Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

I “guardiani del potere”: nel senso che lo limitano o che ne tutelano l’espansione?

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

A margine della pronuncia della Corte Suprema Usa Trump v. CASA

1. Trump v. CASA

Venerdì 27 giugno la Corte Suprema americana ha chiuso la sessione di lavoro prima della sospensione estiva con una decisione emergenziale –ossia con uno di quei provvedimenti, che rientrano nel così detto “emergency (o shadow) docket”, con i quali interviene interlocutoriamente in via d’urgenza su casi che restano aperti nel merito presso le corti inferiori- che non le consentirà di fare troppa vacanza. Il contenzioso, che a causa di quella pronuncia rischia di aprirsi, è infatti tale da impegnarla anche durante i mesi estivi, tradizionalmente dedicati al riposo[1].

Si tratta del caso Trump v. CASA[2] che, proprio per l’importanza della questione decisa, a differenza delle altre pronunce d’emergenza -in genere non motivate, spesso neppure firmate e prodotte in assenza di discussioni orali in aula- ha fatto seguito a un’udienza speciale tenutasi nel mese di maggio e consiste di ben 100 pagine di opinioni in cui tutti e 9 i giudici hanno preso posizione.

La decisione, per quanto emergenziale, è infatti di grandissimo impatto, non tanto per la questione di merito da cui prende le mosse, quanto perché -escludendo in via generale la possibilità per le corti federali inferiori di emanare ordini validi nei confronti di tutti su tutto il territorio nazionale (universal injunctions), capaci di bloccare l’esecutivo quando reputano prima facie illegittime le sue azioni- rende assai più difficile ostacolare simili misure. E quando -come nel caso dell’attuale presidente- quelle azioni si susseguono a ritmo incessante, se neppure alle corti è più dato intervenire, il problema dei limiti al suo operato –in nessun modo oggi intralciato dal Congresso- si pone con forza.

In Trump v. CASA la questione che si è presentata riguardava l’ordine di sospensione a livello nazionale dell’executive order presidenziale di febbraio con il quale Trump aveva escluso – in pieno contrasto con la lettera del XIV emendamento della costituzione federale- che i nati sul territorio americano potessero acquisire la cittadinanza nazionale qualora non risultassero figli di almeno un/a americano/a o residente permanente. Adite tanto dagli Attorney General di 22 Stati, quanto da singoli individui, quanto infine da alcune organizzazioni, tre corti federali di distretto -reputando altamente probabile che l’ordine esecutivo presidenziale fosse incostituzionale- ne bloccavano immediatamente l’applicazione su tutto il territorio nazionale e nei confronti di tutti, né le corti d’appello adite dall’amministrazione Trump accoglievano la richiesta di revocare l’ordine di sospensione.  

La Corte Suprema federale interviene, quindi, non per decidere sul tema della costituzionalità dell’ordine esecutivo che cancella lo ius soli, bensì per dirimere la questione -da tempo controversa- relativa alla possibilità per i giudici inferiori di emanare ordini di sospensione dell’applicazione di normative (ritenute illegittime) con efficacia erga omnes, la cui portata va cioè al di là delle parti in causa.  

 

2. Imperialismo presidenziale o del giudiziario? 

Come ricorda anche Amy Coney Barrett nella sua opinione redatta per i 6 giudici della maggioranza, l’emissione di ingiunzioni che si estendono oltre i soli ricorrenti -la cui pratica, sconosciuta prima del XX secolo, si è accentuata a partire dall’inizio di questo millennio- era diventata oggetto di un’ondata crescente di commenti critici, provenienti anche da membri del Congresso e giudici della Corte Suprema[3]. I critici di queste ingiunzioni “universali” – la cui interpretazione è stata oggi accolta dalla Corte Suprema- sostengono, infatti, che esse eccedano i poteri conferiti alle corti di giustizia dall’Articolo III della Costituzione, il quale autorizza a decidere su «controversie [...] in equità». Un simile auto attribuito potere da parte dei giudici darebbe vita, secondo questa impostazione, a un “giudiziario imperiale” capace di bloccare l’attività esecutiva del governo in maniera abusiva. 

