1. Le dichiarazioni dei responsabili del Ministero della giustizia
Sulla possibile data del referendum confermativo relativo alla riforma costituzionale della magistratura tanto il Ministro della giustizia Carlo Nordio quanto il Vice Ministro Paolo Sisto hanno di recente rilasciato impegnative dichiarazioni alla stampa.
Il 26 novembre, parlando con i giornalisti nel Transatlantico della Camera, il Ministro Nordio ha dichiarato: «La legge è abbastanza chiara, ci sono degli step, la Cassazione si è già pronunciata, adesso ci sono dei termini perentori e dilatori, non prima e non dopo un certo limite. Di conseguenza "il referendum costituzionale sulla giustizia" secondo i nostri calcoli dovrebbe essere nella prima metà di marzo».
Affermazioni dello stesso tenore sono state fatte anche dal Vice Ministro della giustizia Paolo Sisto, secondo il quale la consultazione referendaria potrebbe essere fissata «addirittura ai primi di marzo» del 2026.
Da quanto hanno detto i responsabili del Ministero di via Arenula è legittimo trarre la conclusione che il governo sta ragionando su di una tempistica referendaria assai diversa da quella tradizionale, desumibile dal dettato costituzionale e della prassi consolidata riguardante le cadenze temporali del referendum confermativo.
Come è noto la legge di revisione costituzionale è stata definitivamente approvata, al termine della doppia navetta parlamentare, il 30 ottobre del 2025.
Dalla pubblicazione di tale legge è iniziato il termine di tre mesi che l’art. 138, comma 2, della Costituzione riserva alla presentazione delle domande di referendum confermativo da parte dei tre soggetti istituzionali legittimati a richiederlo: un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Se si rispetta questo spazio temporale - che la Costituzione lascia aperto alle domande di referendum “confermativo” o “oppositivo” - si giunge alla fine del mese di gennaio 2026.
Ciò significa che, per quanto si vogliano bruciare i tempi dell’indizione del referendum e si intenda contenere nel limite minimo di cinquanta giorni la durata della campagna referendaria, il referendum confermativo non potrà svolgersi prima della seconda metà di marzo 2026 (più precisamente il 22 o con ogni probabilità il 29 marzo).
E ciò senza contare che l’entrata in campo, anche se tardiva, di un comitato promotore della raccolta delle firme per il referendum costituzionale farebbe slittare ulteriormente in avanti la data della consultazione popolare, a causa del periodo di tempo necessario alla verifica delle firme degli elettori da parte della Corte di cassazione.
2. Perché si pensa di poter anticipare i tempi del referendum?
Perché, dunque, il governo pensa e dice di volere anticipare lo svolgimento della consultazione alla prima metà di marzo del 2026?
L’unica spiegazione possibile è che l’esecutivo intenda ribaltare radicalmente l’interpretazione e la prassi consolidate in tema di tempi e cadenze del referendum confermativo, facendo leva sul testo dell’articolo 15 della legge 25 maggio 1970, n. 352 che al suo primo comma recita: «Il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro sessanta giorni dalla comunicazione dell'ordinanza che lo abbia ammesso».
In effetti, con l’ordinanza del 18 novembre 2025 l'Ufficio centrale per i referendum ha ammesso quattro richieste, depositate da deputati e senatori appartenenti a maggioranza e opposizione, dichiarando che esse sono "conformi" alle norme dell'art. 138 della Costituzione e della legge n. 352 del 1970 e sono pertanto ammissibili[1].
Da un lato, infatti, secondo la Cassazione, «ognuna delle richieste è stata effettuata da un numero di parlamentari non inferiore ad un quinto dei componenti della Camera di appartenenza, ossia non inferiore a un quinto dei 400 deputati e a un quinto dei 205 senatori (compresi anche i 5 senatori a vita)».
Dall’altro, sempre secondo la Corte, è legittimo il quesito destinato alla consultazione popolare che sarà: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?».
