Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di marzo 2025

Le più interessanti sentenze pronunciate dalla Corte di Strasburgo nel mese di marzo 2025

Le pronunce di marzo della Corte Edu qui selezionate riguardano, da una parte, gli obblighi di indagine derivanti dalla tutela del diritto alla vita in relazione, in una prima pronuncia, a un decesso da esposizione all’amianto; in una seconda, a un contesto di tumulti sociali; dall’altra, il test di adeguatezza delle cure prestate in carcere e i pertinenti oneri di allegazione e accertamento del governo convenuto.

In Laterza e D’Errico c. Italia, la Corte condanna l’Italia per violazione dell’obbligo di condurre indagini effettive, relativamente a un procedimento penale sul decesso di G.L., congiunto dei ricorrenti. La Corte ritiene che le autorità nazionali non avessero compiuto sforzi sufficienti per accertare i fatti e che il provvedimento di archiviazione non fosse adeguatamente motivato. In particolare, il g.i.p., anche alla luce degli elementi indicati nell’atto di opposizione interposto dai ricorrenti, avrebbe potuto indicare alla Procura ulteriori indagini per accertare l’eventuale sussistenza di un nesso causale tra l’esposizione di G.L. all’amianto presso lo stabilimento ILVA, dove aveva lavorato dal 1990 al 2004, e l’insorgenza della malattia, il decorso causale della stessa, nonché individuare i responsabili di eventuali violazioni di norme cautelari. 

In Vyacheslavova e Altri c. Ucraina, la Corte accerta le responsabilità delle autorità ucraine per le gravi omissioni nella gestione degli scontri violenti avvenuti a Odessa il 2 maggio 2014, durante un periodo di forti tensioni politiche nel Paese seguite al cambiamento di governo in Ucraina e all’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 2 della Convenzione, sia per l’insufficiente protezione della vita delle persone coinvolte, sia per l’inadeguatezza dell’inchiesta condotta successivamente.

Infine, in Niort c. Italia, la Corte rileva l’inadeguatezza del trattamento terapeutico ricevuto in carcere da un detenuto affetto da patologie mentali. Nonostante la completezza delle visite e delle prescrizioni mediche, la violazione discende da diverse circostanze: la possibilità di ascrivere al carcere un peggioramento della patologia, in considerazione dell’aumento degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio; l’esistenza di incoerenze nei provvedimenti dei giudici di sorveglianza; la mancata allegazione, da parte del governo convenuto, di perizie aggiornate sulle condizioni di salute del ricorrente, anche in epoca successiva alla presentazione del ricorso. 

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 27 marzo 2025, ric. n. 30336/22, Laterza e D’Errico c. Italia

Oggetto: art. 2 della Convenzione (diritto della vita) – aspetto procedurale – violazione dell’obbligo di svolgere indagini efficaci sulle asserite violazioni del suo aspetto sostanziale – procedimento penale relativo alla responsabilità per morte di lavoratore esposto all’amianto nel corso della vita professionale – archiviazione del procedimento penale motivata dall’asserita impossibilità di identificare il momento in cui ha avuto origine la malattia e, di conseguenza, i responsabili di eventuali violazioni delle norme cautelari a causa della pluralità di posizioni di garanzia succedutesi nell’arco temporale di esposizione del lavoratore – asserita impossibilità di porre rimedio con l’acquisizione degli ulteriori elementi di prova indicati dai ricorrenti nell’atto di opposizione – discostamento dalla prassi seguita dai giudici interni in casi analoghi – mancanza di sforzi sufficienti da parte dei tribunali nazionali nell’accertamento dei fatti – decisione di archiviare il procedimento non supportata da un’adeguata motivazione.

G.L. moriva nel luglio 2010 per tumore ai polmoni, dopo aver lavorato dal 1980 al 2004 presso l’Ilva di Taranto. Nel febbraio 2015, i ricorrenti, rispettivamente figlio e moglie di G.L., presentavano denuncia alla Procura della Repubblica per omicidio colposo, ritenendo che la morte del loro congiunto fosse stata determinata dalla prolungata esposizione professionale a sostanze tossiche provenienti dalla produzione dell’acciaio, tra cui l’amianto. Insieme alla denuncia, i ricorrenti presentavano una perizia medico legale in cui si evidenziava il rischio tumorale correlato all’esposizione all’amianto e ad altre sostanze tossiche.  La suddetta perizia faceva riferimento, tra l’altro, ai risultati del rapporto SENTIERI (Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento) sull’attività inquinante dell’ILVA e a quelli di uno studio epidemiologico condotto nel 2013 dall’Azienda USL di Taranto, che aveva rilevato una maggiore incidenza di tumori polmonari tra le persone residenti in prossimità dei siti delle emissioni. Sulla base di tali dati, la perizia sosteneva la sussistenza di un nesso causale tra l’attività dello stabilimento Ilva e i casi di tumori polmonari nella provincia di Taranto e concludeva che tale nesso poteva, quindi, a maggior ragione, essere ritenuto sussistente per i dipendenti dello stabilimento in questione.

