Sommario: 1) Guerra in Ucraina; 2) Migranti; 3) Internet; 4) Molestie e Discriminazioni; 5) Informatori; 6) Sanzioni amministrative/penali; 7) Fiscalità; 8) Pagamenti; 9) Giudici indipendenti
1) GUERRA in Ucraina
Sentenza 10 settembre 2025 del Tribunale nella causa T-573/23 | Positive Group/ Consiglio
Il Tribunale conferma le misure restrittive nei confronti di Positive Group PAO, un’entità che opera nel settore informatico russo ed è titolare di una licenza rilasciata dai servizi di intelligence nazionali russi
A seguito dell’aggressione militare della Russia nei confronti dell’Ucraina nel 2022, l’Unione europea ha adottato una serie di misure restrittive, consentendo – tra l’altro- di congelare i fondi e le risorse economiche di entità che operano nel settore informatico russo titolari di una licenza rilasciata dal Centro per la concessione di licenze, la certificazione e la protezione dei segreti di Stato del Servizio federale di sicurezza russo (FSB) o di una licenza di «armi e attrezzature militari» rilasciata dal Ministero russo dell’Industria e del commercio. Su tale base, Positive Group PAO era stata inserita nell’elenco delle persone oggetto delle misure restrittive. La società aveva quindi chiesto l’annullamento del suo inserimento nell’elenco.
Il Tribunale ha respinto il ricorso, dichiarando la legittimità del criterio applicato, conforme ai principi di prevedibilità e di certezza del diritto in quanto prevedente in modo chiaro e oggettivo una categoria limitata di persone (le entità operanti nel settore informatico russo e titolari di una licenza dell’FSB o di una licenza di «armi e attrezzature militari»), e, per altro verso, non manifestamente sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti dalle misure restrittive, posto che i pregiudizi derivanti da tale criterio sono adeguati e necessari per aumentare la pressione sulla Russia.
2) MIGRANTI
Sentenza del 1 agosto 2025 della Corte nelle cause riunite C-758/24 | [Alace] e C-759/24 | [Canpelli]
Protezione internazionale: la designazione di un paese terzo come «paese di origine sicuro» deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo.
Gli Stati membri possono dotarsi di un atto legislativo contenente un elenco di paesi terzi di origine sicuri, in modo che sulle domande di protezione internazionale presentate dai cittadini di quei paesi gravi una presunzione di infondatezza, e che quindi le stesse domande possano essere esaminate con procedure accelerate, direttamente alla frontiera. Detto atto deve essere conforme al diritto dell’Unione e deve poter essere sottoposto a un controllo giurisdizionale effettivo; in particolare, in ciascun paese dell’elenco deve essere garantita una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione, e le fonti di informazione alla base della designazione come “sicuro” devono essere sufficientemente accessibili sia al richiedente che al giudice nazionale. Quest’ultima prescrizione, in particolare, mira a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, che consenta cioè tanto al richiedente di difendere efficacemente i suoi diritti, quanto al giudice nazionale di esercitare pienamente il proprio sindacato giurisdizionale.
Orbene, la Corte ha accertato che il d.l. 23.20.2024, n. 158, atto legislativo con cui l’Italia designa i “paesi di origine sicuri”, non soddisfa i predetti requisiti, perché non indica su quali fonti il legislatore si sia basato per valutare la sicurezza di un paese (nel caso esaminato, il Bangladesh); conseguentemente, sia al richiedente che al giudice sarebbe impedito di contestarne e controllarne la provenienza, autorità, affidabilità, pertinenza, attualità ed esaustività.
La Corte sottolinea infine che il nuovo regolamento, che sostituirà la direttiva in vigore, consentirà di prevedere eccezioni per alcune categorie di persone chiaramente identificabili, ma lo stesso sarà operativo a partire dal 12 giugno 2026, salvo il potere del legislatore dell'Unione di anticiparne l’entrata in vigore.
In tema, in questa Rivista, v. https://www.questionegiustizia.it/articolo/proposte-paesi-sicuri , nonché in https://www.magistraturademocratica.it/articolo/comunicato-stampa-della-corte-di-giustizia-dellunione-europea/ con commento video della Presidente di Magistratura democratica Silvia Albano, e in https://www.magistraturademocratica.it/articolo/nm663b55156f9130-36087610/
Sentenza del 1 agosto 2025 della Corte nella causa C-97/24 | The Minister for Children, Equality, Disability, Integration and Youth e a.
