1. Al netto dell’approccio volutamente provocatorio del titolo, il tema della tutela della salute mentale -in generale, e in particolare nel corso dell’esecuzione penale- è da tempo al centro delle attenzioni di questa Rivista. Si tratta senza dubbio di un terreno che più di ogni altro testa la qualità e l’effettività del rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini in un segmento molto delicato. Uno dei misuratori più affidabili del grado di salute di un ordinamento.
Come è stato già osservato[1], le radici culturali del superamento degli OPG e dell’insieme degli interventi legislativi avviati con il D.L. 211/2011 (convertito nella L. n. 9/2011 e poi oggetto di interventi integrativi e correttivi nel 2012 e nel 2014) risalgono senza dubbio al pensiero basagliano. Nel desiderio di portare quel ragionamento all’interno del percorso che attraversa il diritto e l’esecuzione penale, l’Italia ha proseguito la spinta innovatrice finalizzata ad emancipare la salute mentale dalla logica essenzialmente custodiale che l’aveva caratterizzata (in linea con larga parte degli ordinamenti anche europei) nel passato. E’ con questo spirito che è stata varata la riforma che ha trovato avvio nel 2011.
Anche a volerlo fare, il bilancio di quell’intervento riformatore non è in discussione. Il sistema costruito attorno agli ospedali psichiatrici giudiziari era un “inferno” sotto tutti i profili ed il suo superamento un imperativo. Il materiale sul punto è vastissimo e per certi versi agghiacciante[2].
2. Ad oltre dieci anni dalla riforma del 2011/2014, però, è doveroso confrontarsi con le numerose criticità che quella riforma ha evidenziato, nel tentativo di correggere gli errori e le inadeguatezze che pure sono sotto gli occhi di quanti si sono impegnati per dare buone gambe al nuovo corso.
Da questo punto di vista, il confronto culturale fra studiosi e operatori del settore è stato a dir poco intenso, se non serrato. Non è mia aspirazione ripercorrerlo, se non per segnalare il ruolo importante che questa Rivista ha svolto su questo terreno in questi anni, agevolmente apprezzabile sol che si effettui una ricerca per argomento, anche nella sola versione online.
Vale la pena, però, ricordare le tappe salienti di questo percorso, nei limiti in cui ci aiutano a mettere a fuoco i temi in discussione e i problemi da risolvere. Che è ineludibile risolvere.
3. Un primo segmento logico e cronologico di discussione può essere individuato nel dibattito che ha caratterizzato l’esecuzione e la messa a punto del nuovo sistema varato con la citata riforma, fino all’effettivo superamento e chiusura degli OPG ancora presenti sul territorio nazionale. Quella parte del dibattito culturale ed operativo è stata giustamente concentrata sull’obiettivo di impedire che la riforma varata fosse affossata dalle più disparate spinte conservative e autoconservative che caratterizzavano questo settore. Si è cercato, cioè, di trovare tutti gli spazi interpretativi ed organizzativi capaci di dare funzionalità al nuovo sistema, evitando che esso si “incartasse” in un sostanziale “congelamento” del percorso di cambiamento, virando verso soluzioni nostalgiche o francamente proiettate a svuotarne lo spirito innovatore: percorso pieno di insidie[3].
Pur se caratterizzato da ottime intenzioni, tuttavia, il confronto e l’approfondimento che ha attraversato gli anni di prima applicazione della riforma non sembra aver saputo cogliere fino in fondo le fragilità ed i problemi che una riforma eccessivamente astratta aveva messo sul tappeto. Se le difficoltà operative hanno trovato origine anche in resistenze corporative e culturali, soprattutto nella fase iniziale, il progredire nel cammino di funzionamento concreto degli strumenti messi a disposizione ha evidenziato molteplici e importati inadeguatezze della trama normativa. Non è secondario segnalare, infatti, che ciò che si è rivelato carente non è stata la qualità sanitaria delle strutture realizzate, ma piuttosto la loro capacità di fronteggiare le esigenze giudiziarie che la natura della misura di sicurezza imponeva.