Nel marzo 2015, la Procura chiedeva  al Servizio specialistico per la sicurezza e la prevenzione del lavoro (SPESAL) dell’Azienda sanitaria locale di identificare i datori di lavoro di G.L., indicare le mansioni da lui svolte, fornire la sua cartella clinica e verificare eventuali responsabilità penali in relazione all’insorgenza o all’aggravamento della patologia che ne aveva causato il decesso. 

La relazione depositata dallo SPESAL nel 2019 concludeva rilevando l’impossibilità di stabilire con ragionevole certezza l’origine professionale della malattia di G.L. e individuare i responsabili delle eventuali violazioni di norme cautelari, a motivo dell’insufficienza della documentazione e dei dati che era stato possibile raccogliere. Nella relazione si evidenziava, tra l’altro, come la società interessata non avesse fornito le informazioni richieste, necessarie per ricostruire con certezza il ciclo produttivo e, in particolare, le specifiche attività svolte da G.L., né altri dati in merito alla distribuzione di dispositivi di protezione individuale ai lavoratori nel periodo anteriore al 1995. Era stato inoltre  impossibile verificare se i sistemi di assorbimento delle sostanze inquinanti nelle aree interessate degli stabilimenti in questione rispettassero le norme generali di igiene del lavoro; il documento di valutazione dei rischi redatto dalla società era datato 2003 e, di conseguenza, i dati in esso contenuti erano irrilevanti rispetto all’attività effettivamente svolta da G.L. tra il 1994 (anno di entrata in vigore del decreto legislativo n. 626/94 sulla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori) ed il 2004 e, infine, non esisteva alcuna documentazione relativa alla formazione dei dipendenti su rischi specifici. D’altronde, nella relazione si segnalava come, a partire dal decreto ministeriale del 10 giugno 2014, i tumori polmonari rientrino tra le patologie per le quali, in caso di esposizione all’amianto, si ritiene altamente probabile un’origine professionale, precisando altresì che G.L. aveva percepito, per il periodo dal 1980 al 1992, l’indennizzo previsto in caso di esposizione all’amianto e che non si poteva escludere che fosse stato esposto a sostanze cancerogene durante il suo lavoro presso lo stabilimento in questione.

Nel 2019, il pubblico ministero chiedeva l’archiviazione del procedimento, ritenendo che le prove raccolte non dimostrassero l’origine professionale della malattia che aveva provocato la morte di G.L. e non consentissero l’individuazione degli eventuali responsabili delle violazioni delle norme cautelari. I ricorrenti, opponendosi alla richiesta, chiedevano, a mente dell’art. 410 c.p.p.: l’acquisizione di vari documenti relativi ad altri procedimenti penali pendenti nei confronti di alcuni dirigenti dell’Ilva, compresi coloro che ricoprivano siffatti incarichi quando G.L. lavorava nello stabilimento di tale società (verbali di audizioni peritali, relazioni prodotte dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale “ARPA” e relazioni epidemiologiche e chimiche predisposte nell’ambito di suddetti procedimenti) e, inoltre, l’audizione di alcuni colleghi di G.L. e di medici, nonché l’effettuazione di una perizia volta a verificare l’esistenza di un nesso causale tra la patologia di G.L. e la sua attività professionale. 

Nel febbraio 2022, il giudice per le indagini preliminari, pur ritenendo che non potesse essere esclusa l’origine professionale della patologia di G.L., di natura multifattoriale, rigettava la richiesta dei ricorrenti e archiviava il caso. Segnatamente, facendo riferimento ai principi espressi dalla Cassazione nella sentenza n. 34341 del 3 dicembre 2020 sul caso Fibronit, riteneva che, in considerazione della pluralità di soggetti che si erano succeduti nelle posizioni di garanzia nel periodo controverso, fosse necessario, ai fini dell’accertamento della responsabilità penale nel caso di specie: «individuare il momento iniziale del processo causale, non essendo possibile pervenire ad un’affermazione di responsabilità indistinta e massificata per la difficoltà storica e oggettiva di individuare il nesso causale, difficoltà che – di per sé – [era] indicativa dell’impossibilità di datare il momento dell’induzione». Inoltre, riteneva che gli ulteriori elementi di prova menzionati nell’atto di opposizione dei ricorrenti non fossero tali da modificare tale conclusione a causa «dell’impossibilità, in un contesto caratterizzato da una successione di più soggetti che assumono il ruolo di garante, di determinare il momento in cui la dose cosiddetta “innescante” era stata assorbita dal lavoratore e – di conseguenza – di identificare il soggetto che assumeva il ruolo di garante in relazione a questa stessa fonte di rischio in quel preciso momento».

