Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Trump e l’università: l’executive order di riforma del sistema di accreditamento degli istituti di istruzione superiore

di Federico Falorni
assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Firenze

1. Trump e l’università: un rapporto conflittuale

I primi mesi della Presidenza Trump passeranno alla storia (pure) come un momento in cui lo scontro istituzionale tra il mondo accademico e l’amministrazione federale ha assunto toni particolarmente aspri. Sin dal giorno dell’insediamento, il 20 gennaio 2025, il Presidente ha iniziato una battaglia personale contro le principali università del Paese, che, pian piano, si è fatta sempre più aggressiva. Accusati di non aver efficacemente contrastato gli episodi di antisemitismo nei rispettivi campus in occasione delle proteste contro la guerra in corso nella Striscia di Gaza e, anzi, di averli in qualche modo avallati, incitando anche al ricorso alla violenza, alcuni dei più prestigiosi atenei statunitensi sono stati letteralmente presi di mira da Trump. 

È il caso, innanzitutto, di Harvard, che si è eretta a simbolo della resistenza, a tutela della libertà accademica, nei riguardi di molteplici (e reputate eccessive) iniziative presidenziali. Queste spaziavano, infatti, dallo smantellamento degli accampamenti a sostegno della Striscia di Gaza alla messa a disposizione dei dati personali (finalizzata anche all’avvio di eventuali procedimenti penali) degli studenti coinvolti nelle proteste, dalla cancellazione dei programmi volti a favorire diversità ed inclusione, alla revisione, in generale, dei criteri di ammissione del corpo studentesco e di assunzione di quello docente. Dopo essersi rifiutato di uniformarsi a molte delle richieste dell’amministrazione, ad inizio aprile l’Ateneo si è visto congelare fondi federali per un ammontare pari a 2,2 miliardi di dollari e, a breve distanza di tempo, ha dovuto fare i conti anche con la minaccia di Trump di sospendere qualsiasi sovvenzione in suo favore. In linea con le precedenti, si inserisce l’ulteriore iniziativa di revocare la certificazione del programma dell’Università dedicato agli studenti di nazionalità straniera, con la conseguenza di impedire la loro immatricolazione e di indurre quelli già regolarmente iscritti a trasferirsi. Peraltro, la scelta di impedire agli studenti stranieri di fare ingresso negli Stati Uniti per frequentare Harvard è particolarmente significativa, se solo si considera che attualmente essi sono circa 6.800, pari al 27% del totale degli iscritti, e che ciò vorrebbe dire privare l’Ateneo di un’importante fonte di finanziamento, anche in ragione dell’elevato importo della retta annuale. 

Harvard, ma non solo. Columbia University, Cornell University, Northwestern University, Princeton University, University of Pennsylvania sono solo alcune delle università, non piegatesi ai dictat dell’amministrazione Trump, che sono state colpite dai tagli dei fondi federali. E sono pure di questi giorni l’ordine del Presidente impartito ai consolati ed alle ambasciate di sospendere la programmazione di tutti i colloqui per le richieste dei visti delle persone che ambiscono ad iscriversi ad un ateneo statunitense, nonché la minaccia di rimuovere le esenzioni fiscali di cui tali istituti hanno storicamente beneficiato. 

A ben vedere, la campagna contro gli atenei, inizialmente giustificata con l’accusa di antisemitismo e come conseguenza dell’opposizione mostrata nei riguardi delle politiche adottate da Trump, ha ragioni ben più profonde e – se si vuole – destabilizzanti. L’ostilità nasce, infatti, dal convincimento, fortemente radicato nell’attuale ala repubblicana, che nelle università sia tradizionalmente prevalente la cultura progressista, di “sinistra”, come tale ostile ai valori di cui è portatrice l’ideologia conservatrice. Si ritiene, insomma, che le istituzioni accademiche siano la “culla” della cultura woke, uno dei pilastri del programma politico dello schieramento democratico, ovvero di quella idea che «ha posto al centro del dibattito politico le rivendicazioni delle cosiddette minoranze – siano esse legate all’orientamento sessuale, all’identità di genere, alle origini etniche o alla disabilità»[1]. Da qui, l’intendimento, nemmeno tanto celato, di sottomettere le principali università statunitensi al controllo dell’amministrazione federale, al fine (soprattutto) di assicurare che le politiche di ammissione degli studenti e di reclutamento dei docenti ed i programmi didattici impartiti siano allineati con l’orientamento politico del Presidente. È in gioco, insomma, la libertà accademica, e non è una questione di poco conto. 