E’ sulla base di queste dinamiche culturali che si è arrivati alla questione di legittimità costituzionale di questa normativa, sollevata il 2 maggio 2020 dal GIP di Tivoli[4].
Può essere interessante ricordare il fertile e vivace dibattito che la questione sollevata dal Tribunale di Tivoli determinò in seno alla cultura giuridica e psichiatrica, di cui vi è ampia traccia in questa Rivista. Dibattito che ha avuto il merito di interrogarsi con una certa franchezza intorno ai molteplici problemi operativi e concreti, evidenziati nell’ordinanza di rimessione e che è durato ben oltre i due anni, prima di essere superato dal contenuto della decisione della Corte costituzionale[5].
4. A quasi quattro anni dalla sentenza n. 22/2022 della Corte costituzionale, che ha constatato e verbalizzato una indiscutibile torsione di molteplici principi costituzionali ed ha invitato il Legislatore a intervenire con urgenza per rendere la normativa sulle REMS effettivamente funzionale e compatibile con alcuni canoni costituzionali, ancora nulla di concreto è accaduto.
Non può dirsi che il dibattito interno agli addetti ai lavori sia mancato e questa rivista né è testimone, avendo ospitato numerose riflessioni autorevoli sull’argomento, anche successive alla citata sentenza. Esso, tuttavia, non sembra aver avuto la capacità di affrancarsi dall’approccio piuttosto astratto che lo ha già attraversato nel corso degli anni che hanno preceduto la tormentata decisione della Corte costituzionale. In ogni caso, il dibattito culturale non ha -sinora- saputo ancora indicare una strada da percorrere.
Per un bilancio ed una valutazione di prospettiva, è giusto ricordare che la Corte, pur a fronte di una decisione di inammissibilità, ha riscontrato quello che ha espressamente definito come «un difetto sistemico di effettività nella tutela dell’intero fascio dei diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare».
Vale la pena, ancora, ricordare che la decisione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza citata è arrivata all’esito di una complessa e piuttosto inedita istruttoria, effettuata con l’ordinanza n. 131/2021, la cui rilettura -che non riproporrò- aiuta a comprendere il livello di confusione nel quale versavano quanti operavano sul tema. L’ordinanza, oltre a sottolineare l’interesse e l’approfondimento che la Corte volle mettere sull’argomento, avendone chiarissima la delicatezza, è rivelatrice anche di un altro triste profilo che caratterizzava questo segmento della vita pubblica: l’assenza di un quadro normativo lineare, di un progetto organizzativo e informativo unitario, di una visione d’insieme del concreto funzionamento di un meccanismo costruito in modo superficiale e confuso fra più livelli normativi, provvedimenti amministrativi diversificati, sistemi sanitari differenti, radicale assenza di informazioni centralizzate (non di rado di informazioni tout court), al punto da risultare ignoti e inconoscibili -anche agli operatori- persino i termini essenziali della questione: il numero e la collocazione delle REMS, il numero dei posti astrattamente disponibili, il numero dei posti effettivamente occupati (tanto in senso complessivo, quanto in relazione a ciascuna struttura), il numero delle persone raggiunte da un ordine di internamento dell’Autorità Giudiziaria ed in lista di attesa (anche qui, tanto a livello regionale quanto a livello nazionale), i titoli di reato che avevano giustificato l’ordine di internamento, quante, fra le persone in attesa di internamento, si trovavano detenute in attesa della collocazione, quante in libertà vigilata, quante attendevano l’internamento dalla condizione di libertà o presso strutture sanitarie di vario genere (essenzialmente SPDC). L’ordinanza evidenziava una radicale assenza di chiarezza financo sulle competenze di ciascun protagonista istituzionale nell’attuazione dell’ordine di internamento. Uno spaccato che credo fosse giusto definire sconfortante.
