1. Scelte tragiche. Quale bilanciamento tra autodeterminazione e vita?
Nel tempo in cui la tecnica tende ad impossessarsi della “nuda vita” dell’uomo non è più soltanto la classica tensione tra diritti di libertà e diritti sociali a investire il discorso sui diritti. Gli stessi diritti di libertà hanno perduto la loro “autoevidenza” ed “innocenza”, come testimonia emblematicamente la disputa sul fine vita. In questa contesa il meta-valore della dignità umana è spesso invocato in modo strumentale da fronti opposti, fino a diventare l’argomento degli argomenti – il “knockdown argument” – per predicare la legittimità del suicidio assistito in ogni circostanza o, all’opposto, per postularne il divieto assoluto[1].
La contesa in ordine alla legittimità giuridico e morale delle pratiche concernenti la regolazione del fine vita non appartiene esclusivamente alla nostra epoca. Gli interrogativi hanno, tuttavia, assunto un inedito rilievo pubblico e istituzionale, nel momento in cui la tecnologia biomedica ha consentito di espandere artificialmente processi biologici essenziali (la ventilazione, la nutrizione e l’idratazione). Le tecniche di sostegno vitale possono contribuire a salvare pazienti considerati in passato inguaribili ma, allo stesso tempo, protrarre indefinitamente condizioni di vita meramente vegetativa, fino a compromettere radicalmente la possibilità della persona di esprimere l’ultima scelta.
Il punto di partenza non può che essere il diritto fondamentale di rifiutare le cure, sancito dall’art. 32, comma 2, Cost., cui corrisponde il dovere del medico di sospendere la cura, anche quando ciò possa comportare conseguenze letali per il paziente[2]. Dal collegamento ermeneutico tra l’art. 32 e l’art. 13 Cost, che tutelerebbe anche la libertà morale della persona[3], si è ricavato un principio omnicomprensivo di autodeterminazione nelle scelte di vita[4]. Questo orientamento tende ad elevare l’autodeterminazione soggettiva a fondamento di una «nuova generazione di diritti fondamentali», che si affiancherebbe ai tradizionali diritti di libertà e diritti sociali, fino a farne la «regola di governo» di ogni decisione esistenziale attinente all’identità personale[5]: dalle decisioni che attengono alla sfera sessuale e riproduttiva alle scelte ultime sul fine vita che aspirano a proiettarsi anche oltre la capacità d’intendere e volere.
Nella sua declinazione radicale, questa dottrina finisce per teorizzare un vero e proprio «diritto di morire», come diritto «soggettivo» della persona che sarebbe «sovrana» sul proprio bios[6]. La vita finirebbe così per avere valore solo nella misura della «coscienza» di chi la vive, cosicché, se la vita è ritenuta priva di qualità adeguata, la scelta autonoma di privarsene dovrebbe prevalere e ogni ulteriore vincolo dovrebbe recedere sul piano giuridico.
Quest’impostazione è stata però criticata da un diverso orientamento che ha rimarcato le ragioni costituzionali che impediscono di collocare sullo stesso piano vita e salute: due beni giuridici qualitativamente diversi e incomparabili. Il diritto alla salute, diritto sociale e insieme libertà negativa, può essere esercitato anche in senso oppositivo, al fine di non subire indebite intrusioni sul proprio corpo (nei limiti di specifici obblighi stabiliti per legge). Il diritto alla vita, costituendo il presupposto logico ed ontologico di ogni libertà, non comprende, invece, anche il suo lato negativo. Ad analoghe conclusioni è pervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo che sulle questioni del fine vita valorizza un ampio margine di apprezzamento degli Stati nazionali, in considerazione dell’assenza di un consenso diffuso in tema di assistenza al suicidio[7].
D’altro canto, deve essere salvaguardato il postulato per cui la titolarità di un diritto soggettivo presuppone che l’ordinamento assicuri un’effettiva possibilità d’azione per far valere l’interesse che vi è sotteso. Vi sono, dunque, comportamenti che si configurano come esercizio di libertà (facultas agendi) e appartengono all’area dei comportamenti leciti, non espressamente proibiti, secondo un dato ordinamento. Si tratta di libertà che non assurgono, in quanto tali, al rango di diritti soggettivi propriamente detti. La circostanza che un soggetto possa avere la libertà di “lasciarsi morire”, rifiutando le cure, non significa che egli abbia il “diritto soggettivo” di farlo, ciò che dovrebbe logicamente comportare un assai problematico obbligo dello Stato o di terzi di darvi esecuzione[8].