Diritto d'asilo: uno Stato membro non può invocare un afflusso imprevedibile di richiedenti protezione internazionale per sottrarsi all'obbligo di soddisfare le esigenze essenziali dei richiedenti asilo; una violazione di tale obbligo può far sorgere la responsabilità dello Stato membro interessato.
La direttiva sulle condizioni di accoglienza e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea obbligano tutti gli Stati membri a garantire ai cittadini di paesi terzi richiedenti protezione internazionale condizioni materiali minime di accoglienza, che assicurino, cioè, il rispetto della dignità umana ed il soddisfacimento delle esigenze primarie della vita, quali un alloggio adeguato e/o un sostegno economico.
La violazione, anche solo temporanea, di questo obbligo è fonte di responsabilità dello Stato membro, anche nel caso che quest’ultimo adduca di essere stato impossibilitato ad assicurare l’alloggio a causa di un afflusso massiccio e imprevedibile di cittadini di paesi terzi, che ha comportato la saturazione della capacità di accoglienza.
Il diritto dell'Unione prevede un regime derogatorio, rigorosamente disciplinato, che consente di adattare le modalità di accoglienza, in caso di esaurimento temporaneo delle capacità di alloggio normalmente disponibili per i richiedenti protezione internazionale; l'applicazione di tale regime, tuttavia, presuppone che la situazione presenti carattere eccezionale, che essa sia debitamente giustificata e limitata nel tempo. Inoltre, anche in tale evenienza, lo Stato membro ospitante non può comunque sottrarsi al suo obbligo di soddisfare le esigenze essenziali delle persone interessate, ben potendo fornire ai richiedenti un alloggio al di fuori del sistema normalmente previsto per ospitarli, oppure concedendo loro dei sussidi economici o dei buoni.
La Corte ha così concluso che la violazione degli obblighi di accoglienza legittima la richiesta di risarcimento del danno (nel caso trattato, due richiedenti protezione erano stati costretti a vivere per diverse settimane per strada in condizioni precarie in Irlanda, dopo che tale Stato membro aveva rifiutato di fornire loro le condizioni minime di accoglienza, giustificando tale rifiuto con l’indisponibilità di alloggi dovuta ad un afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi dopo l’invasione dell'Ucraina).
3) INTERNET
Sentenze del 10 settembre 2025 del Tribunale nelle cause T-55/24 | Meta Platforms Ireland / Commissione e T-58/24 | Tiktok Technology / Commissione Regolamento sui servizi digitali
Il Tribunale si pronuncia in tema di decisioni della Commissione che fissano il contributo per le attività di vigilanza applicabile a Facebook, Instagram e TikTok.
Il regolamento sui servizi digitali affida alla Commissione europea compiti di vigilanza sui fornitori di determinati servizi, designati come piattaforme molto grandi o motori di ricerca molto grandi quando essi superano un’elevata soglia minima di utenti nell'Unione europea. Per coprire le spese necessarie a tal fine e svolgere tali compiti, la Commissione riscuote da tali fornitori un contributo annuale calcolato in funzione del numero medio mensile di utenti di ciascun servizio interessato. Nel caso, Facebook e Instagram, da un lato, e TikTok, dall'altro, erano state indicate come piattaforme molto grandi online e nei loro confronti era stato chiesto il contributo mediante due decisioni di esecuzione.
A seguito della contestazione sollevata dalle società, il Tribunale ha annullato le decisioni di esecuzione, pur mantenendo i loro effetti per un periodo provvisorio. In particolare, ha affermato che la metodologia di calcolo costituisce un elemento essenziale e indispensabile del calcolo del contributo per le attività di vigilanza, sicché essa avrebbe dovuto essere adottata non nell'ambito di decisioni di esecuzione, bensì in un atto delegato, conformemente alle norme previste nel regolamento. Tuttavia, non avendo constatato errori che inficiavano l'obbligo delle società interessate di versare il contributo per le attività di vigilanza per il 2023, il Tribunale ha mantenuto temporaneamente gli effetti delle decisioni annullate.