All’esito di questa istruttoria la Corte faticosamente ricostruì un incerto quadro d’insieme, constatando senza mezzi termini l’evidente tensione di questa normativa rispetto a taluni canoni costituzionali cardinali, sia pure senza dichiararne l’incostituzionalità per comprensibili ed apprezzabili ragioni di opportunità: la tessitura normativa della questione è così delicata e complessa che un intervento abrogativo sarebbe risultato dirompente e assai verosimilmente privo di un risultato idoneo, con sullo sfondo il rischio di ripristinare proprio l’inferno che la legge aveva inteso lasciarsi alle spalle: gli OPG. Quindi la Corte rinviò al Legislatore l’incarico di sanare i contrasti con la Costituzione segnalati nella sentenza.
Una decisione saggia e prudente, che però non credo potrà essere elusa.
Lasciamo -almeno un momento- da parte l’individuazione del perimetro d’illegittimità costituzionale rilevata dalla Corte, operazione sulla quale esistono talune divergenze di vedute, non sempre disinteressate, ma a mio giudizio serenamente risolvibili con un po’ di concretezza e di approfondimento.
Concentriamoci, invece, su ciò che è concretamente seguito a questo forte monito della Corte costituzionale.
5. Ad oramai quasi quattro anni dalla decisione (la sentenza è del dicembre 2021, depositata a gennaio 2022) nulla di concreto è accaduto. O per meglio dire, vi sono state senza dubbio diverse iniziative operative per cercare di individuare le soluzioni necessarie ed un ampio dibattito culturale intorno alla direzione verso cui indirizzare l’intervento. Ma finora senza risultati concreti.
Sarebbe impossibile ripercorrere -nell’ambito di un breve intervento- le molteplici riflessioni e talvolta le polemiche che hanno attraversato ed attraversano tuttora la cultura del circuito giuridico e sanitario su questo tema. Giustizia, psichiatria e sanità si confrontano costantemente su questo terreno, non sempre comprendendosi[6].
Da magistrato, nell’esaminare lo stato dell’arte successivo alla messa in mora della Corte mi viene naturale partire dalle riflessioni ed indicazioni prodotte dall’organo di autogoverno della magistratura, che già nel passato era stato un punto di riferimento importante sul piano istituzionale e culturale nel tentare di tracciare una strada applicativa della riforma, che ne consentisse il funzionamento senza tradirne lo spirito.
All’esito di una ricognizione e di una riflessione specifica, effettuata dalla commissione ad hoc, il CSM ha approvato la delibera del 22 gennaio 2025, agevolmente reperibile in rete, sebbene oggetto di diversi bilanci critici.
Considerato il tempo trascorso dalla messa in mora della Corte, il Consiglio ha ritenuto necessario aggiornare ed arricchire le informazioni sulle attuali criticità di questi importanti strumenti di tutela della salute mentale, anche effettuando audizioni mirate nell’ambito delle due principali istituzioni coinvolte su questo terreno: il Ministero della Giustizia e quello della Salute.
Ciò al fine innanzitutto di comprendere se il monito ricevuto avesse almeno avviato -in seno agli stakeholder coinvolti- un corso differente nelle relazioni ed avesse creato le premesse per un miglioramento nell’utilizzazione di questo prezioso strumento, per poi individuare le iniziative necessarie al superamento delle criticità indicate nella sentenza della Corte o almeno la strada necessaria da seguire in questa direzione.
In particolare, il CSM ha ascoltato il vertice dell’Amministrazione Penitenziaria coinvolta, cioè il capo del DAP, nonché il capo ed il vice-capo di Gabinetto del Ministro della salute e il Vicepresidente del Tavolo Tecnico sulla salute mentale. Credo si possa concordare che si tratti dei soggetti qualificati per mettere a fuoco i problemi e segnalare la strada per risolverli, sebbene si noti l’assenza dell’accademia.