Come si vedrà nei paragrafi seguenti, di fronte a queste “scelte tragiche”, il legislatore, o nel suo silenzio la giurisprudenza, sono chiamati ad una delicatissima operazione di bilanciamento tra il diritto all’autodeterminazione, concepito non in senso solipsistico, ma relazionale[9] e il valore della vita. Questo valore non si traduce in un incoercibile “dovere di vivere”, bensì nel dovere dello Stato di proteggere i soggetti più fragili e vulnerabili che potrebbero compiere l’ultima scelta a causa di condizioni di disagio psicofisico o di interferenze di altro genere[10].
2. Il bilanciamento “incompiuto” del Parlamento: la legge sul biotestamento
La legge 22 dicembre 2017 n. 219 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento (DAT) ha razionalizzato una materia che, fino a quel momento, era stata affidata al “diritto giurisprudenziale” ed era stata al centro di una aspra disputa politico-istituzionale culminata davanti alla Corte costituzionale, in seguito al conflitto d’attribuzione sollevato dalle Camere contro la sentenza della Corte di Cassazione sul caso “Englaro”[11].
La legge in parola, da un lato, riconosce un ampio spazio all’autonomia del paziente in ogni tappa della malattia attraverso le DAT (art. 4): un istituto che consente alla persona maggiorenne di esprimere anticipatamente le proprie volontà in ordine a quali trattamenti sanitari accettare o rifiutare, in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. Dall’altro lato, la legge si preoccupa di non abbandonare il paziente nell’ultima scelta, integrando la sua volontà con quella di altri soggetti – medico curante, fiduciario, familiari – che, in varia forma, intrattengono relazioni significative con il paziente, al fine di consolidare quella alleanza terapeutica che costituisce uno dei caposaldi simbolici e normativi della disciplina.
Il medico è obbligato a rispettare la volontà del paziente di rifiutare o interrompere i trattamenti sanitari e perciò è esente da qualsiasi responsabilità civile e penale. Deve inoltre adoperarsi per alleviare le sofferenze del malato mediante un’appropriata terapia del dolore e la somministrazione di cure palliative (comprensive nei casi più gravi della sedazione profonda), nonché astenersi da ogni “ostinazione irragionevole” nelle cure (art. 2). Per converso, il paziente non può esigere trattamenti contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali (art. 1, comma 6). La legge non intende, insomma, trasformare il medico in un esecutore meccanico delle disposizioni anticipate del paziente[12].
Lo spirito autenticamente laico del testo traspare con evidenza nella previsione che, ponendo termine ad una disputa pluridecennale, include espressamente la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale tra i trattamenti sanitari rifiutabili, anche mediante DAT, in quanto «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1, comma 5).
Un punto altrettanto delicato riguarda il paziente minore d’età o incapace. La legge stabilisce che tali persone hanno diritto alla valorizzazione massima delle loro capacità di comprensione e decisione e prevede che il consenso informato sia espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale, dal tutore o, se nominato, dall’amministratore di sostegno. Qualora insorga un contrasto tra il rappresentante legale, l’amministratore di sostegno o chi esercita la responsabilità genitoriale e il medico curante circa l’appropriatezza e necessità delle cure la decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 3, commi 2-5)[13].
Fonte di ulteriori controversie è, infine, il conflitto tra la volontà del paziente di rifiutare le cure e la volontà del medico che, in ragione di motivazioni etiche interiori, ritenga di non poter aderire alla richiesta del paziente. L’esperienza acquisita nell’applicazione della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza suggerisce di distinguere anche in questo ambito tra la responsabilità delle strutture sanitarie, tenute in ogni caso a garantire con l’assetto organizzativo l’effettività dei diritti riconosciuti al paziente e la posizione del singolo medico titolare del diritto all’obiezione di coscienza[14].
3. Il bilanciamento della Corte costituzionale: l’interpretazione adeguatrice del suicidio assistito
Per quanto degna di apprezzamento, la legge sul biotestamento si arresta sulla “soglia” particolarmente scabrosa del suicidio assistito: tace, in altri termini, sul caso della persona affetta da una patologia irreversibile che, per porre fine a sofferenze ritenute intollerabili, necessiti dell’aiuto materiale di un terzo.