In effetti, con l’ascesa delle ingiunzioni universali -in particolare dal 2015 in poi- le corti di distretto federali sono intervenute per bloccare parecchie iniziative presidenziali: dall’espansione del programma DACA voluto dal presidente Barack Obama (che ha protetto migliaia di giovani immigrati dalla deportazione), al travel ban  imposto dal presidente Trump; dal piano di condono dei prestiti studenteschi del presidente Joe Biden, all’ordine di Trump che pretende di revocare il diritto di cittadinanza per nascita.

Si sarebbe in questo senso verificato un cambiamento verso un nuovo modello di interazione tra il potere giudiziario e quello esecutivo, caratterizzato da un’invasione di sfera del primo rispetto al secondo. Con le ingiunzioni universali i rimedi del giudiziario appaiono, infatti, più ampi e più rapidi, il numero di processi destinati a occuparsi del tema da risolvere inferiore e il tempo dedicato all’istruttoria e alle discussioni orali minore. La pratica delle “universal injunctions” ha poi, soprattutto, portato a un forte ricorso al forum shopping, cioè alla ricerca strategica di giudici favorevoli, laddove i ricorrenti scelgono un certo giudice in base alle aspettative in ordine a come egli si pronuncerà.

A fronte di un possibile “giudiziario imperiale”, la cui minaccia la Corte Suprema ha oggi voluto disinnescare, sta però la preoccupazione che le ingiunzioni che bloccano solo per le parti in causa l’applicazione di normative in fumus di illegittimità soprattutto se costituzionale, come nel caso della cittadinanza a monte di questo caso, non siano in grado di tutelare i diritti fondamentali di tutti. In ipotesi, come quella odierna, di profluvio di executive orders in odore di illegittimità, il grave rischio diventa, infatti, di vivere una situazione di “esecutivo o presidenzialismo imperiale”. Sono questi i due opposti punti di vista manifestati da Amy Coney Barrett, per la maggioranza, da un canto e soprattutto da Ketanji Brown Jackson in dissenso, dall’altra.

 

3. La Corte Suprema federale fra diritto e politica 

Il tema vero sembra essere, allora, non tanto la questione in sé – affrontata in astratto, come fa la maggioranza per la penna della Barrett- della legittimità o meno delle ingiunzioni universali in forza di un’interpretazione o un’altra della lettera della Costituzione, quanto il momento in cui la questione – per via della discrezionalità di cui essa com’è noto gode- è stata presa in considerazione dalla Corte.

Mai come oggi il presidente si vuole libero da ogni vincolo nel porre in essere le politiche che più gli aggradano, usurpando poteri non suoi (si pensi allo smantellamento unilaterale di agenzie che il parlamento aveva stabilito dovessero esistere per legge, al licenziamento di funzionari pubblici in violazione dei limiti previsti da leggi del parlamento o al rifiuto di spendere fondi che i legislatori avevano autorizzato e stanziato) senza opposizione né da parte del Congresso -che egli domina- né della Corte Suprema a maggioranza conservatrice -di cui lui stesso ha nominato 3 membri (fra cui proprio la Barrett). 

La decisione presa dalla maggioranza conservatrice della Corte Suprema arriva, poi, in un momento in cui anche altri tradizionali vincoli al potere del presidente si sono indeboliti. L’amministrazione Trump ha per esempio travolto i meccanismi di controllo interni all’esecutivo, licenziando gli ispettori generali oppure mettendo da parte l’Ufficio del Consulente Legale del Dipartimento di Giustizia, che tipicamente stabiliva i limiti per le politiche e gli ordini esecutivi proposti. 

E’ in questo quadro che va valutata tanto la decisione di decidere quanto la soluzione offerta in Trump v. CASE in relazione al connesso dilemma se e in che misura un “imperialismo” giudiziario, piuttosto che presidenziale, sia da temere e a quale dei due vada posto rimedio. In un momento in cui sono state finora solo le corti federali di grado inferiore a cercare di porre un limite alle sfrenatezze di un presidente - che nei primi 100 giorni ha emanato ben 143 executive orders, contro i 42 di Biden e i 19 di Barack Obama nello stesso periodo, e a cui l’attuale Corte Suprema l’anno scorso ha concesso l’immunità per i fatti di reato commessi nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali[4] e in questa sessione ha dato ragione nella stragrande maggioranza dei casi- una decisione che cancella la possibilità per quelle corti di bloccare ad ampio spettro gli eccessi di Trump, riservando quella prerogativa solo a se stessa, appare più politica che tecnica. Altre volte la stessa Corte ha, infatti, avuto l’opportunità di decidere sulla questione delle ingiunzioni universali ed ha rifiutato di farlo, lasciando le cose come stavano: da ultimo durante il mandato di Joe Biden, che glielo aveva espressamente domandato.