Lo spaccato che ne è emerso non è stato incoraggiante e tuttavia ha consentito al CSM di formulare alcune riflessioni, indicare talune iniziative da intraprendere o quanto meno la direzione verso cui dirigersi.
Innanzitutto, è emerso che assai scarsi passi avanti sono stati fatti sul piano della pervietà del flusso di comunicazioni necessario ad un costante aggiornamento e monitoraggio dei dati: anche utilizzando i buoni uffici di AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) le informazioni rilevanti risultano sostanzialmente «inespugnabili» -per usare un’espressione utilizzata dal capo del DAP, dr. Russo -: le Regioni non comunicano al DAP i dati relativi all’occupazione dei posti letto nelle REMS; ciò sia in quanto -incomprensibilmente - ritengono “riservato” questo dato, anche rispetto all’amministrazione che è costituzionalmente preposta all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia ed alla cui catena -in definitiva- fa capo l’ordine di internamento che solo giustifica e consente la collocazione in queste strutture; sia in quanto ritenuto un dato irrilevante, dal momento che la scopertura dei posti-letto astrattamente disponibili resta un elemento assai distante dalla concreta utilizzabilità dei medesimi, a causa di una serie di fragilità e di variabili legate essenzialmente alla radicale mancanza di disponibilità del personale sanitario a lavorare in queste strutture: in soldoni nessuno vuole lavorare in quelle condizioni. Questo significa anche che il semplice aumento dei posti non è - di per sé - la soluzione del problema, ci sono anche -e, verrebbe da dire, prima- altri problemi a cui trovare soluzioni.
Fra l’altro, è emerso che il Ministero della Salute reputa che attualmente siano internati in REMS almeno 180 soggetti psichiatrici sostanzialmente incurabili, che andrebbero espunti dal circuito sanitario per entrare in quello penitenziario. Ma è emerso anche che a fronte di circa 700 soggetti in attesa di essere internati in REMS a seguito dell’ordine dell’A.G., poco meno di 40 attendono questo passaggio dal carcere, mentre gli altri sono sottoposti a libertà vigilata o addirittura a nessun tipo di restrizione o obbligo[7]. Non voglio drammatizzare, ma è difficile non pensare che è in questi due perimetri che hanno trovato spazio i numerosi, tragici, episodi di cronaca recenti.
In sostanza, il fabbisogno di posti effettivi complessivi in REMS è stato stimato in una cifra compresa fra i 1200 e i 1400, a fronte di un’attuale effettività di posti difficilmente determinabile con precisione, ma compresa verosimilmente fra i 600 e i 700.
L’indagine ha evidenziato anche diverse e apprezzabili best practices, costruite attorno ad un buon legame con la rete sanitaria territoriale in vista di soluzioni di vario genere, fra le quali è emersa -non unica- l’esperienza veneta.
L’indagine ha segnalato anche l’esigenza che - a fronte di attese così straordinariamente prolungate per l’ingresso in REMS - vi fosse la possibilità di riesaminare, nel corso del tempo che precede l’ingresso, la permanenza dell’attualità assoluta della scelta di internamento, anche se da magistrato non posso fare a meno di osservare che questa sollecitazione, per molti aspetti razionale e comprensibile, finisce col chiedere ad un segmento già allo stremo -come quello della giustizia- di richinarsi ripetutamente su cose già invano esaminate, sol perché rimaste inattuate e ciò se da un lato appare logico o necessario (è inconcepibile internare qualcuno che è stato ritenuto pericoloso due anni prima) dall’altro aumenta la clamorosa inutilità di un’amministrazione che oramai pesta l’acqua nel mortaio e che è frustrata quanto o più di quella sanitaria. Gli esempi sarebbero innumerevoli.