Nel caso “Antoniani-Cappato” la Corte costituzionale italiana ha imboccato una strada sensibilmente diversa rispetto a quello seguita dal Bundesverfassungsgericht (BVerfG). Muovendo da una identificazione tra autodeterminazione e dignità umana concepita nella legge fondamentale tedesca alla stregua di un valore tendenzialmente assoluto che concerne l’individuo in sé e per sé, il giudice costituzionale tedesco ha enucleato un vero e proprio «diritto a morire in modo autodeterminato» (Recht auf selbstbestimmtes Sterben), che comprende il diritto di chiedere l’assistenza al suicidio, sebbene – ha aggiunto il BVerfG – da questo diritto non si ricavi, automaticamente, un dovere altrui di cooperare[15].
Nel nostro ordinamento costituzionale la dignità è concepita come un valore intrinsecamente relazionale che guarda la persona situata nel tessuto dei rapporti sociali. Il Giudice delle leggi ha, dunque, escluso la configurabilità di un “diritto di morire”, rimarcando come in certe circostanze la dignità umana possa costituire «un limite al diritto all’autodeterminazione delle persone più deboli e vulnerabili che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio […] anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere»[16]. Al contempo, però, la Consulta ha circoscritto alcune situazioni di estrema sofferenza psico-fisica in cui l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio risulterebbe in contrasto con il diritto costituzionale di rifiutare i trattamenti sanitari (art. 32, comma 2, Cost.).
Sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale, tramite una tecnica decisoria innovativa, ha dapprima differito la decisione, fissando una nuova udienza per consentire al Parlamento di intervenire sulla materia esercitando la sua discrezionalità (ord. n. 207 del 2018). Constatata l’inerzia del Parlamento, ha, quindi, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persona: (a) capace di prendere decisioni libere e consapevoli; (b) affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che egli reputa intollerabili; (c) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (sent. n. 242 del 2019)[17].
Proprio il requisito della «dipendenza da trattamenti di sostegno vitale» ha sollevato i maggiori dubbi interpretativi. Sollecitata da diversi tribunali, la Corte ha chiarito che tale requisito ricorre non solo quando la sopravvivenza del paziente dipende da macchine o dispositivi elettronici, ma anche quando è condizionata da procedure manuali compiute dal personale sanitario o da familiari che, se omesse o interrotte, determinerebbero prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo (sent. n. 135 del 2024).
Da ultimo, la Corte costituzionale ha sottolineato come i principi affermati nella sua giurisprudenza debbano applicarsi non solo a coloro che già dipendenti da un trattamento di sostegno vitale decidano di rifiutarlo, ma anche ai pazienti che rifiutino di dare avvio allo stesso. Diversamente, si verrebbe a creare una situazione paradossale in cui, per soddisfare la volontà di accedere al suicidio medicalmente assistito, la persona sarebbe costretta a sottoporsi a trattamenti invasivi e non voluti, con il solo scopo di rifiutarli in un momento successivo (sent. n. 66 del 2025)[18].
4. Il nodo irrisolto: regionalizzazione del fine vita e tentazioni di de-costituzionalizzazione
L’interpretazione adeguatrice dell’art. 580 c.p. proposta dalla Corte costituzionale lasciava inevitabilmente un nodo irrisolto: le modalità di esecuzione del suicidio assistito. La Corte, nel rimarcare la responsabilità del legislatore nel dettare una disciplina organica, si è limitata a precisare che, ai fini della non punibilità, sono richieste una «procedura medicalizzata» affidata al Sistema sanitario nazionale (SSN), nelle forme della legge sul biotestamento, per la verifica delle condizioni e l’intervento di un organo terzo collegiale, dotato di adeguate competenze, individuato pro tempore nei «comitati etici territorialmente competenti»[19].
I ripetuti “moniti” della Consulta sono caduti nel vuoto. Alcune Regioni italiane hanno allora cercato di dare “attuazione” alla giurisprudenza costituzionale: talora attraverso atti amministrativi di portata limitata (come in Puglia e in Emilia-Romagna), talora mediante leggi regionali. Tra queste, merita speciale menzione la legge della Regione Toscana n. 16/2025, che detta una disciplina dettagliata della procedura medicalizzata di suicidio assistito e che ha già dato luogo a un ricorso in via principale del Governo davanti alla Corte costituzionale[20].