Un nuovo capitolo dello scontro tra il mondo accademico e l’amministrazione Trump si rinviene nell’Executive Order n. 14279 del 23 aprile 2025, avente ad oggetto Reforming Accreditation To Strengthen Higher Education, che ha dato attuazione alla volontà del Presidente di rinnovare il sistema di accreditamento delle università (che, a sua volta, determina anche gli atenei idonei a ricevere i finanziamenti federali).  

Prima di esaminare il contenuto dell’Order e le sue implicazioni, specie per quel che attiene alle politiche di diversità, equità ed inclusione (meglio conosciute con l’acronimo “DEI”), si ritiene, però, opportuno fare qualche cenno alla tipologia di strumento prescelto. 

 

2. Note sugli executive orders presidenziali 

Gli executive orders (d’ora in avanti anche EO) costituiscono uno degli strumenti – unitamente alle presidential proclamations ed agli executive memoranda – mediante il quale il Presidente esercita l’attività di governo ed imprime il proprio indirizzo politico su tutti i livelli dell’amministrazione[2]. Benché la loro adozione costituisca oramai una prassi consolidata e tutt’altro che secondaria, gli ordini esecutivi «have consistently existed in a state of legal ambiguity»[3]. Tale incertezza si coglie su un duplice piano: né la Costituzione né altro testo normativo prevedono espressamente la facoltà del Presidente di adottarli; non è neppure rinvenibile in alcun documento ufficiale una definizione di questa tipologia di strumenti[4]. Con specifico riferimento all’articolo II della Costituzione che, come è noto, conferisce al Presidente il potere esecutivo, si era pure posta la questione, al fine di legittimare l’esistenza degli EO nell’ordinamento costituzionale statunitense, «whether the term “Executive Power” refers merely to the specifically enumerated powers in article II, or whether it is an affirmative delegation of some all-pervasive independent power»[5]

Quest’ultima impostazione, col tempo, è risultata in linea di principio prevalente: sebbene non disciplinati, gli EO costituiscono un mezzo pienamente ammesso nel panorama statunitense, pur con delle limitazioni. Per produrre effetti giuridici, infatti, gli ordini esecutivi debbono comunque trarre un fondamento dal testo della Costituzione – se e nella misura in cui sono riconducibili ad uno dei poteri espressamente conferiti al Presidente dall’articolo II – oppure da una delega da parte del Congresso[6]. Per una mera finalità tassonomica, nel primo caso si parla di «constitutional executive orders»[7], nel secondo, di «statutory-based executive orders»[8]. Con specifico riferimento alla delega da parte del legislatore federale, essa può essere espressa e generalmente viene conferita prima dell’adozione dell’EO; tuttavia, può essere anche successiva, una volta che l’ordine è stato pubblicato, e in questa eventualità può assumere carattere esplicito (se in una legge si fa menzione di un EO già in essere) o implicito (qualora il testo normativo dia comunque attuazione al contenuto di un certo EO)[9]

Come si accennava, nonostante le incertezze intorno al loro status, numerose questioni centrali per la vita politica e costituzionale degli Stati Uniti sono state affrontate mediante ordini esecutivi[10]. Ci si limita a richiamarne due, tra di loro connessi, e che, a loro volta, si correlano con l’executive order analizzato nel paragrafo successivo. Il primo, adottato nel 1961 dal Presidente Kennedy, nel prevedere, come generale dovere dei datori di lavoro, l’adozione di misure volte a favorire l’impiego degli appartenenti alla minoranza di colore, aprì la strada alle politiche sulle affirmative actions[11]. Sulla stessa scia si pone il secondo, emanato a distanza di quattro anni dal Presidente Johnson, che, tra le altre cose, sancì l’onere per i datori di lavoro titolari di contratti di appalto e di subappalto di predisporre sia programmi contenenti gli obiettivi numerici per l’assunzione e per la promozione dei lavoratori delle minoranze etniche e razziali, sia criteri per la valutazione dei progressi compiuti in tale direzione[12], dando così ulteriore spinta allo sviluppo delle azioni positive. 