Non è secondario segnalare che le informazioni rese dal circuito facente capo al Ministero della Salute non sono state affatto incoraggianti. Stimato in 1200 il fabbisogno di posti visto dal punto di vista di questa articolazione ministeriale (a fronte dei circa 1400 individuati dal Ministero della giustizia), il clamoroso scollamento rispetto al numero effettivamente disponibile non appare neppure il problema più grave. Vengono, in particolare, sottolineate serie problematiche di sicurezza, notoriamente all’origine non solo di gravi episodi violenti, ma anche della fuga del personale medico ed infermieristico da questo segmento sanitario: non si riesce in nessun modo a coprire i posti. E’ emerso, poi, che gli attuali costi di gestione delle REMS risultano in misura largamente prevalente riconducibili ai costi della vigilanza e non al costo -pur teoricamente consistente, perché molto qualificato- del personale sanitario impiegato. Questo dato appare clamoroso, tanto più a fronte di una vigilanza che, essendo privata, non riesce comunque ad apportare il coefficiente di sicurezza necessario. Quando questa struttura sanitaria -pensata per il folle reo- incoccia in un soggetto socialmente pericoloso o essenzialmente antisociale, che magari è semplicemente riuscito ad ottenere una superficiale valutazione di non imputabilità, entra in un loop che ne affonda il funzionamento anche per tutti gli altri pazienti ed espone a rischi consistenti l’intera tenuta del sistema. A questo proposito, come già accennato, l’articolazione sanitaria ha segnalato problematiche -peraltro agevolmente constatabili, con sfumature e angolazioni magari differenti, anche dal versante giudiziario- legate alla consistenza di un segmento nosografico peculiare, prevalentemente “antisociale” e scarsamente sensibile all’approccio terapeutico che finisce col risultare fuori contesto rispetto al presente assetto di queste strutture. Fuori contesto e al contempo capace di metterne in crisi il funzionamento e la sicurezza.
L’istruttoria svolta dal CSM ha evidenziato altresì la prospettiva di istituire tre centri ciascuno con 80 posti, denominati UVAP, inevitabilmente sottratti al principio di territorialità (nord, centro e sud), la cui sicurezza dovrebbe essere affidata alla polizia penitenziaria, destinatari dell’invio del soggetto a cura del magistrato, con il compito di fare una sorta di cabina di regia della direzione assistenziale e prognostica del soggetto.
Tirando le file dell’istruttoria svolta, il CSM ha indirizzato alla cultura giuridica e psichiatrica, al Legislatore e all’attenzione di quanti contribuiscono alla realizzazione delle condizioni di effettività della tutela della salute e della sicurezza pubblica in questo segmento alcune possibili direzioni di intervento ed in particolare:
1) l’implementazione dei posti disponibili nella misura di circa 700 ulteriori unità da individuarsi con una prospettiva tendenzialmente territoriale;
2) la costituzione di un osservatorio permanente per il monitoraggio dei dati e della situazione, con la realizzazione di un vero e proprio “albo dei periti” abilitati ad operare presso le strutture giudiziarie in vista di valutazioni inerenti alla capacità di intendere e di volere, circa le cure necessarie e circa la pericolosità sociale del soggetto, dotati di un buona conoscenza dei meccanismi organizzativi territoriali in vista della più operativa e pertinente prospettiva di cura del soggetto;
3) la realizzazione di meccanismi operativi interistituzionali fra magistratura e sanità, anche in vista di rivalutazioni costanti ed aggiornate dei profili di effettiva necessità dell’intervento e della sua natura;
4) un significativo potenziamento degli ATSM interni agli istituti di pena con la realizzazione di apposite sezioni specialistiche psichiatriche anche per soggetti tossicodipendenti con comorbilità;
5) l’individuazione di un circuito diversificato per pazienti stabilizzati o comunque idonei a seguire un percorso di riabilitazione psichiatrica funzionale ad un prossimo reinserimento sociale e soggetti maggiormente legati ad esigenze di contenimento e privi o con scarse esigenze terapeutiche;
6) una puntuale e costante ricognizione delle strutture psichiatriche presenti ed operative sul territorio con setting assistenziali diversificati;
7) un intervento legislativo capace di riconoscere al Ministro della Giustizia un ruolo compatibile con l’assetto costituzionale nella gestione del meccanismo che realizza un idoneo internamento nell’ambito della struttura sanitaria.