La dottrina si è divisa sulla legittimità di tali interventi. I fautori ne valorizzano il fondamento nella competenza concorrente in materia di “tutela della salute”, sostenendo che le Regioni si limiterebbero a specificare i profili organizzativi e procedurali di un “diritto” già riconosciuto dalla Consulta. Essi, inoltre, appuntano l’attenzione sulla previsione di clausole di cedevolezza “invertita” tramite le quali le leggi regionali dichiarano la propria soccombenza rispetto a una futura disciplina statale[21].
La prospettiva di una “regionalizzazione” del fine vita solleva, tuttavia, serie perplessità in odine al possibile contrasto con le competenze esclusive statali in materia di «ordinamento civile», «ordinamento penale» e «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», profili su cui sarà chiamata a decidere la Corte costituzionale[22]. Chi scrive propende per l’idea che, per quanto sia apprezzabile sul piano politico e simbolico il ruolo propulsivo delle Regioni, la disciplina del fine vita interseca diritti personalissimi dell’individuo, come l’autodeterminazione sul proprio corpo, che richiedono una disciplina uniforme sul territorio nazionale[23].
Sennonché se negli anni passati si è invocato da più parti l’intervento del Parlamento, oggi si potrebbe quasi rimpiangerne il “silenzio”. Tra i numerosi disegni di legge in discussione spicca il testo unificato di maggioranza relativo all’A.S. 1408 (iniziativa parlamentare Gelmini-Versace) e ad altri ddl. connessi[24]. Pur recando nel titolo il richiamo alle «disposizioni esecutive della sentenza n. 242 della Corte costituzionale», esso sembra contraddire in modo plateale il bilanciamento delineato dalla Corte tra autodeterminazione e protezione della vita delle persone fragili, fino a far sospettare un processo di vera e propria de-costituzionalizzazione del diritto di rifiutare le cure[25].
Un primo indizio proviene già dall’intitolazione enfatica dell’art. 1: «inviolabilità e indisponibilità del diritto alla vita». La rubrica così formulata esprime una chiara opzione per uno s-bilanciamento a detrimento dell’autodeterminazione terapeutica, evocando tradizioni culturali riconducibili allo “spirito” del Codice penale Rocco.
In secondo luogo – ed è un profilo ancor più rilevante – il testo unificato (art. 4) stabilisce che «il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci a disposizione del Servizio sanitario nazionale non possono essere impiegati per agevolare l’esecuzione del proposito suicidario». Una simile scelta sembra porsi in antitesi al dictum della Corte costituzionale secondo cui, al contrario, solo il SSN può assicurare l’adeguata informazione e la necessaria presa in carico delle persone che esprimano consapevolmente la volontà di accedere al suicidio assistito[26]. Il rischio evidente è quello di spingere tali pratiche verso circuiti privati, anche transnazionali, con conseguente selezione per censo tra chi può permettersi di recarsi all’estero o di accedere a cliniche private e chi ne è escluso.
In terzo luogo, il testo unificato (art. 2, «modifica dell’art. 580 c.p.») eleva l’«inserimento nel percorso di cure palliative» a vero e proprio requisito tipizzato della clausola di non punibilità, irrigidendo – e per certi versi alterando – l’equilibrio disegnato dalla Corte, che legava, invece, le cure palliative al dovere dello Stato, non a un ulteriore ostacolo per il paziente[27].
Infine, il testo unificato prevede l’istituzione di un “Comitato nazionale di valutazione”, composto da sette membri di diversa estrazione professionale (giurista, bioeticista, medici specialisti, psicologo, infermiere), nominati con atto governativo e chiamati a valutare la sussistenza dei requisiti per l’accesso al suicidio assistito. Tale opzione si discosta dall’impianto delineato dalla Corte che aveva fatto leva sui comitati etici territoriali, più vicini ai contesti di cura e, almeno in linea di principio, meno esposti a possibili condizionamenti di natura politico-amministrativa.
L’obiettivo perseguito dall’attuale maggioranza appare, in controluce, piuttosto chiaro: non tanto impedire “formalmente” l’esercizio del diritto costituzionale di rifiutare le cure, quanto subordinarne la concreta attuazione a un percorso procedurale lungo, centralizzato e tendenzialmente scoraggiante, per giungere – previo assenso di un organo pubblico – a un suicidio assistito che non avviene all’interno del circuito ordinario del SSN, bensì ai “margini” di esso con il rischio che le uniche strutture realmente operative siano cliniche private accessibili prevalentemente ai pazienti più benestanti.