Sentenza del 8 gennaio 2025 del Tribunale nella causa T-354/22 | Bindl/Commissione
Il Tribunale condanna la Commissione a risarcire i danni a un visitatore del suo sito Internet della Conferenza sul futuro dell'Europa a causa del trasferimento di dati personali negli Stati Uniti.
Un cittadino residente in Germania ha adito il tribunale dell’Unione per domandare la condanna della Commissione, tra l’altro, a risarcire il danno morale derivante dall’omessa vigilanza e custodia dei suoi dati personali (in particolare il suo indirizzo IP), arrecandogli in tal modo un danno sufficientemente grave. A sostegno della domanda allegava che nel 2021 e 2022 si era registrato tramite il sito della Commissione per un evento denominato «GoGreen», utilizzando il servizio di autenticazione EU Login della Commissione, e scegliendo l'opzione, offerta dallo stesso sito, di accedere utilizzando il suo account Facebook.
L'interessato riteneva che, in occasione delle sue consultazioni di tale sito Internet, il suo indirizzo IP e le informazioni sul suo browser e sul suo terminale erano stati trasferiti alla società americana Meta Platforms, Inc, negli Stati Uniti; tali trasferimenti avrebbero esposto l’interessato al rischio di accesso ai suoi dati da parte dei servizi americani di sicurezza e di intelligence, i quali notoriamente non hanno un livello di protezione paragonabile a quello dell’Unione. La parte chiedeva altresì l'annullamento dei trasferimenti dei suoi dati personali.
Il Tribunale ha respinto la domanda di annullamento in quanto irricevibile, ma riconosciuto che la Commissione, attraverso il collegamento ipertestuale «connettersi con Facebook» visualizzato sulla pagina Internet di EU Login, ha creato le condizioni che consentono di trasmettere l'indirizzo IP dell'interessato a Facebook. L’indirizzo IP costituisce infatti certamente un dato personale che è stato trasmesso a Meta Platforms, impresa con sede negli Stati Uniti.
L'interessato ha perciò subito un danno morale, poiché si è trovato in una situazione di incertezza riguardo al trattamento dei suoi dati personali, in particolare del suo indirizzo IP, idonea a far sorgere la responsabilità extracontrattuale dell'Unione.
Alla luce di tanto, il Tribunale ha ritenuto congruo condannare la Commissione al versamento della somma di 400 euro in favore dell'interessato.
4) MOLESTIE E DISCRIMINAZIONI
Sentenza del 12 marzo 2025 del Tribunale nella causa T-349/23 | Semedo/Parlement Plainte
Accuse di molestie volte a un'ex deputata al Parlamento europeo a seguito di denuncia presentata dal suo ex assistente parlamentare. Diritti della difesa.
A seguito della denuncia di molestie presentata dall’ex assistente parlamentare di un’ex deputata al Parlamento europeo nei confronti di quest’ultima, il Presidente del Parlamento aveva imposto una sanzione disciplinare consistente nella perdita del diritto all'indennità di sussistenza per un periodo di dieci giorni.
La parlamentare accusata ha quindi impugnato la sanzione lamentando la violazione del suo diritto alla difesa, a causa del negato accesso a parte del rapporto nei suoi confronti e dei documenti su cui era fondato.
Il Tribunale ha rilevato che all’accusata era stata fornita una versione non riservata della relazione della commissione, contenente una sintesi delle dichiarazioni dei testimoni che non rifletteva la sostanza delle testimonianze raccolte durante l'indagine. In secondo luogo, il Tribunale ha rilevato che all’accusata non era stata data la possibilità di conoscere con precisione i documenti del fascicolo su cui si basavano le accuse a suo carico nelle decisioni che la riguardavano. Il Tribunale ha quindi accolto la domanda ed ha annullato le decisioni adottate dal Presidente del Parlamento.
Sentenza dell’11 settembre 2025 della Corte nella causa C-38/24 | [Bervidi]
Discriminazione sul posto di lavoro: la tutela dei diritti delle persone disabili contro le discriminazioni indirette si estende ai genitori di bambini disabili.