Premesso che l’ordinanza della Cassazione deve essere «immediatamente comunicata al Presidente della Repubblica, ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Presidente della Corte costituzionale[2]» è possibile che il governo - sulla base del testo del citato articolo 15 della legge n. 352 del 1970 - consideri la data di comunicazione dell’ordinanza del 18 novembre 2025 il momento a partire dal quale inizia il termine per l’indizione del referendum da parte del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri.
Con la conseguenza di non dover attendere il previo decorso del termine di 90 giorni previsto dall’art. 138, comma 2, della Costituzione e di poter anticipare i tempi della procedura destinata a culminare nella consultazione referendaria.
3. L’interpretazione “anticipatrice” sarebbe un grave vulnus all’istituto referendario
Per quanto possa apparire suggestiva, in virtù del suo ancoraggio all’art. 15 della legge del 1970, l’interpretazione che potremmo definire “anticipatrice” contrasta con le norme della Costituzione in tema di referendum confermativo, con la logica propria dell’istituto referendario e con la meditata prassi costituzionale che in questa materia si è formata.
Come è noto il secondo comma dell’art. 138 della Costituzione individua una pluralità di soggetti legittimati a presentare la domanda di referendum popolare di una legge di revisione costituzionale e stabilisce che questi soggetti possono esercitare tale facoltà «entro tre mesi» dalla pubblicazione della legge di revisione.
Data la diversità dei potenziali richiedenti e le prevedibili differenze dei loro tempi di azione (per essere “normalmente” più lenta e laboriosa la raccolta delle firme di cinquecentomila elettori rispetto alle altre modalità di richiesta) lo spazio temporale di tre mesi per la presentazione della domanda di referendum deve essere considerato interamente a disposizione di tutti e tre i soggetti menzionati nell’art. 138 della Costituzione.
Ragionare diversamente significherebbe privilegiare una o più delle forme di iniziativa referendaria previste dalla Costituzione a scapito di quella popolare, più lunga e faticosa perché imperniata sulla raccolta delle firme e, comunque, promuovere una sorta di gara di velocità tra i potenziali richiedenti che non risponde alla logica di un referendum che il Costituente ha voluto aperto ad una pluralità di attori.
La lettera dell’art. 138 della Costituzione e considerazioni di ordine sistematico inducono dunque a ritenere che i tre mesi di cui parla la Costituzione debbano decorrere interamente “prima” che il referendum possa essere indetto e la campagna referendaria avviata.
4. Dottrina e prassi costituzionale coincidono
Del resto è esattamente questa la soluzione su cui si sono sin qui attestate la prassi in tema di referendum confermativo e l’autorevole dottrina che ha ragionato sul tema.
In un articolo pubblicato sul Forum di Quaderni costituzionali[3] Leopoldo Elia scriveva al riguardo: «La discrezionalità del governo per l'indizione del referendum è limitata alla scelta della data di consultazione popolare tra il 50° ed il 70° giorno a partire dalla delibera di indizione, una volta trascorso il tempo disponibile per le richieste da parte dei promotori».
Ed aggiungeva: «Ed è questa la concatenazione necessaria prevista nel comunicato della Presidenza del Consiglio dei ministri reso di pubblica ragione nella Gazzetta Ufficiale del 7 maggio scorso. E' bene tenere presente che, sulla base di quanto convenuto nella riunione del Consiglio dei ministri in data 24 aprile 2001, il governo «ha stabilito che all'indizione del referendum confermativo della legge costituzionale sul federalismo potrà procedersi entro i 60 giorni successivi alla scadenza dei tre mesi stabiliti dall'art. 138 della Costituzione … così da consentire all'apposito comitato di cittadini di promuovere ed eventualmente completare la raccolta della 500.000 firme prescritte»[4].
In passato si è dunque ritenuto che il termine di tre mesi previsto dall’art. 138 Cost. debba decorrere interamente prima che possa essere indetto il referendum.
E ciò per rispettare il chiaro dettato costituzionale ed in particolare per consentire l’ingresso in campo – accanto ai parlamentari ed alle Regioni – di uno o più comitati promotori interessati a procedere alla raccolta delle firme degli elettori. Comitati che, in un’epoca in cui le firme possono essere raccolte anche in versione digitale, potrebbero affacciarsi alla ribalta referendaria anche a ridosso della scadenza del termine di tre mesi.