A questo punto, una domanda si impone: se questo è il livello politico-culturale dell’attuale legislatore nazionale, non è forse preferibile, almeno in questo momento storico, il “silenzio” del Parlamento e continuare ad affidarsi al bilanciamento “mite” tra autodeterminazione e protezione della vita dei soggetti vulnerabili tracciato dal nostro Giudice delle leggi?
In fondo, la prospettiva ermeneutica qui adottata trova significativi riscontri trasversali in una letteratura che, abbandonato il terreno delle astratte petizioni di principio, si misura pragmaticamente con la ricerca di soluzioni più “umane” ai casi concreti. È una prospettiva che accomuna, pur nel pluralismo delle premesse filosofiche, le componenti più avvertite del mondo laico e di quello cattolico: entrambe convergono da tempo nel ritenere ingiustificabile e immorale l’accanimento terapeutico, nel valorizzare il ruolo delle cure palliative e nel riconoscere al paziente un adeguato spazio di autonomia decisionale nella sua “ultima scelta”[28].
[1] Sull’uso ambivalente della dignità si veda il contributo ricco di spunti non solo giuridici di F. Rimoli, Diritto di morire o dovere di vivere? La democrazia liberale e i limiti del pensiero giuridico, in Diritto pubblico, n. 2, 2019, pp. 483-513. Se si vuole anche il nostro, L’ultima scelta. Dogmatiche dell’autodeterminazione e fine vita, in Koreuropa.it, n. 12, 2018.
[2] Neppure tale diritto è assoluto, poiché, quando è in gioco un interesse generale della collettività, la legge può derogare al principio del libero consenso, imponendo un trattamento sanitario obbligatorio (come nel caso dell’obbligo di vaccinazione), a condizione che la stessa legge non travalichi «i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32, secondo comma, Cost.).
[3] Fin dalle sue pronunce più risalenti (sent. n. 30 del 1962), la Corte cost. ha fatto valere un’interpretazione tendenzialmente estensiva delle garanzie dell’art. 13 cost. (riserva assoluta di legge e riserva di giurisdizione), statuendo che la libertà personale può essere violata, oltre che nel caso del ricorso alla forza fisica da parte dello Stato o di terzi, anche nei casi in cui il provvedimento contestato, sebbene di natura non coercitiva, comporti una degradazione giuridica della dignità della persona (da ultimo, si veda Corte cost., sent. n. 127 del 2022).
[4] G.U. Rescigno, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario, secondo l’art. 32, comma 2 Cost, al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Diritto pubblico, 2008, n. 1, 85 ss. Il tema è ripreso da G. Alpa, Il diritto di essere se stessi, Milano, Giuffrè, 2021 e C. Casonato, Il principio di autodeterminazione. Una modellistica per inizio e fine vita, in Rivistaaic, n. 1, 2022.
[5] La prima generazione si sarebbe sviluppata intorno al «paradigma proprietario del confine», mentre la seconda intorno al paradigma del «pieno sviluppo della persona». La «terza generazione dei diritti fondamentali» sarebbe, invece, contraddistinta dall’ascesa del potere di autodeterminazione soggettiva come «potere di controllare le modalità di costruzione della propria sfera personale». In questi termini G. Marini, Il consenso, in S. Rodotà, A. Zatti (a cura di) Trattato di biodiritto – Ambito e fonti del biodiritto, Milano, Giuffré, pp. 361 ss.
[6] L’espressione è di S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 297 secondo cui «nel passaggio dal soggetto astratto alla persona costituzionalizzata, riconosciuta nella concretezza del vivere, si realizza un trasferimento di sovranità, testimoniato nella sua forma più radicale proprio dalle parole conclusive dell’art. 32 della Costituzione». Nella stessa direzione si muove l’ampia ricostruzione di C. Tripodina, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Napoli, Editoriale scientifica, 2004.
[7] La Corte di Strasburgo ha chiarito che l’art. 2 CEDU non include un “diritto a morire” (ma impone obblighi positivi di tutela della vita), mentre l’art. 8 protegge la sfera di autonomia personale anche rispetto alle scelte sul fine vita, richiedendo procedure e garanzie adeguate. Si vedano, tra le altre: Pretty c. Regno Unito (2002), che esclude la derivazione di un diritto a morire dall’art. 2; Haas c. Svizzera (2011) e Koch c. Germania (2012) che confermano un ampio margine di apprezzamento in materia di suicidio assistito. Più di recente, il caso Mortier c. Belgio (2022), in cui la Corte non censura in sé il modello belga di eutanasia, ma riscontra una grave violazione procedurale dell’art. 2 per l’assenza di adeguata indipendenza dell’organo pubblico di controllo.
