura, esiti disarmonici sia nel diritto di common law inglese sia, con anche maggior gravità, nel diritto europeo convenzionale. Si trattava di coordinare il fondamentale principio del giusto processo, fissato dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950, con il più solido dei ragionamenti circa la sufficienza del materiale probatorio raccolto a divenire indice della violazione dello stesso articolo 6. I supremi giudici inglesi si sono collocati saldamente sulla linea della giurisprudenza di Strasburgo, fissando, in un caso dalle irripetibili peculiarità, affidabili parametri che sappiano, come è avvenuto nel caso sottoposto al loro esame, felicemente contemperare l'esigenza di garantire costantemente condizioni di svolgimento dei processi rispettose dei diritti umani con quella, altrettanto meritevole di apprezzamento, di evitare l'abuso del ricorso allo strumento di tutela convenzionale fondato su motivi puramente congetturali e tali, pertanto, da scuotere la stabilità del giudicato, lasciandolo alla mercé di infinite, labili impugnazioni, contrarie allo stesso spirito del fondamentale precetto del giusto processo.

13/12/2023
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