Le pronunce di aprile della Corte Edu qui selezionate riguardano, l’estensione dell’immunità parlamentare in relazione al diritto all’altrui riservatezza, la compatibilità tra il regime di carcere duro e il declino cognitivo del ricorrente, i rimedi avverso i respingimenti alla frontiera.
In Green c. Regno Unito, la Corte affronta la questione dell’uso del privilegio parlamentare per rivelare informazioni coperte da un’ingiunzione giudiziaria di anonimato. La Corte ha ritenuto che spettasse al Parlamento nazionale valutare la necessità di ulteriori controlli e ha concluso per la non violazione della Convenzione.
In Morabito c. Italia, la Corte ritiene adeguate le cure fornite dall’amministrazione penitenziaria a un ex capo della ‘Ndrangheta, pluri-ottantenne, ma, al contempo, dietro l’addebito di un deficit motivazionale, ha sancito l’incompatibilità tra la proroga continuativa del regime differenziato di cui all’art. 41-bis o.p. e il deterioramento mentale del detenuto.
Infine, in Mansouri c. Italia, i giudici di Strasburgo hanno ribadito, sul fronte dei rimedi esperibili, la natura sussidiaria del sistema di protezione assicurato dalla Convenzione, in relazione al delicato tema dell’ingresso, soggiorno e allontanamento degli stranieri.
Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 8 Aprile 2025, ric. n. 22077/19, Green c. Regno Unito
Oggetto: art. 8 della Convenzione (rispetto della vita privata) – obblighi positivi – privilegio parlamentare – rivelazione dell’identità del ricorrente soggetto a un’ingiunzione provvisoria di riservatezza in attesa del processo – divulgazione con gravi conseguenze – margine di apprezzamento dei parlamenti nazionali – norma sul privilegio parlamentare provvista di controlli ex ante ed ex post – European consensus sul privilegio parlamentare a protezione assoluta da azioni legali contro dichiarazioni rilasciate dai parlamentari in Parlamento o nell’esercizio delle loro funzioni parlamentari – mancanza di ragioni sufficientemente forti per giustificare l'introduzione di ulteriori controlli – obbligo per lo Stato convenuto di riesaminare periodicamente la necessità di controlli adeguati.
Il caso riguarda un noto uomo d’affari e presidente di una società multinazionale del settore retail, che aveva raggiunto accordi transattivi soggetti a clausole di riservatezza (“non-disclosure agreements” – NDA) con ex dipendenti di due dei suoi marchi della grande distribuzione. Successivamente, fu contattato da un giornalista del gruppo editoriale Telegraph Media Group Limited (“il Telegraph”), che voleva pubblicare un articolo contenente le accuse, mosse dagli ex dipendenti, secondo cui la condotta professionale del ricorrente avrebbe incluso molestie sessuali e comportamenti vessatori. Il ricorrente e i due marchi coinvolti chiesero un’ingiunzione per impedire al Telegraph la pubblicazione di materiale comunicato in violazione del vincolo di riservatezza, nonché un’ingiunzione cautelare per vietare la divulgazione delle informazioni in attesa del processo.
La Corte d’Appello concesse un’ingiunzione cautelare e ordinò l’anonimato delle parti fino al processo, fissato con procedura accelerata. Il Telegraph pubblicò l’articolo rispettando i termini dell’ingiunzione. Tuttavia, un membro della Camera dei Lord, Lord Hain, facendo ricorso al privilegio parlamentare, rilasciò una dichiarazione personale in aula identificando il ricorrente come il soggetto dell’articolo anonimo. Le dichiarazioni di Lord Hain furono ampiamente riprese dai media e, poiché le ordinanze di anonimato erano divenute inefficaci, furono revocate consensualmente poco dopo.