[8] Analogamente, la libertà di prostituirsi, un comportamento lecito secondo l’ordinamento italiano non implica un corrispondente diritto soggettivo. La Corte costituzionale nella sent. n. 141 del 2019, avente ad oggetto le norme che incriminano il favoreggiamento della prostituzione, pur riconoscendo una valenza primaria all’autodeterminazione sessuale, non ha accolto la sua qualificazione alla stregua di un diritto inviolabile della persona (come assunto dal giudice a quo). Al contrario – ha osservato la Corte – la prostituzione volontaria costituisce una particolare forma di attività economica che «degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente». Sempre la Consulta nella sent. 22 del 2021 ha rimarcato che la pratica della maternità surrogata «comporta un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate».
[9] Si coglie uno spunto prezioso di C. Pinelli, “Diritto di essere se stessi” e “pieno sviluppo della persona umana”, Relazione al XXXVI convegno Annuale AIC, in Annuario 2021, Editoriale scientifica, 2022, pp. 218-219, secondo cui «il limite posto all’autodeterminazione deriva […] da un individuazione degli effetti delle interferenze di terzi sulla formazione dell’identità di chi reclami il diritto all’autodeterminazione».
[10] In questi termini ci pare di poter leggere gli spunti di A. Barbera, La Corte costituzionale al tempo del bipolarismo etico, in G. Amato, A. Barbera, E. Cheli, A. Manzella, Non solo sulla Carta. Quattro lezioni necessarie sulla Costituzione, Bologna, Il Mulino, 2025, pp. 51-81.
[11] Le vicende successive alla sentenza n. 21748 del 2007 della Corte di Cassazione e al decreto della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008, che ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione artificiale di Eluana Englaro sono sembrate sfociare in un vero e proprio «nichilismo istituzionale» (A. Morelli, Tra Babele e il nulla. Questioni etiche di fine vita, nichilismo istituzionale e concezioni della giustizia, in P. Falzea (a cura di), Thanatos e nomos, Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita, Editoriale scientifica, Napoli, 2009, p. 172). Prima, l’improvvida nota del 16 dicembre 2008 del Ministro della salute emanata con l’intento di impedire l’esecuzione del decreto della Corte d’appello di Milano e immediatamente “presa in carico” dalla Regione Lombardia con il diniego di accesso a una struttura idonea al distacco del sondino naso-gastrico (atto immediatamente annullato dal TAR Lombardia con sent. 22 gennaio 2009, n. 214). Poi nel febbraio 2009 il governo ha deliberato un apposito decreto-legge volto a vietare la sospensione della terapia di sostentamento vitale, decreto mai perfezionatosi, a causa della mancata emanazione da parte del Presidente della Repubblica (F. Spadaro, Può il Presidente della Repubblica rifiutarsi di emanare un decreto-legge?, in Forum di Quaderni costituzionali, 10 febbraio 2009). Infine, i due rami del Parlamento hanno sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Milano, lamentando una indebita invasione della propria sfera legislativa. La Corte costituzionale, con ord. n. 334 del 2008, ha dichiarato i conflitti inammissibili, chiarendo che non possono essere censurati in tale sede vizi in iudicando delle decisioni giurisdizionali e che le pronunce contestate non ledevano in alcun modo la potestà legislativa delle Camere esercitabile in ogni momento.
[12] Il medico, in accordo con il fiduciario, può disattendere le DAT, in tutto o in parte, qualora esse risultino palesemente incongrue, non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, oppure siano nel frattempo sopravvenute terapie non prevedibili al momento della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita (art. 4, comma 5). In caso di conflitto tra medico e fiduciario, la decisione è rimessa al giudice tutelare (art. 4, comma 5).
[13] Il legislatore non accoglie la soluzione, escogitata dal diritto giurisprudenziale, dell’autodeterminazione “presunta”, basata sulla finzione per la quale il rappresentante legale dovrebbe decidere “in the best interest” dell’incapace. Mostrandosi così consapevole del rischio che questa “eterodeterminazione” possa, in talune circostanze, legittimare prassi di abbandono terapeutico del malato, in ragione di interessi poco nobili dei parenti stretti o in nome di un interesse pubblico ad un uso più “razionale” delle risorse sanitarie.