I ricorrenti si rivolgevano dunque alla Corte di Strasburgo, invocando la violazione dell’art. 2 della Convenzione.

Respinta l’eccezione relativa all’irricevibilità del ricorso, la Corte ricorda che l’art. 2 della Convenzione, che protegge il diritto alla vita, comporta per gli Stati anche l’obbligo positivo di natura procedurale di implementare un sistema giudiziario efficace e indipendente, che assicuri la disponibilità di strumenti giuridici in grado di accertare rapidamente i fatti, individuare i responsabili e garantire alle vittime un’adeguata riparazione. Tale obbligo implica che le eventuali indagini penali siano approfondite. Le autorità devono, cioè, impegnarsi meticolosamente nella ricostruzione dei fatti, evitando conclusioni affrettate, e devono attivarsi per acquisire tutte le prove disponibili.

Tanto chiarito, la Corte osserva, anzitutto, che le autorità giurisdizionali dello Stato si sono in più occasioni pronunciate, nell’ambito di procedimenti penali relativi a omicidio e/o lesioni personali colposi di lavoratori esposti ad amianto nel corso della loro vita professionale, sulla questione della pluralità di posizioni di garanzia, giungendo a soluzioni differenti quanto alla possibilità di determinare, in ogni singolo caso, il momento corrispondente all’origine della malattia e, di conseguenza, di pronunciarsi sulla individuazione delle persone responsabili per la violazione di norme cautelari durante il periodo in questione.

Nondimeno, la Corte sottolinea come, dall’analisi della predetta giurisprudenza (§§ 17-24, in cui si sintetizzano le differenti teorie della c.d. “trigger dose” e dell’effetto acceleratore), si ricava che, a prescindere dalla impostazione adottata, spetta al giudice, al fine di individuare le esposizioni alla sostanza nociva che presentino un nesso causale con la patologia contestata, di prendere in considerazione gli studi scientifici esistenti in materia e di esprimersi in merito alla loro rilevanza e applicare i principi scientifici così individuati ai fatti accertati nel processo. In tale prospettiva, la Corte richiama a sua volta la Corte di Cassazione (sent. n. 34341 del 3 dicembre 2020), secondo cui «[è] evidente che tale problema non può trovare adeguata soluzione che nel contesto di ciascun processo, attraverso la selezione e l’individuazione della teoria scientifica ritenuta rilevante, la corretta applicazione dei principi sui quali essa si fonda e la giustificazione della soluzione così pervenuta alla luce dei dati di fatto emergenti dalle indagini svolte nel singolo caso, ai quali detti principi devono essere applicati». 

Ciò posto, si sottolinea che il procedimento penale avviato dai ricorrenti è stato archiviato a causa dell’asserita impossibilità di determinare il momento in cui la cosiddetta “trigger dose”, in un contesto caratterizzato da una successione di soggetti garanti, era stata assorbita dal lavoratore e – di conseguenza – di identificare il soggetto garante in relazione a questa stessa fonte di rischio in quel preciso momento e di sanare tale situazione con le prove indicate nell’atto di opposizione dei ricorrenti.

In proposito, la Corte osserva che, in contrasto con la prassi seguita dal consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale, il giudice non aveva motivato la decisione sulla base dell’adozione di un determinato approccio scientifico né chiarito i criteri seguiti nella propria valutazione. La decisione, invero, non rispecchiava il dibattito scientifico allora in corso sulla materia, non era basata su perizie fondate su studi scientifici, né aveva fatto riferimento ad alcuna spiegazione scientifica o a circostanze specifiche del caso che potessero giustificare l’affermata impossibilità di individuare il periodo di esposizione a sostanze nocive da considerare rilevante ai fini del nesso causale con la patologia di G.L. 

La Corte evidenzia, inoltre, come, alla luce della natura incompleta della relazione presentata dalla SPESAL, per un verso, e degli ulteriori elementi di prova indicati dai ricorrenti nell’atto di opposizione, per l’altro, sarebbe stato necessario illustrare le ragioni scientifiche e/o di fatto dell’asserita impossibilità di determinare il momento iniziale del processo causale o, in mancanza, proseguire le indagini al fine di raccogliere ulteriori elementi di prova al fine di stabilire, conformemente alla teoria scientifica prescelta, il periodo corrispondente alle esposizioni alla sostanza nociva che presentava un nesso causale con la patologia in questione, e identificare i titolari delle posizioni di garanzia. La decisione di archiviare il procedimento si è basata, invece, secondo i giudici di Strasburgo, su un ragionamento circolare, per cui a causa della successione di titolari di posizioni di garanzia, era necessario identificare il momento iniziale del processo causale ma che, a causa di tale pluralità, era impossibile identificare lo stesso.