6. Orbene, dalla delibera CSM del 22 gennaio 2025 è trascorso quasi un altro anno. Non consta alcun evento o intervento operativo concreto ad essa successivo, pur se il tema (e la stessa delibera CSM) continua ad essere oggetto di dibattito e di critiche, non sempre riuscite.
Sembra, tuttavia, che l’idea dell’aumento dei posti e della realizzazione degli UVAP sia ancora oggi una strada percorribile e forse l’unica realmente sul tappeto, sebbene irta di ostacoli e di resistenze, non solo semplicemente economiche: l’ostacolo economico è molto consistente, ma non sembra quello meno superabile, che finisce con l’essere -soprattutto ed ancora oggi- politico o, se si preferisce, culturale.
Pur comprendendo le sollecitazioni critiche che taluni dei passaggi messi al centro della prospettiva proposta dal CSM possono sollecitare[8] - soprattutto se ci si concentra sulle scelte terminologiche piuttosto che sui contenuti- trovo piuttosto astratta buona parte dei rilievi diffusamente espressi intorno alla delibera del CSM[9].
A me sembra che il dibattito culturale fatichi a confrontarsi con la natura ancipite della misura di cui parliamo, caratterizzata innanzitutto da una finalità di cura, ma anche da una funzione coercitiva e di contenimento legata alla sua natura esplicitamente detentiva, che la Corte costituzionale ha comunque ribadito[10]. E’ questa natura ancipite che l’attuale assetto non è riuscito a inverare ed è questo che la Corte ha inteso mettere in evidenza, rilevando i problemi di costituzionalità della normativa, soprattutto sotto il duplice fronte della violazione della riserva assoluta di legge e delle competenze del Ministro della Giustizia.
Questa natura comporta alcune conseguenze che non possono essere ignorate. Innanzitutto, la materia necessita di essere disciplinata con legge e questa esigenza non è legata solo ai “casi”, ma anche ai “modi” in cui questa misura di sicurezza deve essere regolata, come si evince dal ricorrere del riferimento non solo all’art. 25, ma anche all’art. 13 Cost.. Si tratta, dunque, di una riserva di legge statale di tipo assoluto. Sotto questo profilo la disciplina disegnata dalla legge 211/2011 risulta non conforme a Costituzione e i profili incisi profondamente da questa lacuna sono molteplici e significativi.
In secondo luogo, la legge non considera che questa misura ricade a pieno titolo fra i servizi relativi alla giustizia, assegnati dalla Carta costituzionale alle cure del Ministro della Giustizia, come espressamente stabilito dall’art. 110 Cost.. Peraltro, unico Ministro le cui competenze hanno un presidio costituzionale.
Comprendo che questo tema è delicato e difficile da perimetrare. E condivido l’esigenza di equilibrio e di particolare attenzione per la tutela della salute che molti commentatori rimarcano. Per certi versi, tutela della salute mentale e custodia collidono puramente e semplicemente. Ma anche molti principi costituzionali collidono fra loro e trovano armonia solo nella coniugazione che ne fa la Corte, quando non la fa il Legislatore. Vissuto nella sua piena estensione, il principio contenuto nell’art. 110 Cost assegnerebbe al Ministro della Giustizia tutto l’assetto del funzionamento di questa misura di sicurezza, in ottemperanza ad un esplicito dettato costituzionale. Non si deve avallare interamente tale prospettiva, ma neppure si può ignorarla.
La natura “a doppia funzione” di questo istituto, collocata nell’ambito del ragionamento descritto dalla Corte - finalizzato a valorizzare senza timidezze il fondamento di tutela della salute che radica questa misura- consente ed anzi impone di coniugare le competenze del Ministero della Giustizia con quelle del Ministero della salute e del SSN, ma è un matrimonio inedito, tutto da inventare e di straordinaria difficoltà, rispetto al quale vi sono ancora oggi resistenze culturali e politiche assai difficili da superare. Matrimonio sinora irrealizzato. Solo un intervento normativo chiaro e dotato di estrema concretezza può ottenere questo risultato e la chiarezza e concretezza cozzano con le esigenze e le sfumature della politica, della cultura e delle professioni.