Il ricorrente rinunciò alla propria azione risarcitoria nei confronti del Telegraph, ritenendo che non vi fosse più un sufficiente livello di riservatezza nelle informazioni oggetto della causa tale da giustificare i rischi, le risorse umane e le difficoltà derivanti dalla prosecuzione del giudizio. Nel frattempo, il Commissario per gli standard della Camera dei Lord esaminò un reclamo formale presentato dal ricorrente contro Lord Hain, per violazione del Codice di Condotta della Camera. Il Commissario ritenne che le contestazioni relative alla regola sub judice e al privilegio parlamentare non rientrassero nella propria competenza.
Di fronte alla Corte di Strasburgo il ricorrente ha lamentato, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata), l’assenza di meccanismi di controllo sull’esercizio del privilegio parlamentare, che aveva consentito la divulgazione di informazioni coperte da un’ingiunzione giudiziaria. Inoltre, ha invocato gli articoli 6, paragrafo 1 (diritto a un equo processo) e 13 (diritto a un ricorso effettivo), denunciando di non aver potuto adire le vie giudiziarie nei confronti di Lord Hain, la cui dichiarazione in sede parlamentare aveva di fatto vanificato la sua azione per violazione della riservatezza proposta nei confronti del Telegraph.
Con riferimento all’articolo 8, la Corte ha ribadito che, nel concedere l’ingiunzione provvisoria, i giudici nazionali avevano effettuato un attento bilanciamento tra i diritti contrapposti, concludendo che i diritti del ricorrente alla tutela della vita privata dovessero prevalere sulla libertà di espressione del Telegraph garantita dall’articolo 10 della Convenzione. Tuttavia, dinanzi alla Corte, la questione assumeva un diverso profilo: si trattava di ponderare il diritto del ricorrente al rispetto della vita privata con il diritto alla libertà di espressione nell’ambito del Parlamento, protetto dal privilegio parlamentare.
La Corte ha osservato che imporre controlli ex ante o ex post sulle dichiarazioni rese dai parlamentari in aula avrebbe avuto implicazioni che andavano ben oltre la vicenda concreta, incidendo su un assetto costituzionale di portata generale. La giurisprudenza della Corte in materia di articolo 10 ha costantemente riconosciuto un ampio margine di apprezzamento ai parlamenti nazionali nella regolamentazione delle proprie attività e nella determinazione dell’opportunità di introdurre simili misure di controllo. In ossequio al principio dell’autonomia parlamentare, solo motivazioni particolarmente forti potrebbero legittimare un intervento sostitutivo da parte della Corte.
Nel Regno Unito, entrambe le Camere del Parlamento si sono dotate della regola sub judice, la quale richiede ai membri della Camera dei Lord di notificare con almeno ventiquattro ore di anticipo l’intenzione di riferirsi a procedimenti pendenti. Tale disposizione fornisce un certo livello di controllo preventivo sull’uso del privilegio parlamentare in relazione a vicende giudiziarie in corso. Tuttavia, non essendo formalmente inserita nel Codice di Condotta, le eventuali violazioni non rientrano nelle competenze del Commissario per gli standard parlamentari. Ciononostante, il sistema non è del tutto privo di controlli successivi: una delle denunce del ricorrente era stata infatti esaminata dal Commissario, e la determinazione dell’ambito di applicazione del privilegio parlamentare resta, in ultima analisi, una questione giuridica demandata ai tribunali.
Nel caso di specie, le autorità nazionali avevano espresso convinzione unanime circa l’applicabilità del privilegio parlamentare alla dichiarazione resa da Lord Hain. Inoltre, un’indagine recente della Corte, condotta in quarantuno Stati membri del Consiglio d’Europa, ha confermato che, nella stragrande maggioranza degli ordinamenti, le dichiarazioni rese da parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni godono di un’immunità assoluta rispetto ad azioni giudiziarie esterne. In questo quadro, il Regno Unito appare anzi come uno degli ordinamenti in cui la portata del privilegio è relativamente più contenuta.