La Corte conclude, pertanto, che, in un simile contesto, tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza interna e, peraltro, della circostanza che l’origine professionale della patologia di G.L. non era stata esclusa a priori dallo stesso giudice, gli accertamenti relativi alla individuazione del periodo di esposizione alla sostanza nociva che presentava un nesso causale con la patologia del deceduto avrebbe potuto essere oggetto di ulteriori indagini, al fine di individuare i responsabili di eventuali violazioni delle norme cautelari e, dunque, del decesso di G.L. L’autorità giudiziaria nazionale non ha dunque compiuto sforzi sufficienti per accertare i fatti collegati alla morte del congiunto dei ricorrenti e le eventuali connesse responsabilità e la decisione di chiudere l’indagine non era stata fondata su un’adeguata motivazione.

Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’art. 2 della Convenzione nel suo aspetto procedurale.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 27 marzo 2025, ric. nn. 39553/16, 52632/16, 53467/16, 59339/17, 59531/17, 76896/17, 47092/18, Vyacheslavova e Altri c. Ucraina

Oggetto: art. 2 della Convenzione (diritto alla vita) – aspetto sostanziale – obblighi positivi – morte di alcuni parenti dei ricorrenti per ferite da arma da fuoco durante gli scontri di piazza o per un incendio - omissione da parte dello Stato di prevenire la violenza – rischio reale e immediato per la popolazione russa di essere colpita dalla violenza – negligenza imputabile alle autorità dello Stato oltre l'errore di giudizio o la disattenzione delle persone coinvolte – passività della polizia – incapacità di assicurare misure di salvataggio tempestive per le persone intrappolate nell'incendio – aspetto procedurale – mancata istituzione e svolgimento di un'indagine efficace sugli eventi – indagine non avviata tempestivamente - Ritardi e periodi significativi di inspiegabile inattività e stasi – termine di prescrizione ha privato il prosieguo delle indagini di ogni possibile utilità e quindi di ogni potenziale efficacia – mancanza di indipendenza – mancata garanzia di un sufficiente coinvolgimento delle vittime – accusa di mancanza di imparzialità.

Art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – impossibilità di recuperare la salma del padre per la sepoltura - conservazione della salma priva di qualsiasi scopo legittimo.

Il caso riguarda una serie di eventi tragici e complessi avvenuti in Ucraina tra il 2013 e il 2014, in particolare nella città di Odessa, sullo sfondo delle proteste note come “Maidan” e della successiva destabilizzazione del Paese. Le tensioni sono iniziate nel novembre 2013, quando l'Ucraina ha interrotto i preparativi per la firma dell'accordo di associazione con l'Unione Europea, preferendo invece rafforzare i legami con la Federazione Russa. Questa decisione ha scatenato una vasta mobilitazione popolare a Kiev e, progressivamente, anche in altre regioni, tra cui Odessa. Le manifestazioni hanno portato alla destituzione del Presidente e hanno innescato una serie di contraccolpi politici, inclusi disordini nelle regioni orientali del Paese e l’occupazione di edifici pubblici da parte di gruppi armati filorussi, con l’emergere di entità separatiste sostenute dalla Russia. Parallelamente, Mosca ha progressivamente preso il controllo della Crimea, culminando in un controverso referendum e nell’annessione della penisola.

Nel frattempo, Odessa era diventata teatro di tensioni crescenti tra sostenitori e oppositori del movimento Maidan. Nei mesi precedenti al 2 maggio 2014, si erano già verificati episodi di violenza, compreso l'attacco a manifestanti pro-Maidan da parte di gruppi organizzati, sotto l'occhio inerte delle forze dell’ordine. Le contrapposizioni erano alimentate anche sui social media, dove circolavano appelli e messaggi che incitavano a scontri e disordini. In questo clima carico di ostilità, il 2 maggio si è tenuta una marcia organizzata dai tifosi delle squadre di calcio Chornomorets Odessa e Metalist Kharkiv a sostegno dell'unità nazionale. Il corteo, però, è stato attaccato da militanti anti-Maidan, provocando scontri violenti nel centro cittadino.

Le autorità di pubblica sicurezza si sono mostrate incapaci di prevenire o contenere la violenza: in molti casi, la polizia è rimasta passiva, e alcuni agenti sono stati visti collaborare o perlomeno non contrastare attivamente gli attacchi. Gli scontri hanno portato alla morte di sei persone già nel pomeriggio. Dopo questi eventi, i dimostranti pro-unità hanno preso d’assalto il campo anti-Maidan allestito sul Kulikovo Pole. Gli attivisti filorussi si sono rifugiati nella Casa dei sindacati, dove si sono barricati. Da lì, sono stati lanciati oggetti incendiari verso la folla, e i manifestanti pro-Maidan hanno risposto incendiando le tende e successivamente colpendo l’edificio con molotov. A nulla sono servite le ripetute chiamate ai vigili del fuoco, che si trovavano nelle vicinanze ma non sono intervenuti, poiché vincolati a un ordine esplicito che non è arrivato in tempo.