Sarebbe un errore dimenticare che la Corte costituzionale non ha rinunciato ad affermare esplicitamente che per loro natura questo genere di provvedimenti devono essere eseguiti immediatamente. Mi permetto di aggiungere, di mio, che l’immediata eseguibilità dei provvedimenti che dispongono le REMS è anche uno dei più efficaci presupposti per il miglior funzionamento degli strumenti di carattere non detentivo, che sono l’altro versante della medaglia, e quindi per la libertà vigilata: l’effettività della prospettiva di aggravamento di una misura che ha natura non detentiva contribuisce sensibilmente al rispetto delle regole e delle cure, soprattutto rispetto a soggetti con disturbo di personalità o a doppia diagnosi o comunque non francamente o interamente “folli”, come sempre più spesso si vedono fra i protagonisti delle nostre pagine giudiziarie.
Ma anche a prescindere da questo profilo, sarebbe un errore dimenticare che un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione di questi provvedimenti «comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni», per usare le parole della Corte.
7. A me sembra che una strada esista, ma per percorrerla occorra liberarsi da eccessiva astrattezza e ideologia; essa, in linea di massima, ruota intorno al confine fra “interno” ed “esterno” di queste strutture.
Con una semplificazione brutale: l’interno delle REMS è indiscutibilmente assegnato a chi si occupa della cura e che deve avere il pieno ed esclusivo controllo di tutto ciò che è legato alla vita del paziente, sebbene con protocolli di comportamento che siano sufficientemente disciplinati sul piano normativo, secondo le indicazioni della Corte. E per interno si intende, ovviamente, tutto ciò che è cura, ivi compreso l’accesso al territorio ed alla dimensione extramuraria quale parte del percorso di cura.
Con la corrispondente semplificazione brutale, l’esterno è assegnato alla catena della sicurezza ed esso si arresta solo sulla soglia della struttura, con la consegna del paziente e con la tutela permanente della sicurezza esterna all’edificio, a meno di richiesta di intervento per eventi violenti incoercibili senza la forza pubblica.
Se è vero che indietro non si deve tornare e che la soluzione di questo deficit di tutela non può essere quella della assegnazione in sovrannumero delle persone in lista di attesa per entrare nelle REMS, è altrettanto vero che non può essere neppure quella di lasciare in libera circolazione soggetti raggiunti da un provvedimento di carattere detentivo o di tenere in carcere soggetti che necessitano di cure.
La realizzazione degli UVAP potrebbe essere una via d’uscita decorosa, se adeguatamente realizzata. Se ne vogliono immaginare altre? Ben venga ogni riflessione propositiva adeguatamente argomentata, purché funzionale alla soluzione dei problemi evidenziati dalla Corte. E purché non si trascuri di adattare le soluzioni ai problemi e non i problemi alle soluzioni.
In definitiva, mi pare che restino sul tappeto due punti fermi: 1) non può esserci uno iato temporale consistente fra l’ordine detentivo e l’effettivo internamento; 2) la tipologia delle strutture di internamento e le modalità di esecuzione hanno bisogno di qualche forma di adeguamento ad esigenze di pericolosità che sono diversificate e che possono essere decisamente elevate.
L’unica alternativa percorribile è quella di abrogare definitivamente un istituto di natura propriamente detentiva, virando verso prospettive puramente interne al circuito sanitario[11].
Nonostante molti segnali indichino che un buon lavoro organizzativo e di raccordo, sensibilizzazione e dialogo fra gli stakeholders coinvolti possa elevare in misura significativa l’efficienza del sistema, deve ritenersi oramai dimostrato che la funzionalità del sistema non possa essere ottenuta solo con questi strumenti. Peraltro, la Corte ha detto esplicitamente che in questa situazione e con questo impianto normativo non si può continuare.