La Corte ha anche ricordato che, nel 2011, un Comitato congiunto del Parlamento britannico aveva esaminato la questione dell’introduzione di nuovi controlli, concludendo che gli episodi di violazione di ingiunzioni anonime in sede parlamentare erano rari e che non era stato ancora raggiunto un livello tale da giustificare limitazioni ulteriori alla libertà di parola dei parlamentari. Il Comitato aveva tuttavia lasciato aperta la possibilità di un riesame qualora tali episodi fossero diventati più frequenti o strumentali. A oltre dieci anni di distanza, il ricorrente non aveva offerto elementi idonei a dimostrare un aumento significativo di tali incidenti.
Pur riconoscendo che dichiarazioni parlamentari in contrasto con provvedimenti giudiziari possano pregiudicare l’equilibrio costituzionale tra poteri dello Stato e compromettere l’autorità delle decisioni giudiziarie, la Corte ha ribadito che non le compete valutare il contenuto o il valore del discorso parlamentare. Intervenire nel merito del privilegio significherebbe, di fatto, introdurre una forma di controllo esterno sul dibattito parlamentare, con potenziali effetti lesivi dell’autonomia legislativa.
La divulgazione compiuta da Lord Hain mirava esplicitamente a superare la decisione della Corte d’appello che aveva concesso l’anonimato, motivando tale intervento con il presunto interesse pubblico alla rivelazione dell’identità del ricorrente prima del processo. Sebbene la dichiarazione riguardasse la condotta professionale del ricorrente, e non aspetti strettamente intimi della sua vita privata, la perdita dell’anonimato era stata definitiva e aveva prodotto effetti anche per le aziende coinvolte e per gli ex dipendenti che avevano sottoscritto accordi di riservatezza.
Nonostante ciò, la Corte ha concluso che, allo stato attuale, la disciplina interna in materia di privilegio parlamentare non eccedeva il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato convenuto e non sussistevano motivi sufficientemente solidi per giustificare l’imposizione di ulteriori controlli ex ante o ex post da parte della Corte. Ha tuttavia sottolineato che, in considerazione della gravità delle potenziali interferenze con la vita privata e del principio della separazione dei poteri, la necessità di introdurre misure appropriate dovrebbe essere oggetto di costante monitoraggio a livello nazionale.
Con riferimento all’articolo 6 § 1 e all’articolo 13, la Corte ha dichiarato inammissibili le doglianze del Ricorrente in quanto non aveva potuto proporre un’azione nei confronti di Lord Hain.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 10 Aprile 2025, ric. n. 4953/22, Morabito c. Italia
Oggetto: art. 3 della Convenzione (divieto di tortura) – detenuto pluri-ottantenne affetto da diverse patologie e declino cognitivo progressivo – sottoposizione continuata al regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis o.p. – adeguatezza delle cure mediche offerte dall’amministrazione penitenziaria – completezza del diario clinico – deficit di motivazione in ordine al persistente pericolo di contatti col sodalizio mafioso di appartenenza, soprattutto in ragione delle condizioni psichiche del detenuto, con principio di Alzheimer.
Il ricorrente, classe 1934, veniva arrestato e condotto in carcere dal 2004, dopo un lungo periodo di latitanza, in esecuzione di condanne per reati quali la promozione e direzione di associazione di tipo mafioso.
In base alla documentazione clinica prodotta dalle parti, egli soffriva di diverse patologie; a partire dal 2014 manifestava un progressivo deterioramento cognitivo, depressione, marcato rallentamento, demenza; nel 2022 s’ipotizzava la diagnosi di Alzheimer.
Ad ogni modo, sin dall’inizio dell’incarcerazione veniva sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis o.p. Nello specifico, il decreto ministeriale del 2018 giustificava la proroga in base, da una parte, alle informazioni fornite dalle autorità antimafia, secondo cui il ricorrente era stato leader di un gruppo criminale ancora attivo (come dimostrato da vari procedimenti penali pendenti contro membri di quest’ultimo); dall’altra, alla cartella personale che attestava un atteggiamento aggressivo persistente, soprattutto nei confronti del personale infermieristico, nonché la sottoposizione a diversi procedimenti disciplinari. Nel 2020, il Ministero della Giustizia adottava una nuova proroga senza che il Tribunale di sorveglianza di Roma avesse ancora provveduto sulla precedente; quest’ultimo riuniva quindi i due procedimenti e, ai fini della decisione, nominava un perito, M.F., decisamente critico sulla gestione della salute del detenuto in carcere. I giudici di sorveglianza ritenevano però adeguata la gestione delle condizioni cliniche del ricorrente e attuale il pericolo di collegamenti col sodalizio di appartenenza, sottolineandone la lucidità e caparbietà, nonostante il principio di demenza e le altre patologie.