I soccorsi sono giunti solo più tardi, quando ormai la situazione era fuori controllo. Alcuni dei presenti sono morti saltando dalle finestre nel tentativo disperato di salvarsi, altri sono rimasti intrappolati all’interno. In totale, l’incendio ha provocato la morte di 42 persone e il ferimento di numerosi altri, tra cui diversi dei ricorrenti nel caso. I sopravvissuti hanno riportato gravi ustioni e traumi.

Le indagini successive si sono rivelate frammentarie, lente e poco coordinate. Le responsabilità sono state distribuite tra varie autorità, spesso senza una reale cooperazione tra loro. Molti imputati sono riusciti a fuggire, altri sono stati prosciolti per prescrizione o per mancanza di prove sufficienti. L’unico processo giunto a conclusione ha riguardato il vicecapo della polizia regionale, condannato in contumacia per complicità nei disordini.

I ricorrenti si sono rivolti alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione, da parte dello Stato ucraino, di diversi diritti. In particolare, hanno denunciato, ai sensi dell’articolo 2 (diritto alla vita), che le autorità non avevano protetto adeguatamente la vita dei loro familiari o la loro stessa incolumità durante gli scontri e l’incendio scoppiato nella Casa dei sindacati, e che non era stata condotta un’effettiva indagine nazionale volta ad accertare le responsabilità dei fatti. Inoltre, invocando l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), hanno sostenuto che le sofferenze subite durante e dopo i fatti in questione, nonché la mancanza di risposte adeguate da parte delle istituzioni, avevano comportato una violazione della dignità umana. Hanno anche fatto riferimento all’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo), affermando che, nonostante la gravità delle violazioni subite, non era stato loro garantito un rimedio utile ed effettivo a livello interno. Ancora, alcuni ricorrenti hanno denunciato una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, ritenendo che le loro domande civili all'interno dei procedimenti penali non fossero state trattate entro un termine ragionevole, prolungando in modo eccessivo l’attesa di giustizia. Infine, una sola Ricorrente aveva lamentato, in riferimento all’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), il ritardo ingiustificato nella restituzione del corpo del padre per la sepoltura, fatto che ha aggravato il dolore del lutto e ostacolato la possibilità di rendere i dovuti omaggi secondo le proprie convinzioni personali e culturali.

Con riferimento all’articolo 2 della Convenzione, in via preliminare, la Corte ha impostato l’analisi delle responsabilità dello avendo riguardo ad una complessa catena di eventi che coinvolge diverse presunte mancanze da parte delle autorità statali: in particolare, l'incapacità di prevenire la violenza, l'incapacità di fermare la violenza e l'incapacità di garantire misure di soccorso tempestive in situazioni di emergenza.

La disinformazione e la propaganda provenienti dalla Federazione Russa hanno avuto un ruolo significativo nello scatenare i tragici eventi di Odessa. La Corte ha constatato che tale violenza ingiustificata è stata preceduta da un’intensa e prolungata diffusione di messaggi aggressivi e manipolatori da parte delle autorità e dei media russi, volti a screditare il nuovo governo ucraino e i sostenitori di Maidan. Analizzando le circostanze che avevano dato origine al rischio di violenza, la Corte ha preso atto dell’argomentazione presentata dal governo ucraino circa la minaccia rappresentata dalla Russia per la stabilità della regione di Odessa. Tenuto conto del valore strategico della città e del coinvolgimento documentato della Federazione Russa nei conflitti in Crimea e nell’Ucraina orientale, la Corte ha considerato tale timore ragionevolmente fondato.

La Corte ha inoltre accertato che il vicecapo della polizia regionale, coinvolto nelle decisioni prima e durante gli eventi e successivamente rifugiatosi in Russia, ha sostenuto il movimento anti-Maidan, arrivando perfino a cospirare con gli attivisti per fomentare disordini. La collusione tra forze dell’ordine e attivisti ha costituito un ulteriore fattore di rischio, che il governo ucraino, ancora instabile, non è stato in grado di gestire efficacemente.

Riconoscendo che le autorità avevano l’obbligo fondamentale di adottare misure ragionevoli per prevenire la violenza, la Corte ha rilevato che non vi sono prove sufficienti che dimostrino l’attuazione di misure preventive efficaci. Quando le autorità sono venute a conoscenza dei messaggi e delle minacce circolanti sui social media, avrebbero dovuto rafforzare immediatamente la sicurezza pubblica. Al contrario, come ammesso dallo stesso Governo, le forze di polizia hanno ignorato i segnali di allarme e si sono preparate per una normale partita di calcio, senza inviare rinforzi né predisporre piani straordinari per eventuali disordini.