La Corte si pronuncia in sede pregiudiziale su richiesta interpretativa sollevata dalla Cassazione italiana, in un caso in cui una lavoratrice aveva chiesto al datore di lavoro di essere assegnata –in via permanente e non solo temporanea- a un posto di lavoro a orario fisso per la necessità di occuparsi di suo figlio, affetto da un’invalidità totale. La Cassazione italiana aveva sottoposto alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: «1) se il diritto dell’Unione debba interpretarsi, eventualmente anche in base alla Convenzione dell’ONU, nel senso che sussista la legittimazione del “caregiver” familiare di minore gravemente disabile, il quale deduca di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell’attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest’ultimo fosse il lavoratore, dalla direttiva 2000/78. 2) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla prima questione, il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione dell’ONU, nel senso che gravi sul datore di lavoro del “caregiver” di cui sopra l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, altresì in favore del detto “caregiver”, il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall’articolo 5 della direttiva 2000/78. 3) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla prima e/o alla seconda questione, il diritto dell’Unione vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione dell’ONU, nel senso che per “caregiver” rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva 2000/78 si debba intendere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se il diritto dell’Unione vada interpretato nel senso che la definizione di “caregiver” in questione sia più ampia o ancora più ristretta di quella sopra riportata».
La Corte risponde che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, ai sensi della direttiva quadro sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, si estende anche a un lavoratore che si occupa di suo figlio minore gravemente disabile, pur non essendo disabile egli stesso.
La Corte ha affermato che, per salvaguardare i diritti delle persone disabili, in particolare se si tratta di minori, il principio generale di non discriminazione vieta anche la discriminazione indiretta «per associazione» fondata sull’handicap affinché la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro sia garantita anche ai loro genitori, e questi ultimi non subiscano un trattamento sfavorevole sul loro posto di lavoro a causa della situazione dei loro figli; ne consegue che il datore di lavoro è tenuto ad adottare soluzioni ragionevoli idonee a consentire loro di fornire l’assistenza necessaria ai loro figli disabili, con il limite del carattere sproporzionato che tale onere potrebbe comportare per il datore di lavoro. Viene quindi rimesso al giudice nazionale di verificare se, nel caso di specie, la domanda del lavoratore non costituisca un onere sproporzionato.
5) INFORMATORI
Sentenze del 6 marzo 2025 della Corte nelle cause C-149/23 | Commissione / Germania, C-150/23 | Commissione / Lussemburgo, C-152/23 | Commissione / Repubblica ceca, C-154/23 | Commissione / Estonia e C-155/23 | Commissione / Ungheria
Inadempimento di uno Stato al recepimento di una direttiva: cinque Stati membri sono condannati a sanzioni finanziarie per la mancata trasposizione della direttiva "sugli informatori"
La Corte ha verificato l’inadempimento di alcuni Stati agli obblighi, derivanti dall’Articolo 26, paragrafi 1 e 3 della Direttiva (UE) 2019/1937, in tema di protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, per non avere detti Stati adottato, alla scadenza del termine previsto, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla citata direttiva (UE) 2019/1937.
6) SANZIONI AMMINISTRATIVE/PENALI
Sentenza del 1° agosto 2025 della Corte nella causa C-544/23 | BAJI Trans
Il principio dell’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole si estende anche a una sanzione qualificata come amministrativa nel diritto nazionale quando essa è di natura penale ai sensi del diritto dell’Unione.
Nel caso, si trattava della sanzione pecuniaria di 200 euro inflitta in Slovacchia al conducente di una betoniera dopo che era stato constatato che il tachigrafo del suo veicolo non era stato sottoposto al controllo periodico obbligatorio.
Interpellata dalla Corte suprema amministrativa slovacca, la Corte di giustizia afferma che è possibile che, in forza del diritto dell’Unione e allo scopo di garantire un’applicazione uniforme di tale principio, una sanzione amministrativa debba essere considerata come penale, a causa della natura stessa dell’illecito e del grado di severità della sanzione. In altri termini, il fatto che una sanzione sia qualificata come amministrativa nel diritto nazionale non esclude necessariamente l’applicazione del detto principio; infatti, al fine di garantire un’applicazione uniforme di tale principio in tutta l’Unione europea, altri due criteri possono comunque portare a qualificare una siffatta sanzione come sanzione penale, ossia la natura stessa dell’illecito e il grado di severità della sanzione.
Infine, la Corte ha affermato che il suddetto principio si applica finché la condanna non sia divenuta definitiva (fermo restando che ciò che debba o non debba essere considerato come una sentenza definitiva è parimenti disciplinato dal diritto dell’Unione e non dal diritto nazionale).