Il dibattito della cultura giuridica e psichiatrica di questi ultimi anni, nel cimentarsi con le indicazioni da fornire rispetto alla strada necessaria per dare risposta alle questioni poste sul tappeto dalla Corte costituzionale (ma prima ancora dall’esperienza di quanti operano sul campo), ha preferito confrontarsi con tutto ciò che non si deve fare per non tradire lo spirito della riforma del 2011 e del 2014 e per non tornare indietro agli OPG. Ebbene, da tempo è venuto il momento di uscire da questa prospettiva, finché ancora è possibile. Se non usciamo rapidamente dalla rassicurante prospettiva di indicare solo i pericoli e non le soluzioni, a furia di indicare solo ciò che non si deve fare si finirà per favorire proprio ciò che si afferma di temere più di tutto. Certamente questo tema va approcciato con umanità e rispetto dei diritti, ma con altrettanta certezza non si presta efficacemente ad una visione astratta.
[1] Per una sintetica, ma efficace, ricostruzione del percorso culturale che ha aperto la strada all’approccio legislativo innovativo che caratterizza oggi il nostro ordinamento: Gianluca Monacelli, Jennifer Williams e Giuseppina Gabriele su QG online del 21/2/24, Nuove riforme, vecchi stereotipi.
[2] Illuminante la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta varata nella XVI legislatura.
[3] Per una sommaria, ma pertinente, rassegna di alcune difficoltà: Sabrina Bosi e Francesco Maisto, Questioni attuali dopo la chiusura degli Opg, QG online del 16/3/17.
[4] L’ordinanza fu pubblicata su QG online del 2/6/20 - accompagnata da una riflessione di chi scrive - e diede l’avvio ad un vivace dibattito che accompagnò il consistente periodo di gestazione della decisione della Corte.
[5] Intervennero sul tema, oltre il sottoscritto: Emilio Lupo, Liberare e liberarsi dalle Rems, QG online del 9/9/20; Giuseppe Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, QG online del 4/2/21; Antonella Massaro Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta esecutiva, QG online del 13/5/21.
[6] Sempre su QG online del 22/2/23, si veda Pietro Pellegrini, Lettera di uno psichiatra, convitato di pietra nel dibattito sulle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza”.
[7] Giova precisare che i dati raccolti dal CSM nel corso delle audizioni risalgono tutti quanto meno alla prima metà del 2024.
[8] Ad avviso di chi scrive, nella delibera è mancato soprattutto un orizzonte meno contingente, legato ad un approfondimento dei profili giuridici e costituzionali, che in teoria avrebbero potuto essere svolti nella sede più squisitamente assembleare.
[9] Si veda il documento del Centro di ricerca in Diritto penitenziario e Costituzione – European Penological Center, Le criticità delle REMS nella relazione della Commissione mista presso il CSM: prove tecniche di controriforma?, su QG online del 24/3/25. Ma anche Riconoscere al Ministro della Giustizia la gestione delle REMS? Le discutibili proposte del CSM e il diritto alla salute dei detenuti e internati, di Francesco Schiaffo, su QG online del 19/5/25.
[10] Sulla natura detentiva di questa misura si è espressa, senza incertezze o smagliature, anche la Corte di cassazione: Sez. IV, n. 28369 del 23.6.22, Rv 283663.
[11] In realtà, l’alternativa più interessante -non solo ad avviso di chi scrive- sarebbe quella di rivedere complessivamente il sistema dell’imputabilità penale e delle sue conseguenze, anche in vista dell’eliminazione di una distinzione di dubbia ragionevolezza quale quella fra infermità al momento del fatto ed infermità sopravvenuta, ma si tratta di un’alternativa evidentemente troppo ambiziosa per questa stagione del diritto penale.