La Corte ha osservato che il 2 maggio 2014 si è svolta una riunione tra funzionari della sicurezza e il viceprocuratore generale, ma costoro sono poi risultati irreperibili per gran parte della giornata. L’atteggiamento di questi funzionari è stato ritenuto inspiegabile e gravemente passivo.

La Corte ha accertato che la polizia ha omesso di intervenire per fermare la prima ondata di violenza e ha riscontrato chiari indizi di una collusione con gli aggressori. Tale inerzia ha costituito una delle cause principali della successiva reazione violenta e incontrollata. Inoltre, non è stato attivato alcun piano di emergenza per la gestione di disordini di massa, e il coordinamento tra le varie forze di polizia è risultato gravemente carente. La Corte ha ritenuto che l’inerzia mostrata dalle autorità abbia superato la soglia della mera negligenza o dell’errore di valutazione.

Quanto all’incendio della Casa dei Sindacati, la Corte ha stabilito che le autorità non hanno adottato misure tempestive e adeguate a salvare vite umane. Il ritardo deliberato di 40 minuti nell’invio dei mezzi antincendio e l’assenza di interventi volti a facilitare l’evacuazione dell’edificio sono stati considerati inaccettabili. Di conseguenza, la Corte ha concluso che non sono stati presi provvedimenti urgenti e adeguati alla salvaguardia delle persone coinvolte.

In sintesi, la Corte ha ritenuto che le autorità non abbiano fatto tutto quanto ragionevolmente in loro potere per prevenire la violenza, porvi fine e salvare vite umane, concludendo per una violazione dell’articolo 2 della Convenzione nel suo aspetto materiale.

In merito all’aspetto procedurale dell’articolo 2 della Convenzione, la Corte ha applicato la sua consolidata giurisprudenza relativa al rispetto dei requisiti procedurali dell'articolo 2 della Convenzione che lo Stato deve adempiere per garantire una risposta effettiva ai fenomeni di violenza: l'adeguatezza delle misure investigative, la tempestività e la ragionevole speditezza dell'indagine, la sua indipendenza da chiunque sia coinvolto o possa essere coinvolto nei fatti, nonché il coinvolgimento della vittima o della sua famiglia nella misura necessaria a salvaguardare i suoi legittimi interessi e un sufficiente elemento di controllo pubblico. Questi elementi sono interconnessi e ciascuno di essi, preso separatamente, non è fine a se stesso. Si tratta di criteri che, considerati congiuntamente, consentono di valutare il grado di efficacia dell'indagine. ha constatato che le autorità non hanno condotto un’indagine efficace sugli eventi. 

Rispetto a questi profili la Corte ha valutato che dopo gli scontri, le autorità hanno dato priorità alla pulizia delle aree colpite, anziché preservarle come scena del crimine. Le ispezioni sono iniziate solo dopo due settimane e non hanno portato a risultati rilevanti. La Casa dei Sindacati è rimasta chiusa per 17 giorni, impedendo l’accesso a elementi probatori. Gravi omissioni hanno riguardato anche l’acquisizione e la gestione delle prove forensi, molte delle quali non sono mai state analizzate, e diversi rapporti sono stati pubblicati tardivamente o risultano tuttora pendenti. Non è stato compiuto alcuno sforzo giudiziario per identificare i soggetti coinvolti nei disordini tramite i numerosi materiali fotografici e video disponibili.

La Corte ha inoltre rilevato carenze profonde nelle indagini su alcuni individui. In particolare, il procedimento nei confronti di un attivista pro-Maidan è stato interrotto ripetutamente per motivi già giudicati infondati, mentre l’inchiesta su diciannove attivisti anti-Maidan è risultata talmente lacunosa da far supporre un intento deliberato di sabotaggio. Il tribunale ha infatti evidenziato le gravi manchevolezze delle autorità inquirenti, che hanno persino ignorato le richieste del giudice stesso.

La Corte ha riscontrato che l’indagine non è stata né tempestiva né condotta in tempi ragionevoli. I ritardi, le fasi di inattività e l’inerzia delle autorità hanno compromesso l’efficacia dell’intero procedimento. La mancata apertura di un’indagine penale nei confronti del capo dei vigili del fuoco per quasi due anni, e l’incriminazione tardiva del capo della polizia regionale, i cui reati sono infine caduti in prescrizione, sono stati considerati particolarmente gravi. Anche laddove le indagini sono ancora formalmente aperte, la Corte ha rilevato che l’ormai intervenuta prescrizione le ha svuotate di ogni utilità.