La pronuncia della Corte di Giustizia è in linea con analogo orientamento della Corte europea dei diritti dell’Uomo in materia (pur ponendosi oggi il tema nuovo della sovrapponibilità dei criteri seguiti dalle due Corti internazionali).
7) FISCALITA’
Sentenza del 1° agosto 2025 della Corte nelle cause riunite da C-94/24 a C-94/24 | Banca Mediolanum
E’ contraria al diritto dell'Unione una normativa nazionale che prevede di assoggettare ad imposizione, in misura superiore al 5 % del loro ammontare, i dividendi che gli intermediari finanziari percepiscono, in quanto società madri, dalle loro società figlie con sede in altri Stati membri.
La normativa fiscale italiana prevede che i dividendi derivanti da società controllate con sede fiscale in altri paesi dell’Unione, percepiti dalla società “madre” di intermediazione finanziaria con sede in Italia, possano concorrere nella costituzione della base imponibile ai fini del pagamento dell’IRES (imposta sul reddito delle società) nei limiti del 5% del loro ammontare (c.d. sistema dell’esenzione).
Detta normativa è certamente conforme al diritto dell’Unione, e segnatamente alla direttiva 2011/96. Tuttavia, la normativa nazionale impone anche di includere il 50% di tali dividendi ai fini della determinazione della base imponibile di un'altra imposta, ossia l'IRAP (imposta regionale sulle attività produttive).
Il giudice italiano, investito della controversia instaurata dalla Banca Mediolanum contro l’amministrazione finanziaria italiana, ha interrogato la Corte sulla legittimità di tale ultima imposizione con riferimento all’esatta interpretazione della citata direttiva. Nella sua sentenza la Corte ha ricordato che il sistema dell’esenzione scelto dall’Italia riguarda qualsiasi imposta che, nello Stato membro di residenza della società madre, includa nella sua base imponibile anche solo una parte di detti utili, a prescindere dalla sua natura. Pertanto, la disciplina dell'IRAP relativa specificamente a tali intermediari finanziari si risolve sostanzialmente in una doppia imposizione degli utili in termini economici, che la direttiva mira ad evitare. Essa è dunque contraria al diritto dell’Unione.
8) PAGAMENTI
Sentenza del 27 febbraio 2025 della Corte nella causa C-674/23 | AEON NEPREMIČNINE e a.: AGENZIA immobiliare
Il diritto dell’Unione non osta all’imposizione di un tetto massimo per le provvigioni delle agenzie immobiliari in misura pari al 4 % del prezzo di vendita o di locazione; detta provvigione deve nondimeno essere proporzionata in rapporto ai legittimi obiettivi che essa mira a raggiungere.
La Corte costituzionale slovena ha interrogato la Corte in merito alla conformità al diritto dell’Unione della normativa interna sui servizi di intermediazione immobiliare. Detta normativa prevede il divieto di pattuire una provvigione in favore dell’intermediario superiore al 4% del prezzo di vendita o locazione immobiliare, a pena di nullità del contratto.
Nella sua sentenza, la Corte ha ricordato che una misura massima come quella prevista dalla legge slovena non è contraria al diritto dell’Unione, dal momento che: a) non è discriminatoria, trovando applicazione a prescindere dal luogo della sede della società immobiliare interessata; b) è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale, in quanto idonea a promuovere l’accessibilità di alloggi adeguati a prezzi ragionevoli, a tutela soprattutto delle persone vulnerabili, quali giovani, studenti e anziani; c) è proporzionata, nel senso che la fissazione di un tetto massimo alla provvigione degli intermediari immobiliari può anche contribuire alla protezione dei consumatori, rafforzando la trasparenza dei prezzi e impedendo l’applicazione di tariffe eccessive.
Resta salva, ha concluso la Carte, la facoltà del legislatore interno di introdurre nel proprio ordinamento altri strumenti normativi idonei a perseguire gli scopi dell’Unione, anche eliminando il tetto massimo alle provvigioni degli intermediari immobiliari.
Sentenza del 13 febbraio 2025 della Corte nella causa C-472/23 | Lexitor
Contratti di credito ai consumatori: in caso di inosservanza dell’obbligo di informazione, una banca può essere privata del suo diritto agli interessi.