In tempi più recenti, inoltre, gli ordini esecutivi presidenziali sono stati largamente impiegati per prendere le distanze dalle politiche del predecessore, specialmente se di diverso colore politico. In particolare, sempre più di frequente accade che un EO adottato sotto una certa presidenza venga espressamente modificato o revocato da un successivo presidente, attraverso l’emanazione, a tal fine, di un nuovo ordine esecutivo[13]. Si tratta, insomma, di un impiego prevalentemente “reattivo” degli executive orders, finalizzato a vanificare iniziative sgradite e non condivise intraprese in precedenza da altri presidenti. Esemplificativo, al riguardo, è stato l’utilizzo degli EO ad opera di Biden nel corso del primo anno di mandato[14]: ben 77, in gran parte al fine di “rovesciare” le politiche di Trump in tema di misure di contrasto all’emergenza sanitaria, di tutela delle minoranze LGBTQI+ ed afroamericane, nonché a sostegno dei diritti riproduttivi gravemente compromessi a seguito della ben nota decisione Dobbs v. Jackson Women's Health Organization[15]. Ancora più paradigmatico, è l’impiego degli EO ad opera di Trump nei primi mesi del secondo mandato: ad oggi[16], sul Federal Register – istituito nel 1935 con il Federal Register Act e che raccoglie tutti gli atti adottati dall’esecutivo, contribuendo così a dare ordine ed accessibilità al sistema[17] – sono pubblicati ben 161 ordini esecutivi emanati dal Presidente, a partire dal 20 gennaio 2025. Così, attraverso tale strumento, bypassando il tradizionale iter legislativo, si riconoscono ampi margini di manovra ad una azione unilaterale presidenziale e si consente a Trump, di fatto, di imprimere fortemente il proprio indirizzo politico all’attività di governo, vanificando politiche, anche consolidate, ritenute eccessivamente liberal e smantellando alcuni capisaldi della storia politica e costituzionale statunitense. 

In quest’ottica, sembra pure da inquadrare l’ordine esecutivo oggetto di analisi al prossimo paragrafo 

 

3. L’ordine esecutivo Reforming Accreditation To Strengthen Higher Education

In data 23 aprile[18], il Presidente ha firmato un executive order avente ad oggetto la riforma del meccanismo di accreditamento degli atenei universitari. Come è noto, si tratta di un sistema, il cui obiettivo è controllare la qualità dell’istruzione superiore, non gestito direttamente da un unico ente governativo centrale, ma affidato ad una serie di organismi accreditanti privati ed indipendenti, riconosciuti idonei a tal fine dal Dipartimento dell’istruzione e spesso operanti su un’area geografica circoscritta. Esistono due tipi di accreditamento: quello istituzionale, che valuta l’università nel complesso, e quello riferito ad un singolo corso di studi (medicina, giurisprudenza, ecc.). Il processo, che si attiva su base volontaria, ha la finalità di verificare che le università – che scelgono di sottoporsi ad esso – soddisfino determinati parametri di qualità e standard educativi; tra questi criteri, particolare importanza era tradizionalmente attribuita al fatto che l’ateneo adottasse programmi, anche incentrati sulle affirmative actions, volti ad incentivare la diversità, l’equità e l’inclusione tra il corpo studentesco e quello docente. Solamente in caso di esito positivo del processo, l’ente accreditante rilasciava la certificazione. Per un’università, del resto, l’accreditamento è importante per molteplici motivi: ad esempio, possono beneficiare di finanziamenti federali unicamente gli istituti accreditati, e solo i titoli rilasciati da questi ultimi hanno una particolare validità sul mercato del lavoro. 

Già durante la campagna elettorale, Trump aveva manifestato l’intenzione di “silurare” «the radical left accreditors that have allowed our colleges to become dominated by Marxist maniacs and lunatics». L’ordine esecutivo adottato nella terza decade di aprile sembra ora darvi attuazione, avendo l’ambizione di riformare il sistema di accreditamento, con un obiettivo ben preciso. 

Già nella sezione 1 dell’Order, in merito alle finalità perseguite, dopo aver manifestato, in termini generali, la propria insoddisfazione verso l’attività tradizionalmente svolta dagli enti accreditatori, il Presidente critica apertamente l’operato di questi ultimi in quanto focalizzato, in larga misura, su «un’ideologia discriminatoria». Nell’ottica di Trump, infatti, molti enti «fanno dell’adozione di pratiche illegittime, in quanto discriminatorie, uno standard formale per conseguire l’accreditamento»; e tra queste pratiche, vi sarebbero essenzialmente i criteri volti a favorire diversità, equità ed inclusione (conosciuti, come si accennava, con l’acronimo “DEI”), tradizionalmente impiegati dagli organismi accreditanti per valutare la qualità di un ateneo. 