Quanto alla partecipazione delle vittime e al controllo pubblico dell’indagine, la Corte ha affermato che, vista la gravità dei fatti, il diritto alla verità spettava non solo ai familiari delle vittime ma all’intera collettività. Il Governo non ha smentito le accuse di mancata informazione ai ricorrenti, né ha garantito trasparenza e coerenza nella comunicazione istituzionale. Al contrario, l’opacità ha favorito la diffusione di narrative distorte, divenute strumenti di propaganda russa a partire dal 2022. Una maggiore apertura avrebbe potuto contrastare questo fenomeno.

La Corte ha infine rilevato che l’indagine non è stata condotta da organi indipendenti, nonostante l’evidente coinvolgimento della polizia negli eventi. Né l’inchiesta sulla condotta dei vigili del fuoco ha soddisfatto i requisiti di indipendenza istituzionale e pratica. Tuttavia, la Corte ha escluso che vi sia stata una violazione del principio di imparzialità, rilevando che le autorità non sono state più sollecite nell’indagare le morti dei sostenitori di un fronte rispetto a quelle dell’altro. Le critiche espresse dalla Corte hanno riguardato l’intero quadro investigativo, senza discriminazione basata sull’orientamento politico.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha concluso che vi è stata una violazione dell’articolo 2 della Convenzione anche sotto il profilo procedurale.

Con riferimento all’articolo 8, la Corte ha esaminato il reclamo presentato della singola Ricorrente in relazione al ritardo nella consegna del corpo del padre per la sepoltura. Nonostante la Ricorrente avesse ripetutamente identificato il corpo come quello del padre, l’investigatore lo ha conservato per diversi mesi senza adottare ulteriori misure volte alla sua identificazione. Solo grazie all’intervento del capo della missione di monitoraggio delle Nazioni Unite, il corpo del padre della Ricorrente è stato infine consegnato per la sepoltura. La Corte ha concluso che la conservazione protratta del corpo non è risultata necessaria e ha costituito una violazione dell’articolo 8 della Convenzione nei confronti della ricorrente.

Con riferimento agli altri articoli, i ricorrenti hanno sostenuto che il modo in cui le autorità hanno condotto le indagini abbia causato loro una profonda sofferenza mentale, configurando maltrattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione. Pur avendo riconosciuto la gravità delle sofferenze subite, la Corte non ha ritenuto che esse abbiano superato quelle ordinariamente derivanti dalla morte ingiusta di un parente stretto e dall’assenza di un’indagine efficace. Avendo già accertato diverse violazioni dell’articolo 2 della Convenzione, la Corte ha respinto la denuncia ai sensi dell’articolo 3. Infine, avendo già esaminato le principali questioni giuridiche sollevate nel caso, la Corte non ha ritenuto necessario pronunciarsi separatamente sulla ricevibilità e sul merito del ricorso presentato ai sensi dell’articolo 6 § 1.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 27 marzo 2025, ric. n. 4217/23, Niort c. Italia

Oggetto: art. 3 della Convenzione (divieto di tortura), art. 8 (diritto al rispetto della vita privata), art 38 (esame in contraddittorio della causa) – detenuto affetto da patologie mentali – aumento degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio – incertezze circa la compatibilità delle condizioni di salute col carcere, stante le non coerenti decisioni di sorveglianza – completezza del sostegno medico e psicologico – mancata indagine sugli effetti del carcere sulla patologia mentale – irrilevanza del contegno oppositivo del ricorrente – difetti di allegazione da parte del governo convenuto.

Art. 6 della Convenzione (equo processo) – provvedimento di sorveglianza che accerta l’assoluta incompatibilità tra le condizioni di salute del ricorrente e il carcere, richiedendo al DAP l’individuazione di altro istituto detentivo – mancata attuazione.

Il ricorrente, detenuto in espiazione di una condanna definitiva, soffriva di disturbo bipolare, borderline, nonché da uso di sostanze stupefacenti.

Inizialmente, le diverse istanze di differimento pena (in subordine, di detenzione domiciliare o in luogo di cura) venivano rigettate dai giudici di sorveglianza, i quali ritenevano compatibili le condizioni di salute del detenuto col carcere, in ragione, da un lato, della pericolosità sociale manifestata da quest’ultimo, dall’altro, del supporto psichiatrico e farmacologico già fornito dall’amministrazione penitenziaria.

Tale conclusione veniva sostenuta anche a fronte di episodi autolesionistici: i giudici valorizzano, infatti, la mancata adesione del ricorrente al piano farmacologico e la mancata partecipazione ai colloqui.

La situazione cambiava a novembre 2022, quando il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, pur rigettando l’istanza di differimento, riconosceva la sopravvenuta incompatibilità tra condizioni di salute e carcere, sulla scorta di una relazione peritale aggiornata; conseguentemente, il Tribunale incaricava il DAP di trovare un istituto più adeguato ove espiare la pena.