La Corte precisa le condizioni e i limiti entro cui una banca può essere privata del diritto al pagamento ed alle spese nei confronti del cliente che con essa abbia concluso un contratto di apertura di credito.
Essa ricorda, anzitutto, che nel contratto di credito deve figurare, in modo chiaro e conciso, il tasso annuo effettivo globale (TAEG), che deve essere calcolato al momento della sua conclusione e restare valido per il periodo di tempo convenuto. Il fatto che successivamente alla conclusione del contratto alcune clausole vengano ritenute abusive, e che ciò comporti una variazione del TAEG, non costituisce, di per sé, una violazione dell’obbligo di informazione.
In secondo luogo, il contraente deve essere messo in condizione di comprendere la portata del suo impegno; perciò il contratto deve illustrare, in modo chiaro e comprensibile, tutte le condizioni contrattuali, in maniera che un consumatore medio possa verificare sia il sopravvenire delle circostanze che giustificano la modifica delle condizioni, sia la loro incidenza sulle spese. Pertanto, un contratto che si basa su indicatori difficilmente verificabili dal consumatore può certamente violare l’obbligo di informazione.
Infine, la previsione di una normativa nazionale (come quella vigente in Polonia), che sanziona la violazione dell’obbligo di informazione a carico della banca con la perdita del diritto di percepire gli interessi e le spese, non è ritenuta dalla Corte contraria al diritto dell’Unione. Spetta però al giudice nazionale il compito di verificare caso per caso se ciò sia avvenuto nella controversia sottoposta al suo esame.
Sentenza del 1 agosto 2025 della Corte nella causa C-665/23 | Veracash
L’utente di una carta di pagamento è privato del diritto di ottenere il rimborso di un’operazione di pagamento non autorizzata di cui è venuto a conoscenza se tarda a informarne il suo prestatore in modo intenzionale o con negligenza grave, anche nel caso in cui ne abbia informato l’istituto di pagamento entro tredici mesi dalla data di addebito.
Il codice monetario e finanziario francese, che recepisce la direttiva relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, onera il consumatore, il quale adduca di aver subito prelievi non autorizzati dalla propria carta di prelievo e di pagamento, di denunciare l’accaduto «senza indugio» al suo prestatore di servizi, al fine di ottenerne il rimborso. Detta legge, inoltre, pone un termine massimo di 13 mesi entro cui notificare la richiesta di rimborso.
Nella sentenza in commento, la Corte chiarisce quale sia il livello minimo del dovere di diligenza richiesto al consumatore, e quali le conseguenze in caso di sua inosservanza.
La Corte osserva, in primo luogo, che l’utente di servizi di pagamento decade dal diritto di pretendere il rimborso se non ha informato «il più presto possibile» il suo ente erogatore di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di prelievi abusivi dalla sua carta. Detto onere presuppone che l’utente non abbia agito fraudolentemente o con colpa grave, e trova giustificazione nel fatto che, nell’ottica del contemperamento degli interessi coinvolti, il suo intervento tempestivo può evitare l’aggravamento del danno a carico del prestatore di servizi bancari.
Da ciò discende che, per ottenere il rimborso dei prelievi non autorizzati, è richiesto un triplice requisito, e cioè: 1) che il consumatore non abbia agito con dolo o colpa grave; 2) che ne informi il proprio istituto finanziario appena ne ha conoscenza (termine soggettivo); 3) che la notifica avvenga entro di 13 mesi dal prelievo di che trattasi (termine oggettivo).
Conseguentemente, non spetterà alcun rimborso né se l’utente si accorge del prelievo dopo 13 mesi, né se omette di informare il prestatore con colpevole ritardo rispetto alla scoperta. In ogni caso, l’onere della prova grava sul prestatore di servizi di pagamento, che deve dimostrare che l’operazione è stata autenticata, debitamente registrata e contabilizzata.
Infine, la Corte chiarisce che, qualora si tratti di una successione di operazioni di pagamento non autorizzate, il consumatore può essere privato del rimborso, non già per tutte le operazioni, ma soltanto per quelle delle quali intenzionalmente o in modo gravemente negligente ha tardato a dare informazione.