Nella medesima Sezione, inoltre, l’EO si scaglia contro la prassi di alcuni enti, tra cui quella seguita dal Council of the Section of Legal Education and Admissions to the Bar presso l’American Bar Association, ovvero l’unico ente accreditatore riconosciuto a livello federale per i corsi di studio in giurisprudenza. Quest’ultimo sarebbe stato “colpevole” di aver richiesto alle facoltà di legge, per conseguire un giudizio positivo in fase di accreditamento, di dimostrare un impegno concreto verso la diversità e l’inclusione, al fine di garantire un corpo studentesco diversificato per quel che attiene al genere, alla razza ed all’etnia. Sul punto, dapprima l’ordine richiama la recente sentenza della Corte suprema Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College[19], che – con l’attuale maggioranza conservatrice, instauratasi per effetto delle nomine dei Justices Gorsuch, Kavanaugh e Barrett ad opera di Trump nel corso del primo mandato, e superando un orientamento consolidato di segno contrario[20] – ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i programmi di ammissione degli studenti al College di Harvard ed all’Università della North Carolina, che, a loro volta, prevedevano una serie di trattamenti preferenziali in favore degli appartenenti alle minoranze razziali (proprio al fine di favorire un corpo studentesco variegato ed inclusivo). Quindi, forte del sostegno della più recente decisione della corte federale di ultima istanza sul tema, il Presidente esprime chiaramente l’intendimento di eliminare definitivamente standard e parametri che si pongono l’obiettivo di valorizzare, per conseguire un giudizio positivo nel processo di accreditamento, le azioni positive (affirmative actions) adottate dalle università al fine di assicurare gli obiettivi cari alle politiche “DEI”. La Sezione 1 si chiude, pertanto, con la presa di posizione circa la volontà, da parte dell’amministrazione Trump, di riformare tutto il sistema di accreditamento degli istituti di istruzione superiore, con l’obiettivo di garantire che gli enti preposti a tale compito si concentrino su parametri diversi ed ulteriori, rispetto a quelli considerati dal Presidente “ingiustificatamente discriminatori”. 

Ciò premesso in merito alle finalità, nelle sezioni successive dell’executive order si impartiscono una serie di disposizioni, di carattere operativo ed indirizzate essenzialmente all’attuale Segretaria dell’Istruzione statunitense, Linda McMahon, al fine di dare concreto impulso alla riforma. Senza alcuna pretesa di richiamarle in maniera puntuale ed analitica, nella seconda sezione si affida alla Segretaria medesima il compito di vigilare ed eventualmente sanzionare – anche mediante la sospensione o la revoca del riconoscimento conferito – gli enti accreditatori già riconosciuti, che non si atterranno ai parametri di prossima individuazione e che, di contro, continueranno ad assegnare particolare rilevanza agli standard che privilegiano quei programmi che realizzano presunte «discriminazioni illegittime». Nella terza sezione, invece, si individuano, alla lettera a)(i), una serie di nuovi principi di accreditamento sul presupposto – discutibile (sia concessa una notazione personale) – che quelli fino ad allora seguiti non erano stati all’altezza di garantire «un’istruzione di alta qualità e di valore per gli studenti». Tra questi – si ribadisce ancora una volta, quasi in maniera ossessiva – gli organismi accreditatori debbono richiedere agli istituti di istruzione superiore di fornire programmi accademici «privi di qualsiasi forma discriminatoria o di altra violazione del diritto federale». Sulla stessa linea ma in maniera ancora più esplicita, alla lettera b)(ii) della medesima sezione, si dispone che gli enti accreditatori dovranno incentivare gli istituti di istruzione a migliorare i rispettivi programmi, rispetto ai risultati già conseguiti, in ogni caso però «senza tener conto di razza, etnia o sesso». Sempre sotto la lettera b) e nell’ambito della solita strategia, volta a superare la prassi seguita dagli organismi di accreditamento in essere, si affida alla Segretaria dell’Istruzione il compito di riattivare il procedimento per il riconoscimento di nuovi enti accreditatori, con l’identificazione di ulteriori parametri rispetto a quelli tradizionalmente impiegati e con anche la finalità di incrementare la concorrenza tra gli enti medesimi. 