Fu questa l’interpretazione garantista adottata nel 2001 dal governo, su proposta del presidente Amato, a favore di ulteriori richiedenti del referendum, anche in considerazione del fatto che i comitati promotori del referendum possono partecipare alla campagna referendaria avvalendosi di particolari prerogative.
In quest’ottica è irrilevante che comitati promotori siano già in campo o che essi possano costituirsi sino a che non siano interamente decorsi i tre mesi di cui all’art. 138 Cost. (in particolare sfruttando, come si è detto, la velocità delle nuove tecniche di raccolta firme).
E’ certo però che l’effettiva costituzione di un comitato promotore impegnato nella raccolta firme avrebbe un duplice effetto.
Da un lato renderebbe plasticamente evidente l’incostituzionalità ed il carattere antidemocratico di un’iniziativa del governo mirante a ottenere l’indizione del referendum costituzionale prima del decorso dei tre mesi dalla pubblicazione della legge di revisione, con danno grave ed irreparabile per il comitato.
Dall’altro lato, consentirebbe al comitato di ricorrere alla Corte costituzionale per la tutela della sua posizione istituzionale, vulnerata dall’indizione del referendum mentre sarebbe ancora in corso l’attività di raccolta delle firme.
La materia è troppo delicata per iniziative estemporanee incuranti del dettato costituzionale e dei precedenti garantisti che si sono affermati nel tempo con il fine di non ostacolare e conculcare la creazione e l’attività dei comitati promotori di natura popolare e di evitare che il referendum costituzionale sia ridotto ad una vicenda di palazzo, circoscritta ai parlamentari o alle Regioni.
Alla luce di queste considerazioni la corretta individuazione della data del referendum va ben oltre la modesta differenza temporale derivante dalle possibili diverse interpretazioni prima ricordate.
Essa assume, invece, la fisionomia di una rilevante questione di principio: se il termine di tre mesi a disposizione dei richiedenti il referendum debba decorrere interamente o se esso possa essere interrotto e per così dire consumato a seguito della presentazione di una o più richieste di referendum e della adozione da parte della Corte di cassazione di un’ordinanza di ammissibilità del referendum stesso.
Ciò che è in discussione è dunque lo spazio di tempo “effettivamente” riservato, nella procedura del referendum costituzionale, all’iniziativa popolare incentrata sulla raccolta delle firme di cinquecentomila elettori.
Uno spazio che sarebbe paradossale ridurre – proprio in una procedura referendaria – a vantaggio di iniziative concorrenti degli altri soggetti istituzionali legittimati a richiedere il referendum costituzionale.
[1] Al riguardo va ricordato che l'Ufficio centrale per il referendum - investito del compito di verificare che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell'articolo 138 della Costituzione e della legge – “deve” decidere, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione. Dunque nessun argomento a favore della interpretazione “anticipatrice” può essere desunto dal fatto che la Cassazione abbia deciso sull’ammissibilità delle richieste senza attendere il decorso dei tre mesi previsti dall’art. 138 Cost.
[2] L’ordinanza va inoltre «notificata a mezzo ufficiale giudiziario, entro cinque giorni, rispettivamente ai tre delegati dei parlamentari richiedenti, oppure ai presentatori della richiesta dei 500 mila elettori, oppure ai delegati dei cinque consigli regionali».
[3] L. Elia, L’ineludibile e indifferibile referendum, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006. Dello stesso autore v. anche Il referendum costituzionale si avvicina, in Rivista di cultura politica, n. 2 del 2026.
[4] E’ chiaro, concludeva Elia nell’articolo citato, L’ineludibile e indifferibile referendum, che «l'interpretazione accolta dal governo fa prevalere quanto disposto dall'art. 138 Cost. comma II, sul precetto contenuto nel I comma dell'art. 15 della legge n. 352 del 1970, secondo cui «il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro 60 giorni dalla comunicazione dell'ordinanza (dell'ufficio centrale) che lo abbia ammesso». Ma tale prevalenza gli appariva giustificata e in qualche modo obbligata per rispettare la lettera della Costituzione e la logica propria dell’istituto referendario.