[14] Sul punto C. Luzzi, La questione dell’obiezione di coscienza alla luce della legge 219/2017 tra fisiologiche esigenze di effettività e nuove prospettive di tutela, in Dirittifondamentali.it, n. 1, 2019.
[15] Sentenza BVerfG 26 febbraio 2020 (2 BvR 2347/15 e connessi). La Corte costituzionale federale ha riconosciuto, ai sensi dell’art. 2, comma 1, in combinato disposto con l’art. 1, comma 1, Grundgesetz, un diritto a morire in modo autodeterminato, che include la libertà di chiedere l’aiuto di terzi. Per tale ragione ha dichiarato incostituzionale e nullo il § 217 StGB., che puniva il «favoreggiamento della morte volontaria prestato in forma abituale/professionale» («geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung»), perché rendeva di fatto impossibile l’esercizio di quel diritto.
[16] Secondo la stessa logica la Consulta ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo “per ritaglio” dell’art. 579 c.p., in ragione della «natura costituzionalmente necessaria» di tale disposizione che non ne consentirebbe la semplice abrogazione (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). A detta della Corte l'eventuale depenalizzazione non avrebbe preservato la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita, soprattutto nei confronti dei soggetti più fragili. Con taglio decisamente critico A. Pugiotto, Eutanasia referendaria. Dall’ammissibilità del quesito all’incostituzionalità dei suoi effetti: metodo e merito nella sent. n. 50/2022, in Rivistaaic, n. 2, 2022.
[17] Resta ferma, invece, la punibilità dell’istigazione al suicidio. Per un approfondimento delle implicazioni sistematiche di questa sentenza: M. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici, in OsservatorioAic, n. 1, 2020; S. Giannello, Sulla legittimità costituzionale (a determinate condizioni) dell’aiuto al suicidio e sulla via più consona al suo riconoscimento, in Federalismi.it, 3 luglio 2019.
[18] Per una rassegna ordinata della giurisprudenza M. Fasan, Una disciplina in cerca d’autore. Le scelte di fine vita nel dialogo tra Corte costituzionale e Legislatore (nota a Corte costituzionale, sentenza n. 66 del 2025), in Osservatorio AIC, n. 5, 2025.
[19] I principali paesi europei, fatto salvo il caso della Svizzera che ha de facto adottato la strada della “liberalizzazione” dell’eutanasia, hanno scelto la via della “proceduralizzazione” del suicidio assistito. Per uno sguardo d’insieme U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, Padova, Cedam, 2018.
[20] A questa si è ora aggiunta la legge della Regione Sardegna n. 26/2025, che a sua volta disciplina «procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito».
[21] Tra gli altri difendono la legittimità costituzionale di una legge regionale in questa materia: C. Caruso, Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio, ne Il Piemonte delle Autonomie, n. 1, 2024, pp. 8 ss.; F. G. Pizzetti, La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni, ne Il Piemonte delle Autonomie, n. 1, 2024, pp. 45 ss.; L. Busatta, Come dare forma alla sostanza? Il ruolo delle Regioni nella disciplina del suicidio medicalmente assistito, in Osservatorio AIC, n. 3, 2024; P. F. BRESCIANI, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corti supreme e salute, n. 1, 2024, pp. 239 ss.
[22] Per un’analisi più accurata dei diversi dubbi di costituzionalità S. Piccotti, La legge della Regione Toscana sul suicidio medicalmente assistito, in Osservatorio AIC, n. 5, 2025 e A. Lo Calzo, La legge della Regione Toscana n. 16/2025 sulle “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024”, tra esigenze di certezza nell’uniforme godimento dei diritti e riserve di competenza del legislatore statale, in Corti supreme e salute, n. 3, 2025.
[23] Nello stesso senso L. Chieffi, Suicidio assistito in Italia tra aperture giurisprudenziali e persistenti impedimenti nelle concrete prassi, in Rivistaaic, n. 1, 2024, 5. Nel sindacare la legittimità costituzionale di una legge della Regione Friuli-Venezia Giulia che intendeva istituire, nelle more dell’intervento del legislatore statale (sopraggiunto con l’approvazione della legge n. 219 del 2017), il registro regionale per le DAT, la Corte escludeva che tale «mancanza» avrebbe potuto «giustificare in alcun modo l’interferenza della legislazione regionale in una materia affidata in via esclusiva alla competenza dello Stato» (sent. n. 262 del 2016).