E’ difficile, allora, sfuggire alla conclusione che dietro al tecnicismo della decisione si nasconda la volontà di una maggioranza -con una visione ampia dei poteri dell’esecutivo - nominata da presidenti repubblicani, di concedere la massima libertà d’azione a un presidente repubblicano; in questo caso, proprio al presidente repubblicano che ha garantito loro la super-maggioranza.

Il pericolo di una pronuncia come Trump v. CASA è dunque non solo che i diritti fondamentali possano -anche se solo temporaneamente, pur tuttavia a volte irreversibilmente- essere negati a chi ha meno mezzi per far valere le proprie ragioni di fronte al giudiziario. Si pensi, nel caso di specie, a coloro che vivono nei 28 Stati in cui l’Attorney General statale non ha chiesto a un giudice federale di bloccare la normativa che cancella lo ius soli. Siccome la sospensione di quell’executive order vale ora solo per le parti in causa, chi voglia far rispettare il diritto costituzionalmente garantito di cittadinanza del nuovo nato dovrà adire una corte di distretto, ciò che le potrebbe essere precluso dai costi in cui dovrebbe incorrere, con quel che ne consegue per esempio in termini di possibili deportazioni per il bambino. Sul punto la Jackson, nella sua veemente dissenting opinion è stata chiara: «I ricchi e le persone ben collegate avranno poche difficoltà a ottenere rappresentanza legale, ad andare in tribunale e a ottenere misure inibitorie a proprio favore se l’esecutivo viola i loro diritti. Di conseguenza, la zona di illegalità che la maggioranza ha ora autorizzato colpirà in modo sproporzionato i poveri, i non istruiti e gli impopolari — cioè coloro che potrebbero non avere i mezzi per permettersi un avvocato, e che troppo spesso si troveranno alla mercé dei capricci dell’esecutivo». Su questa stessa linea Sonia Sotomayor -che in segno di forte critica della decisione della maggioranza conservatrice ha voluto leggere pubblicamente una parte della sua dissenting opinion (condivisa peraltro dalle due colleghe della minoranza progressista) ha espresso l’opinione che l’amministrazione Trump, sapendo di non poter ottenere una decisione che dichiari costituzionale il suo ordine, stia mettendo in atto un gioco subdolo: applicare l’ordine al maggior numero possibile di persone che non faranno ricorso in tribunale. «È vergognoso», ha commentato, «che questa Corte si presti a un simile gioco». 

Il pericolo della decisione che qui si commenta è, poi, anche e soprattutto che il diritto diventi terreno di puro scontro politico, in un contesto in cui la maggioranza conservatrice della Corte Suprema sembra assecondare la linea della nuova amministrazione, secondo cui le normative in contrasto con le politiche del presidente sono per ciò stesso illegittime. «Chi salva l’America, non può violare la legge» aveva detto Trump, cui aveva fatto eco J.D. Vance, scrivendo su X: «I giudici non sono autorizzati a controllare il potere legittimo dell'esecutivo».  Cosa sia legittimo e cosa no, sembra però essere determinato dal presidente stesso, con il benestare della Corte Suprema, che ha perfino permesso la deportazione di 8 stranieri in un paese terzo in guerra come il Sud-Sudan, senza che i deportati abbiano avuto modo di esprimere di fronte a un giudice le preoccupazioni per la propria incolumità. 