A gennaio 2023, dopo un tentativo di suicidio, il ricorrente presentava una nuova istanza che veniva rigettata: i giudici di sorveglianza, senza pronunciarsi in termini di compatibilità/incompatibilità, escludevano la possibilità di una misura alternativa, in considerazione del carattere particolarmente violento del detenuto, nonché del suo atteggiamento oppositivo.

Dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il ricorrente lamentava la violazione di diverse norme della Convenzione: dell’art. 3, stante l’inadeguatezza del trattamento terapeutico ricevuto in carcere; degli artt. 5 e 6, in ragione della mancanza di titolo detentivo, ovvero della scorretta attuazione dei provvedimenti dei giudici di sorveglianza; infine, dell’art. 8, considerata l’incidenza del trattamento inadeguato sul diritto al rispetto della vita privata del ricorrente.

Ritenuta l’ammissibilità del ricorso, la Corte ricorda gli elementi rilevanti per determinare se la detenzione di una persona malata sia conforme all’articolo 3 della Convenzione (Rooman c. Belgio, [GC], n. 18052/11, §§ 141-148, 31 gennaio 2019):

- lo stato di salute della persona interessata e l’effetto delle modalità detentive sul decorso delle patologie. Le condizioni di detenzione non devono, infatti, sottoporre la persona privata della libertà a sentimenti di paura, angoscia e inferiorità tali da umiliarla, avvilirla e, eventualmente, spezzarne la resistenza fisica e morale; rispetto ai detenuti affetti da disturbi mentali, più vulnerabili di quelli comuni, la vita carceraria può amplificare il rischio di siffatti sentimenti;

- l’adeguatezza o meno delle cure e dei trattamenti medici prestati durante la detenzione. Questo aspetto è il più difficile da accertare. Le autorità devono garantire che: le informazioni relative allo stato di salute e alle cure ricevute siano registrate in modo esauriente; il detenuto riceva tempestivamente una diagnosi precisa e cure adeguate; qualora la patologia lo richieda, sia sottoposto a una sorveglianza regolare e sistematica, associata a una strategia terapeutica globale volta a porre rimedio ai suoi problemi di salute o a prevenirne l’aggravamento piuttosto che a curarne i sintomi; la patologia sia vagliata da uno specialista della medesima; in caso di pareri medici divergenti, l’autorità assicuri un ulteriore parere specialistico. Spetta alle autorità nazionali dimostrare di aver creato le condizioni necessarie affinché il trattamento prescritto venga effettivamente seguito e, nel caso in cui l’assistenza non fosse possibile nel luogo di detenzione, il detenuto deve poter essere ricoverato o trasferito in reparti specializzato;

- il mantenimento in detenzione tenuto conto dello stato di salute. Benché la Convenzione non imponga alcun obbligo generale di liberare un detenuto per motivi di salute, in circostanze particolarmente gravi una corretta amministrazione della giustizia penale può richiedere di adottare “misure di carattere umanitario” (quali, appunto, il trasferimento o il rilascio del detenuto).

Nel caso di specie, le parti concordano sull’esistenza dei disturbi del ricorrente.

Per quanto riguarda le modalità di detenzione e l’adeguatezza delle cure, il ricorrente era stato sottoposto a stretta sorveglianza; il governo convenuto ha fornito la cartella clinica degli anni 2021 e 2022, dalla quale risultano frequenti colloqui con psicologi, psichiatri, educatori e operatori del servizio di tossicodipendenza, nonché la prescrizione di un trattamento farmacologico che il ricorrente seguiva in modo irregolare. Numerose relazioni dei servizi medici dei vari istituti penitenziari attestano follow-up multidisciplinari nonché la prescrizione di farmaci.

Al contempo, alcuni elementi fanno sorgere perplessità circa la possibilità di mantenere il ricorrente in carcere: una perizia del 2019 descriveva i disturbi del ricorrente come “reattivi alla detenzione”, ipotizzando che i medesimi potessero aggravarsi in caso di permanenza in carcere (dal 2022, gli episodi autolesionistici e i tentativi di suicidio aumentavano); nel 2020, un team multidisciplinare del carcere aveva riconosciuto la difficoltà di gestire il ricorrente; le ultime due decisioni di sorveglianza sembrano tra loro contraddittorie e intrinsecamente non approfondite; il governo convenuto non ha spiegato il perché di tale contraddizione né ha prodotto perizie mediche aggiornate. 

Sulla scorta del quadro delineato, l’art. 3 della Convenzione non può che ritenersi violato (conclusione che assorbe i profili di doglianza ai sensi dell’art. 8).

A siffatta violazione, si aggiunge quella sia dell’art. 6 § 1, in ragione della mancata attuazione della decisione di sorveglianza di novembre 2022, che dell’art. 38, in ragione del mancato assolvimento, da parte del governo, di diversi oneri di allegazione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

09/05/2025
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