[24] https://www.senato.it/show-doc?leg=19&tipodoc=EMENDC&id=1462413&idoggetto=1463051&rif=1
[25] Per A. Cantaro, Postpandemia. Pensieri (meta)giuridici, Torino, Giappichelli, 2021, pp 44-45, «de-costituzionalizzato [il riferimento è in quel contesto al PNRR] non significa incostituzionale. De-costituzionalizzato significa “semplicemente” che siamo fuori dalla lente con la quale la Costituzione repubblicana legge i conflitti, la condizione dei lavoratori, le domande di emancipazione sociale dei cittadini». In precedenza, il tema era stato tematizzato da G. Preterossi, Senza freni. La de-costituzionalizzazione neoliberale, in Teoria politica, n. 9, 2019, pp. 31 ss. Oggi, all’orizzonte si profila il rischio di processi di de-costituzionalizzazione che investono, in particolare, le funzioni di garanzia della Magistratura (la revisione costituzionale dell’ordinamento giudiziario sui cui si terrà il referendum nella primavera 2026), la forma di governo parlamentare (la proposta di c.d. premierato elettivo) e il principio dell’unità politica ed economica della Repubblica (il “pasticciaccio brutto” del regionalismo differenziato e della definizione dei LEP).
[26] Affermazione ribadita dalla recentissima sentenza n. 132 del 2025 in cui si legge: «la persona rispetto alla quale sia stata positivamente verificata la sussistenza di tutte le condizioni da questa Corte indicate nella sentenza n. 242 del 2019 ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego». Per completezza va rilevata l’opinione contraria di G. Razzano, La proposta di legge sulle «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita»: una valutazione nella prospettiva costituzionale anche alla luce della sent. n. 50/2022, in Federalismi.it, n. 9 2022, p. 55, secondo cui «la sentenza n. 242/2019 non ha affermato l’esistenza di un diritto all’assistenza al suicidio, né ha chiesto al Parlamento di obbligare il SSN ad organizzare procedure sistematiche finalizzate a procurare la morte con farmaci letali».
[27] È bene essere chiari sul punto. La sentenza n. 242 del 2019 pretende sì che le cure palliative siano realmente offerte e praticabili e che il paziente sia seriamente messo davanti a quell’alternativa prima di andare oltre. Ma non “tipizza” nel dispositivo un requisito autonomo come surrettiziamente fa il testo unificato.
[28] Una parte della dottrina cattolica è giunta faticosamente a riconoscere una significativa autodeterminazione terapeutica del paziente. Al centro di questa elaborazione sta la distinzione tra doveri negativi assoluti (“non uccidere”, “non rubare”) e i doveri positivi relativi (tra cui il dovere di prendersi cura di sé). Mentre i primi obbligano sempre e comunque (da qui l’inammissibilità di ogni forma di eutanasia, anche passiva), i secondi devono essere rispettati in linea di principio, in quanto “ad impossibilia nemo tenetur”. In quest’ottica, l’obbligo di curarsi non implica il dovere di accettare, sempre e comunque, trattamenti “straordinari” e “sproporzionati” sotto il profilo fisico, psicologico ed etico. E il giudice di tale proporzionalità è lo stesso paziente, purché egli sia pienamente capace di valutare le proposte terapeutiche e di esprimere la propria volontà (Gonzalo Miranda, La tradizione morale cattolica sui temi del fine vita, in Studia Bioethica, 2010, n. 1-2, pp. 11 ss.). Merita a questo proposito una menzione l’innovativa strada sperimentata in Francia di dare la parola ad una assemblea di cittadini sorteggiati per ricercare soluzioni ragionevoli sull’eutanasia attiva e sull’aiuto al suicidio. Su questa esperienza relativa ad un ordinamento giuridico per molti versi analogo al nostro, si veda N. Rossi, La convenzione francese sul fine vita. La democrazia deliberativa per superare un’impasse?, in questa Rivista, 4 maggio 2024.
Il testo rappresenta la rielaborazione della Relazione svolta il 25 ottobre 2025 presso Palazzo Gradari a Pesaro, nell’ambito della quinta edizione del festival Parole di giustizia organizzato dall’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo in collaborazione con Magistratura democratica.