 

4. Corte Suprema federale v. corti federali inferiori 

Il contrasto fra Corte Suprema federale e corti inferiori non potrebbe essere più acuto, laddove la prima si impone con un atteggiamento verticistico sulle seconde che, uniche, tentano oggi di porre dei limiti agli eccessi presidenziali in un clima di pesante attacco politico nei loro confronti. «Le nostre Corti non mi lasciano fare il lavoro per il quale sono stato eletto» scrive, infatti, Trump su X quando esse cercano di ricondurlo all’interno della rule of law. Quel tentativo di contenimento del presidente all’interno della legalità si scontra, per di più, con il dichiarato -e già più volte messo in pratica- intento dell’amministrazione Trump di non rispettare le decisioni delle corti di giustizia o addirittura con la minaccia di processare per impeachment il giudice che osi tanto. La cattura del giudiziario da parte della partigianeria politica, in un nuovo quadro in cui i giudici nominati da Trump non sono più conservatori o progressisti, ma veri e propri fedelissimi del presidente, è da ultimo evidente con la nomina di Emil Bove III a giudice del terzo circuito di Corte di Appello federale (per molti in odore di ascendere a breve alla carica di Justice della Corte Suprema). Dopo essere stato uno dei principali avvocati difensori di Trump nei suoi processi federali e statali, non appena nominato da quest’ultimo a vicesegretario in carica alla giustizia, Bove si è subito trasformato in uno strumento della vendetta di Trump. Ha ordinato agli agenti dell’FBI di compilare elenchi di ufficiali coinvolti nelle indagini sull’attacco del 6 gennaio al Campidoglio. Ha licenziato i procuratori del Dipartimento di Giustizia assunti per i casi del 6 gennaio, non avendo alcuna prova di comportamenti scorretti. Ha ordinato ai pubblici ministeri del Distretto Meridionale di New York di ritirare le accuse contro il sindaco di New York, Eric Adams, apparentemente con il pretesto che perseguitarlo avrebbe potuto ostacolare l’agenda sull’immigrazione di Trump, scatenando una rivolta all’interno dello stesso Distretto. Soprattutto avrebbe incoraggiato il Dipartimento di Giustizia a mandare a quel paese le corti che ostacolavano -perché le ritenevano illegittime- le deportazioni dei migranti[5]. Annunciando la nomina di Bove, Trump ha scritto su Truth Social: farà «qualsiasi altra cosa che sarà necessaria per RENDERE DI NUOVO GRANDE L’AMERICA». 

I giudici federali inferiori, che resistono tanto agli attacchi del presidente e della sua amministrazione quanto alla nuova linea verticistica di una Corte Suprema di cui Bove potrebbe presto diventare parte, si stanno già attrezzando per far fronte alla decisione Trump v. CASA senza capitolare.

Quest’ultima permette ancora, infatti, in alcune particolari ipotesi l’uso di ingiunzioni ad ampio spettro nei confronti dell’azione governativa. E ciò quando l’attore si costituisca in class action, oppure quando si tratti di bloccare l’azione di una agenzia governativa regolata dall’Administrative Procedure Act e comunque in ogni caso in cui solo un ordine di non applicazione della normativa che vada oltre le parti possa garantire loro una tutela effettiva. Nei 30 giorni che separano l’ordine esecutivo che cancella lo ius soli dal momento stabilito dalla Corte Suprema per la sua entrata in vigore, in molti -parti e giudici- stanno esplorando le vie che già in relazione a questioni differenti sono state immediatamente praticate dalle Corti inferiori per aggirare il divieto posto da Trump v. CASA[6]

La lotta perché la rule of law non venga definitivamente messa nel cassetto continua, dunque, nonostante tutto. 

 


 
[1] Per un commento alla pronuncia cfr. altresì Riccardo De Vito, Lezioni americane: la giustizia, in Volere La Luna: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/07/02/lezioni-americane-la-giustizia/ 

[2] 606 U. S. ____ (2025), https://www.supremecourt.gov/opinions/24pdf/24a884_8n59.pdf

[3] Cfr. Mila Sohoni, The Lost History of The “Universal” Injunction, 133 Harvard Law Review 920 (2020).

[4] Per un approfondimento sul punto mi permetto di rinviare al mio Un diabolico circolo vizioso, https://www.questionegiustizia.it/articolo/trump-immunita

[5] Devlin Barrett, Justice Dept. Leader Suggested Violating Court Orders, Whistle-Blower Says, https://www.nytimes.com/2025/06/24/us/politics/justice-department-emil-bove-trump-deportations-reuveni.html  

[6] Cfr. Kyle Cheney e Hassan Ali Kanu, Judges are finding workarounds to Trump’s big Supreme Court win, https://www.politico.com/news/2025/07/03/supreme-court-nationwide-injunctions-rulings-00439335?utm_source=chatgpt.com 

11/07/2025
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