 

4. Rilievi finali 

Negli anni’60 del secolo scorso, con l’impulso proveniente dai movimenti per il riconoscimento dei diritti civili e dall’approvazione del Civil Rights Act nel 1964, e per effetto del contributo determinante della giurisprudenza della Corte suprema e dell’adozione di alcuni executive orders (due dei quali richiamati in precedenza) iniziarono a svilupparsi le affirmative actions[21]. Come è noto, si tratta di misure che stabiliscono trattamenti preferenziali a favore dei membri delle minoranze etniche e dei gruppi sociali più deboli: esse presuppongono un comportamento attivo (da qui, il nome di azioni positive) per assicurare loro corsie agevolate per l’accesso, ad esempio, ad alcuni impieghi ed agli istituti di istruzione superiore e, più in generale, per rimuovere le disparità tra gli individui. Tradizionalmente, del resto, il mondo accademico è risultato essere un terreno privilegiato per questa tipologia di iniziative: per un verso, gli enti accreditatori hanno valutato positivamente la predisposizione da parte degli atenei di programmi volti, appunto, a garantire la diversità e l’inclusione, tra gli studenti ed i docenti, anche degli appartenenti ai gruppi più svantaggiati o destinatari di comportamenti discriminatori; per altro verso e conseguentemente, le università hanno prestato particolare attenzione verso questo genere di politiche di ammissione e di assunzione.

L’ordine del Presidente Trump del 23 aprile, tuttavia, sembra andare nella direzione opposta. Se effettivamente attuato ad opera dell’amministrazione, infatti, esso tenderà a vanificare qualsiasi politica riconducibile alla cultura dell’inclusione e, per l’effetto, ad azzerare qualsiasi forma di agevolazione per favorire l’ingresso nelle sedi universitarie di membri dei gruppi minoritari, sotto-rappresentati ed appartenenti a minoranze etniche e razziali. Da parte loro, le università – al fine di mantenere l’accreditamento o di conseguirlo ex novo, così da continuare ad assicurarsi il diritto a ricevere fondi federali – rischiano di dover rivedere i rispettivi programmi di ammissione, al fine di adeguarli ai criteri di prossima identificazione, che certamente (così si evince dal tono e dalle parole dell’Order, inequivocabili sul punto) non riserveranno più un posto privilegiato alle politiche che si identificano nell’acronimo “DEI”.  

Ciò, del resto, è in perfetta sintonia con l’ideologia del Presidente e, quanto meno, con quella dell’ala più conservatrice del partito repubblicano. Tra le priorità di Trump – tra l’altro già anticipata con l’Executive Order n. 14173 del 21 gennaio, dal titolo emblematico Ending Illegal Discrimination and Restoring Merit-Based Opportunity – vi è, infatti, l’eliminazione di qualsiasi forma di affirmative action sia nel settore dell’istruzione superiore, sia in ambito lavorativo. La tesi sostenuta con particolare vigore dal Presidente, che può pure contare sul sostegno dell’attuale maggioranza della Corte suprema, è che tale tipologia di azioni costituirebbe un illegittimo comportamento discriminatorio (al riguardo anche l’ordine analizzato impiega più volte questa terminologia), attuato a danno dei “bianchi” ed in favore degli appartenenti alle minoranze razziali ed etniche. In particolare, essa muove da una lettura forzata ed eccessivamente formale dell’idea, espressa decenni addietro in ben altro contesto e con tutt’altra finalità dal Justice Harlan nell’opinione dissenziente in Plessy v. Ferguson, della color-blindness della Costituzione statunitense[22]. Oggi, infatti, nella visione di Trump, bianchi e neri dovrebbero essere trattati in maniera assolutamente identica, al punto che, da un lato, qualsiasi meccanismo che riconosce un trattamento vantaggioso per gli appartenenti ad un determinato gruppo etnico realizzerebbe una “discriminazione al contrario” in danno degli altri; dall’altro lato, si dovrebbe ambire ad un sistema incentrato esclusivamente sul “mito” della meritocrazia[23]. Il risultato, però, rischia di essere ben lontano, persino opposto, a quello auspicato dal Presidente. 


 
[1] F. Clementi, Tra dilemmi ed opportunità: la vittoria di Donald Trump e le sfide per la democrazia negli Stati Uniti, in Federalismi.it, 28/2024, iv, viii.

[2] C. Termyn, No Take Backs: Presidential Authority and Public Land Withdrawals, in 19(2) Sustainable Development Law & Policy 4, 7 (2019). In generale, sugli atti “normativi” adottati al di fuori del circuito congressuale negli Stati Uniti, si veda anche G. Caravale, Il governo legislatore. Esecutivo ed attività normativa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, Milano, Giuffrè Editore, 2004, 89-250.