La compatibilità tra salute e carcere veniva più volte confermata anche dai giudici di sorveglianza di Milano nell’ambito dei procedimenti per differimento pena o detenzione domiciliare o in luogo di cura.
Ulteriore rilevante circostanza fattuale era l’accertamento, nell’ambito di un procedimento penale relativo a un comportamento aggressivo tenuto dal detenuto nel 2020 nei confronti della polizia penitenziaria, della non imputabilità e della mancanza di capacità processuale.
Dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 della Convenzione sia in ragione dell’incompatibilità del suo stato di salute col mantenimento in carcere sia in ragione della sottoposizione prolungata al regime differenziato.
Sotto il profilo dell’ammissibilità, la Corte ritiene fondata l’eccezione governativa volta a circoscrivere il thema decidendum in base alla “continuità” del trattamento lamentato. Dopo la presentazione del ricorso, le parti ben possono sottoporre ai giudici aggiornamenti fattuali e osservazioni integrative se riguardanti la censura di una “situazione continuativa” quale l’asserita detenzione in assenza di adeguate cure o il mantenimento in un regime di isolamento parziale (piuttosto che del contenuto di una specifica decisione nazionale). In conseguenza di ciò, gli aggiornamenti del ricorrente ammissibili sono solo quelli intervenuti tra il 2022, data di deposito dell’application, e maggio 2023, data di ricovero ospedaliero e temporanea sottoposizione a regime detentivo ordinario; non invece quelli successivi, stante l’interruzione della continuità (§§ 76-90).
Nel merito, la Corte esclude l’esistenza di un maltrattamento ai sensi dell’art. 3 della Convenzione con riguardo al mantenimento in carcere, in considerazione (a) delle condizioni di salute del ricorrente; (b) della qualità dell’assistenza; (c) della mancanza di “ragioni umanitarie” implicanti un differimento della pena (§§ 91 ss.). Il diario clinico prodotto, in modo completo, dal governo convenuto contraddice le perplessità sollevate dal perito M.F. e dimostra la somministrazione di diverse terapie; la regolarità e frequenza delle visite da parte dei medici del carcere; la fruizione di numerose visite specialistiche e l’esercizio della facoltà di farsi visitare da medici di fiducia; l’assegnazione di un aiuto per la pulizia della cella; la disponibilità di una sedia a rotelle per le lunghe distanze (stante l’autonoma mobilità in cella) e di biancheria intima contenitiva per le complicazioni dell’ernia inguinale. Inoltre, alcun elemento porta a ritenere che il regime penitenziario differenziato abbia limitato l’accesso alle cure o abbia influito sulla progressione delle patologie fisiche. I giudici nazionali hanno di volta in volta esaminato le richieste di rinvio o detenzione domiciliare in modo dettagliato e ragionevole.
Tuttavia, la Corte ritiene la violazione del parametro convenzionale con riguardo al mantenimento prolungato del regime di carcere duro (§§ 116 ss.).
Considerazioni di ordine pubblico possono legittimare la previsione di regimi di massima sicurezza, di per sé non necessariamente incompatibili con l’art. 3 della Convenzione. Tuttavia, ogni misura di isolamento, anche parziale, non può essere imposta a tempo indeterminato, deve essere corredata di motivi eccezionali, garanzie procedurali nonché monitoraggio regolare delle condizioni fisiche e mentali del detenuto. Le forme di isolamento, mancando adeguati stimoli, possono, a lungo termine, avere effetti dannosi su facoltà mentali e capacità sociali.