9) GIUDICI INDIPENDENTI
Sentenza del 4 settembre 20205 della Corte nella causa C-225/22 | AW „T”
Un organo giurisdizionale nazionale deve considerare inesistente la sentenza di un organo giurisdizionale di grado superiore che non costituisce un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge.
Il caso riguardava la cassazione di una sentenza con rinvio operato dalla Sezione di controllo straordinario e delle questioni pubbliche della Corte suprema polacca ; nella specie, il giudice di rinvio riteneva che, in ragione delle irregolarità che avevano viziato la procedura di nomina dei giudici della detta Sezione della Corte suprema polacca in questione, gli effetti di tale sentenza non dovevano essere esaminati, e ciò sebbene la normativa nazionale e la giurisprudenza della Corte costituzionale polacca, vietano al giudice di verificare la regolarità della nomina dei giudici superiori operanti il rinvio.
Il giudice nazionale si è quindi rivolto alla Corte di giustizia, che con la sentenza in epigrafe ha affermato che il giudice nazionale non può ignorare il fatto che la Corte abbia escluso la qualità di organo giurisdizionale della detta Sezione e che la relativa verifica non può essere impedita né dalla normativa nazionale né dalla giurisprudenza della Corte costituzionale polacca, dovendo prevalere il primato del diritto dell’Unione. Secondo la Corte, quindi, qualora il giudice nazionale accerti che la decisione di rinviare la causa per riesame è stata pronunciata da un collegio giudicante che non rispettava i requisiti del diritto dell’Unione, tale decisione dovrebbe essere considerata inesistente, qualora ciò sia necessario per garantire il primato del diritto dell’Unione. Nessuna considerazione fondata sul principio della certezza del diritto o connessa a una presunta autorità di cosa giudicata possono assumere per converso rilevanza.
Sentenza del 1° agosto 2025 della Corte nelle cause riunite C-422/23, C-455/23, C-459/23, C-486/23 e C-493/23 | [Daka] e a. 1
Indipendenza dei giudici: la duplice designazione dei giudici presso la Corte suprema polacca è compatibile con il diritto dell’Unione.
Il caso riguarda il rispetto dei principi di indipendenza e imparzialità dei collegi composti da alcuni giudici, designati dalla Presidenza della Corte senza il loro consenso a svolgere le loro funzioni presso la Sezione civile in via aggiuntiva (e senza alcun esonero dall’esercizio delle attività giurisdizionali presso la loro sezione originaria) rispetto alle funzioni della loro Sezione di appartenenza (nel caso, si trattava di un giudice di altra Sezione civile e di due giudici della Sezione per il lavoro e la previdenza sociale).
Alla Corte di giustizia, adita in via pregiudiziale, è stato chiesto, in particolare, se i collegi della Sezione civile, composti in simili circostanze, rispettino i requisiti di un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, quali previsti dal diritto dell’Unione.
La Corte risponde in senso affermativo, statuendo che è legittimo che il presidente di un organo giurisdizionale possa, a determinate condizioni e temporaneamente, imporre ai giudici una duplice assegnazione, al contempo presso la loro sezione originaria e presso un’altra sezione di tale organo giurisdizionale, in quanto tale misura, puramente organizzativa, può rivelarsi necessaria al fine di garantire una buona amministrazione della giustizia e il rispetto di termini ragionevoli.
La sentenza è importante in quanto la Corte precisa i criteri affinché detto provvedimento sia compatibile con il diritto dell’Unione. Secondo la decisione, la designazione di un giudice al fine di esercitare le funzioni giudicanti presso una sezione diversa dalla sua sezione originaria deve fondarsi su motivi legittimi, essere adottata sulla base delle norme nazionali che disciplinano l’organo giurisdizionale di cui trattasi, essere rigorosamente delimitata nel tempo, non deve rimettere in discussione l'assegnazione del giudice di cui trattasi alla sua sezione originaria e non deve importare né revoca nell’assegnazione a tale giudice delle cause di cui era investito né retrocessione di grado, non deve colpire determinati giudici a causa delle posizioni che essi avrebbero adottato in passato. Resta invece irrilevante l’aumento temporaneo del carico di lavoro o la necessità di affrontare materie estranee alla specializzazione dei giudici designati.
Francesco Buffa, consigliere della Corte di cassazione
Salvatore Centonze, avvocato del Foro di Lecce