[3] A. Baraggia, Executive Orders under Biden’s Administration, in DPCE online, Sp-3/2024, 57, 58.

[4] M. Stack, The Statutory President, in 90 Iowa Law Review 539, 546, 548 (2005).

[5] W. Hebe, Executive Orders and the Development of Presidential Power, in 17(4) Villanova Law Review 688, 694 (1972).

[6] Minnesota v. Mille Lacs Band of Chippewa Indians, 526 U.S. 172 (1999), ove si rileva che «The President's power, if any, to issue the order must stem either from an act of Congress or from the Constitution itself» (188-189).

[7] L. Bonifati, L’altra faccia degli executive orders di Trump: la “guerra ai dati” e i rischi per le future emergenze, in Federalismi.it, in corso di pubblicazione, 1, 4.

[8] Ibidem.

[9] A.A. Graber, Executive Orders: An Introduction, in Congressional Research Service, 29 marzo 2021, 1, 4-7.

[10] Per una ricostruzione storica relativa all’utilizzo degli ordini esecutivi presidenziali, cfr. W. Hebe, Executive Orders and the Development of Presidential Power, cit., 689-693.

[11] Executive Order n. 10925, Establishing the President's Committee on Equal Employment Opportunity, 6 marzo 1961.

[12] Executive Order n. 11246, Equal Employment Opportunity, 28 settembre 1965.

[13] J.M. Beermann, Presidential Power in Transitions, in 83 Boston University Law Review 947, 994-995 (2003).

[14] A. Baraggia, Executive Orders under Biden’s Administration, cit., 58, 61-64.

[15] Dobbs v. Jackson Women's Health Organization, 597 U.S. 215 (2022).

[16] Il dato è aggiornato al 16 giugno 2025.

[17] Sul punto, in R.B. Cash, Presidential Power: Use and Enforcement of Executive Orders, in 39 Notre Dame Law Review 44 (1963), si dà atto che, prima della creazione del Federal Register, «the state of executive orders was one of chaos» (46).

[18] A conferma dell’utilizzo “massiccio” degli executive orders da parte del Presidente Trump, si segnala che il medesimo giorno ne sono stati adottati altri sei: Executive Order n. 14277, Advancing Artificial Intelligence Education for American Youth; Executive Order n. 14278, Preparing Americans for High-Paying Skilled Trade Jobs of the Future; Executive Order n. 14280, Reinstating Commonsense School Discipline Policies; Executive Order n. 14281, Restoring Equality of Opportunity and Meritocracy; Executive Order n. 14282, Transparency Regarding Foreign Influence at American Universities; Executive Order n. 14283, White House Initiative to Promote Excellence and Innovation at Historically Black Colleges and Universities.  

[19] Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College, 600 U.S. 181 (2023).

[20] Al riguardo, tra le molteplici, si richiamano la decisione Grutter v. Bollinger, 539 U.S. 306 (2003), che ha giudicato costituzionalmente legittimo il programma di ammissione dell’Università del Michigan, che individuava nella razza uno dei tanti fattori da prendere in considerazione nella scelta dei futuri studenti; e la sentenza Fisher v. University of Texas at Austin, 579 U.S. 365 (2016), che ritenne costituzionalmente valido il meccanismo di accesso all’Università del Texas, nella parte in cui prevedeva che uno quota del corpo studentesco, pari al 25%, fosse individuata attraverso la predisposizione di una graduatoria, al cui punteggio concorrevano una serie di fattori, tra cui l’elemento razziale.

[21] Per un approfondimento sull’origine delle azioni positive nell’ordinamento costituzionale statunitense, si veda M. Caielli, Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo, Napoli, Jovene Editore, 2008, 75-88.

[22] Plessy v. Ferguson, 163 U.S, 537 (1996), ove il Justice Harlan affermò il celebre principio, secondo cui «Our Constitution is color-blind, and neither knows nor tolerates classes among citizens» (559). Come noto, tale idea fu successivamente posta a fondamento dell’opinione di maggioranza in Brown v. Board of Education, 347 U.S. 483 (1954), che dichiarò incostituzionale il regime della segregazione razziale ed il principio separate but equal.

[23] Sui rischi che si celano dietro l’ideologia meritocratica, si veda A. Di Martino, Accesso all’università e aporie dell’eguaglianza alla luce di due recenti pronunce statunitensi. Un’introduzione, in Rivista di Diritti Comparati, 0/2024, 61, 77-86. 

23/06/2025
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