Per quanto concerne specificamente il regime differenziato italiano, la Corte ne ha riconosciuto la finalità preventiva e di sicurezza, piuttosto che punitiva, alla luce della funzione di interrompere i contatti tra detenuti e reti criminali.
Nel caso di specie, i giudici nazionali hanno sempre tenuto conto del declino psichico del ricorrente all’atto di confermarne la capacità di mantenere legami col sodalizio mafioso, a tal fine valorizzando la gravità dei reati oggetto di condanna; il ruolo di leader rivestito nell’organizzazione criminale; la condotta carceraria priva di rimorso e significativa del radicamento mafioso; le informazioni circa la perdurante operatività del sodalizio; le intercettazioni delle conversazioni con i familiari, durante le quali egli si informava circa le attività dell’organizzazione.
Tuttavia, accordando prevalenza alle relazioni dei medici del carcere circa la sufficiente lucidità del ricorrente per svolgere le attività quotidiane, non hanno dimostrato la capacità di contribuire al sodalizio mafioso nonostante il deterioramento cognitivo, la diagnosi di Alzheimer e l’accertamento, in altri procedimenti, della mancanza di imputabilità o di capacità processuale.
Sarebbe stato necessario un ragionamento più dettagliato, basato su un esame specialistico approfondito.
A ciò si aggiungono ulteriori aspetti: la previsione della proroga per un periodo fisso di due anni rende difficile adattare il regime di isolamento a una situazione, come il declino cognitivo di un anziano, che può evolvere rapidamente (§ 135); siffatto declino non è stato preso in considerazione dai provvedimenti ministeriali di proroga del 2018 e del 2020 (§§ 138 e 139); né i decreti ministeriali né le decisioni di sorveglianza hanno vagliato la questione del possibile impatto delle restrizioni di cui all’art. 41-bis sullo stato mentale dell’interessato (§ 144); l’autorità nazionale non ha mai considerato l’opportunità di alleggerire alcune delle restrizioni (§ 145).
Il riconoscimento della violazione rappresenta giusta soddisfazione per il danno lamentato.
L’ultima parte della decisione non è unanime: il giudice Balsamo, dopo aver ricordato l’evoluzione dell’art. 41-bis o.p., rileva una contraddizione tra l’approccio della maggioranza e il precedente Provenzano c. Italia. In quest’ultimo, la Corte aveva escluso la violazione dell’art. 3 della Convenzione con riguardo al procedimento di proroga del 2014, avendo i giudici di sorveglianza considerato il declino cognitivo di Mr Provenzano ma chiarito di non poter escludere la capacità di trasmettere messaggi al sodalizio; al contempo, aveva accertato la violazione con riguardo al procedimento del 2016, in cui la valutazione dello stato di salute del ricorrente era mancata.
Nel caso di specie, le proroghe, in sede di giudizio di sorveglianza, hanno sempre tenuto conto del declino cognitivo e hanno al contempo spiegato perché la pericolosità dovesse ritenersi persistente, sulla base di ampia documentazione medica.
Gli elementi riscontrati devono poi essere vagliati alla luce della particolare conformazione della ‘Ndrangheta rispetto ad altre mafie, poiché caratterizzata da una struttura familiare che garantisce segretezza e riduce la possibilità di collaboratori con la giustizia. Allora, le intercettazioni tra il ricorrente e i familiari, allegate dal governo, assumono valenza dimostrativa specifica circa il mantenimento dell’interesse per le dinamiche del sodalizio e di interazione, tramite i familiari, col medesimo.
In definitiva, la maggioranza ha sostituito la propria valutazione dei fatti a quella dei giudici nazionali, ha modificato l’approccio in precedenza riservato ai fenomeni di criminalità organizzata e non ha tenuto conto dei tratti distintivi della ‘Ndrangheta.
Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 29 Aprile 2025, ric. n. 63386/16, Mansouri c. Italia
Oggetto: artt. 3 (divieto di tortura) e 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione – diniego di ingresso in Italia emesso dalla polizia di frontiera per mancanza di visto – rinvio nel paese di origine – legittimità e condizioni di detenzione a bordo della nave Splendid – mancato esaurimento dei rimedi interni.
Dal 2014 al 2016, il ricorrente, cittadino tunisino, aveva regolarmente soggiornato in Italia sulla base di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, al termine del quale si recava nuovamente in Tunisia. Nel maggio 2016, veniva sottoposto a un controllo d’identità alla frontiera marittima di Palermo, mentre si trovava a bordo del traghetto italiano Splendid, proveniente da Tunisi: era in possesso del passaporto, del permesso di soggiorno scaduto e di una copia di una domanda di permesso di soggiorno di lunga durata del 2015. Durante il controllo, la polizia di frontiera constatava che la domanda era stata respinta dal questore di Ferrara a marzo 2016 e che il ricorrente non era in possesso di un visto d’ingresso. Dopo aver informato il ricorrente della decisione del questore, la polizia gli rilasciava un provvedimento di respingimento ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 286/1998. Il provvedimento specificava la possibilità di presentare ricorso al tribunale amministrativo competente ratione loci entro sessanta giorni. La polizia di frontiera ordinava al comandante della Splendid di assumersi la responsabilità del ricorrente e di ricondurlo a Tunisi.
Il ricorrente contattava tramite il cellulare il suo avvocato e questi, il giorno seguente, trasmetteva alla polizia di frontiera un’istanza di autotutela per la revoca del provvedimento di diniego di ingresso. Dopo il rigetto dell’istanza, l’avvocato scriveva al Ministero dell’Interno che, a sua volta, indicava le disposizioni pertinenti per ribadire la legittimità delle determinazioni assunte nei confronti del ricorrente.
Dinanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 della Convenzione in ordine alle condizioni di alloggio sulla nave Splendid: era collocato in cabina diversa da quelle dei passeggeri, chiusa a chiave, con sbarre (in modo che l’interno potesse rimanere visibile dal corridoio) e un oblò molto piccolo; riceveva tre pasti al giorno da consumare con posate di plastica; nessun operatore si era informato di eventuali allergie o patologie; poteva usare il telefono. Il ricorrente lamentava, altresì, la violazione dell’art. 13, in mancanza di un rimedio per lamentarsi delle suddette condizioni, e dell’art. 5, in relazione al carattere arbitrario della privazione della libertà subita.
La Corte dichiara irricevibile il ricorso sollevato ai sensi dell’art. 5, a causa del mancato esaurimento dei rimedi interni, in particolare dell’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. (in relazione a cui il Governo aveva allegato giurisprudenza dimostrativa l’effettività dell’azione rispetto ai danni derivanti da privazioni della libertà illegittime) e della cautela ex art. 700 c.p.c. (in relazione a cui il Governo, pur mancando giurisprudenza specifica, aveva sufficientemente dimostrato accessibilità e idoneità).
Conformemente a un principio consolidato nel diritto internazionale, fatti salvi gli obblighi derivanti dai trattati, gli Stati contraenti hanno il diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri. In questo settore, risulta particolarmente importante dare ai giudici nazionali la possibilità di interpretare il diritto interno e di prevenire o sanare le violazioni della Convenzione attraverso il proprio ordinamento giuridico.
Non avendo il ricorrente in alcun modo adito i giudici italiani, questi ultimi non hanno avuto la possibilità di esaminare alcuna questione relativa all’interpretazione delle disposizioni del codice frontiere Schengen e del suo allegato V o alla loro compatibilità con i diritti fondamentali, chiedendo, se del caso, una pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
In ordine alle condizioni di alloggio a bordo della Splendid, la Corte rileva che quest’ultime, pur se suscettibili di provocare un “senso di frustrazione” nel ricorrente, non avevano raggiunto il livello minimo di gravità richiesto affinché il confinamento potesse ricadere nell’ambito di applicazione dell’art. 3 della Convenzione.
Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa