Magistratura democratica
Pillole di CGUE

Pillole di CGUE - Quarto trimestre 2021

Le più interessanti pronunce del quarto trimestre 2021

1) INTERNET

Sentenza 21 dicembre 2021della Corte di giustizia nella causa C-251/20

Gtflix Tv

La Corte precisa la competenza giurisdizionale nel caso di diffusione di frasi asseritamente denigratorie su Internet: il risarcimento del danno che ne deriva nel territorio di uno Stato membro può essere chiesto anche dinanzi ai giudici di tale Stato membro.

La Corte, riunita in Grande Sezione, fornisce chiarimenti in merito alla competenza dei giudici nazionali a decidere sulla risarcibilità del danno causato dall’autore della pubblicazione in rete di contenuti denigratori visibili in più Stati membri. In particolare, essa rammenta che l’art. 7, punto 2, del regolamento n. 1215/2012 consente, in via generale, a chi ritiene di essere stato leso da una tale condotta, di esperire un’unica azione per il risarcimento integrale del danno cagionato. 

In tal caso il danneggiato può decidere se iniziare la causa dinanzi ai giudici del luogo ove è stabilito il soggetto che ha emesso tali contenuti, in quanto luogo dell’evento generatore, oppure dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui si trova il suo centro di interessi, in quanto luogo in cui il danno si è concretizzato. 

In entrambi i casi gli è data facoltà di richiedere la rimozione o la rettifica delle espressioni diffamatorie.

Ciò, tuttavia, non esclude la facoltà per il danneggiato di intraprendere una pluralità di azioni innanzi a giudici di altrettanti Paesi membri; in tal caso, pur non potendo disporre in merito alla rettifica o rimozione, ciascun giudice può decidere sulla domanda risarcitoria, sia pur nei limiti della porzione di danno verificatosi all’interno dei confini territoriali in cui ha giurisdizione.   

 

Sentenza 25 novembre 2021 della Corte di giustizia nella causa C-102/20

StWL Städtische Werke Lauf a.d. Pegnitz

La Corte precisa i limiti per la pratica commerciale detta «Inbox Advertising», consistente nella visualizzazione nella casella di posta elettronica in arrivo di messaggi pubblicitari che possono essere confusi con veri e propri messaggi di posta: si tratta infatti di uso della posta elettronica a fini di commercializzazione diretta ai sensi della direttiva 2002/58.

Gli utenti di internet possono scegliere di abbonarsi ad un servizio di posta elettronica a pagamento oppure gratuito; in quest’ultimo caso il servizio è finanziato grazie alla pubblicità pagata dagli inserzionisti, e ciò giustifica la presenza di banner pubblicitari, che viceversa non compaiono negli abbonamenti a pagamento.

Tuttavia, anche quando l’utente opta per il servizio di posta elettronica gratuita, la pubblicità a fini di commercializzazione diretta è consentita solo a condizione che il destinatario vi abbia preliminarmente acconsentito. 

Un siffatto consenso deve tradursi in una manifestazione di volontà libera, specifica e informata da parte della persona interessata. 

La visualizzazione nella casella di posta elettronica in arrivo di messaggi pubblicitari che possono essere confusi con veri e propri messaggi di posta (pratica commerciale detta «Inbox Advertising») costituisce una comunicazione a scopo di commercializzazione diretta e, in quanto tale, subordinata ad un valido e consapevole consenso del destinatario.

Spetta pertanto al giudice nazionale stabilire, di volta in volta, se l’utente che ha optato per la gratuità di un servizio di posta elettronica, sia stato informato delle precise modalità di diffusione di una siffatta pubblicità, e abbia effettivamente acconsentito a ricevere messaggi pubblicitari.

Devono comunque considerarsi «ripetute e sgradite sollecitazioni commerciali» di cui alla direttiva 2005/29 le visualizzazioni di messaggi pubblicitari avvenuti con frequenza e regolarità, in mancanza di un consenso fornito preliminarmente dall’utente di cui trattasi.

 

2) DISCRIMINAZIONI

Sentenza 14 dicembre 2021della Corte di giustizia nella causa C-490/20

Stolichna obshtina, rayon "Pancharevo" (Comune di Sofia, distretto di Pancharevo)

All’esame della Corte la fattispecie relativa ad un cittadino minorenne dell’Unione il cui atto di nascita emesso dallo Stato membro ospitante designa come suoi genitori due persone dello stesso sesso: lo Stato membro di cui è cittadino il minore è obbligato a rilasciargli una carta d’identità o un passaporto, senza richiedere la previa emissione di un atto di nascita da parte delle sue autorità nazionali.

L’ordinamento bulgaro non consente di contrarre matrimonio a due persone dello stesso sesso. 

Per tale ragione il comune di Sofia ha negato l’iscrizione anagrafica, finalizzata al rilascio del documento di identità, della figlia minore di una coppia omosessuale coniugata in Spagna, ove era anche stata registrata la nascita della minore. 

Una delle madri ha proposto ricorso avverso la decisione di rigetto di iscrizione anagrafica dinanzi al Tribunale amministrativo di Sofia, che a sua volta ha investito la Corte, chiedendo se detto rifiuto violi i diritti conferiti al cittadino dell’Unione dagli articoli 20 e 21 TFUE, nonché dagli articoli 7, 24 e 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La Corte, riunita in Grande Sezione, ricorda che i diritti riconosciuti ai cittadini degli Stati membri all’articolo 21, paragrafo 1, TFUE includono il diritto di condurre una normale vita familiare sia nello Stato membro ospitante sia nello Stato membro del quale essi possiedono la cittadinanza, al ritorno in tale Stato membro, ivi beneficiando della presenza, al loro fianco, dei loro familiari. 

Pertanto, ciascuno Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato relative alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro conformemente al diritto di quest’ultimo.

La Corte statuisce quindi che non viola l’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico l’obbligo per uno Stato membro di rilasciare un documento d’identità a un minore, cittadino di tale Stato, nato in un altro Stato membro e il cui atto di nascita è stato emesso e designa come suoi genitori due persone dello stesso sesso.

Secondo il giudice europeo, l’indicato obbligo non implica anche che lo Stato membro sia costretto a prevedere, nel suo diritto interno, la genitorialità di persone dello stesso sesso o a riconoscere il rapporto di filiazione a fini diversi dall’esercizio dei diritti dell’Unione. È però contrario al diritto dell’Unione privare il minore del rapporto con uno dei suoi genitori nell’ambito dell’esercizio del suo diritto alla libera circolazione o rendergli impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso.

 

3) IMMIGRAZIONE

Sentenza 16 novembre 2021della Corte di giustizia nella causa C-821/19

Commissione/ Ungheria

Sanzionando penalmente l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di protezione internazionale da parte di persone che non soddisfano i criteri nazionali di riconoscimento di tale protezione, l’Ungheria ha violato il diritto dell’Unione.

Nel 2018 l’Ungheria ha modificato la propria legislazione sull’accoglienza degli immigrati, introducendo tra l’altro due misure di contrasto all’immigrazione illegale. Da una parte è stata introdotta una ipotesi di inammissibilità della domanda di asilo nel caso che il richiedente avesse, prima di raggiungere l’Ungheria, attraversato un altro Stato che gli garantiva di non essere esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui era garantito un adeguato livello di protezione; dall’altra ha previsto sanzioni penali a carico di chi avesse agevolato l’inoltro di domande di asilo da parte di persone che non ne avrebbero avuto diritto in base alla legge ungherese.

La Commissione ha proposto ricorso innanzi alla Corte, ritenendo entrambe le disposizioni contrarie al diritto dell’Unione e segnatamente alle direttive «procedure» e «accoglienza» (ossia rispettivamente alla Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, ed alla Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale).

La Corte, riunita in Grande Sezione, ha accertato che, effettivamente, l’Ungheria aveva introdotto una ipotesi di inammissibilità della domanda di asilo al di fuori dell’elenco delle situazioni in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile; inoltre, la Corte ha precisato che detto elenco, inserito nella direttiva «procedure», deve considerarsi tassativo e vincolante per tutti i Paesi membri.

Anche con riferimento all’introduzione delle nuove fattispecie penali, la Corte ha accolto il nucleo centrale delle doglianze della Commissione osservando, da una parte, che secondo tali disposizioni sarebbero andati incontro a condanna anche coloro che, pur consapevoli della contrarietà al diritto ungherese, avessero agevolato la presentazione di una domanda di asilo conforme al diritto dell’Unione; dall’altra che sarebbero stati sanzionati anche coloro che avessero agevolato la presentazione di una domanda inammissibile secondo il diritto ungherese, ma in violazione del principio di tassatività della direttiva «procedure».  

In conclusione, la Corte ha dichiarato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza delle direttive «procedure» e «accoglienza». 

 

4) INDIPENDENZA DEI GIUDICI

Sentenza 6 ottobre 2021della Corte di giustizia nella causa C-487/19 (W. Ż. e des affaires publiques de la Cour suprême - nomination)

I trasferimenti di un giudice senza il suo consenso a un altro organo giurisdizionale o da una sezione all’altra di uno stesso organo possono contrastare con i principi di inamovibilità e di indipendenza dei giudici.

L’ordinanza con la quale un organo che si pronuncia in ultimo grado e come giudice unico ha respinto il ricorso di un giudice trasferito contro la sua volontà dev’essere considerata inesistente qualora la nomina di tale giudice unico sia avvenuta in palese violazione delle norme fondamentali riguardanti l’istituzione e il funzionamento del sistema giudiziario di cui trattasi.

Il caso riguardava un giudice del tribunale regionale polacco (Sąd Okręgowy) trasferito senza il suo consenso ad altra sezione del medesimo tribunale. Il giudice aveva proposto un ricorso dinanzi alla Krajowa Rada Sądownictwa (Consiglio nazionale della magistratura), definito con non luogo a statuire, e poi dinanzi al Sąd Najwyższy (Corte suprema); nel contempo, il giudice aveva ricusato tutti i giudici di quest’ultima Corte, in quanto nominati sulla base di delibera del Consiglio nazionale della Magistratura sospesa dalla Naczelny Sąd Administracyjny (Corte suprema amministrativa). La Corte suprema aveva  quindi sollevato la questione pregiudiziale comunitaria in ordine al trasferimento del giudice.

Con la sentenza che si segnala, la Corte di Giustizia afferma intanto che il detto tribunale regionale deve essere considerato un organo giurisdizionale ordinario idoneo ad applicare il diritto dell’Unione ai sensi del TUE: ai suoi giudici, pertanto, devono essere assicurate le garanzie di indipendenza e inamovibilità, fondamentali per metterli al riparo da interventi esterni diretti o indiretti idonei ad incidere sulla loro libertà giudizio.

Secondo la Corte, i trasferimenti di un giudice possono costituire un mezzo per esercitare un controllo sul contenuto delle decisioni giudiziarie, dal momento che essi possono non soltanto incidere sulla portata delle attribuzioni dei magistrati interessati e sulla trattazione dei fascicoli loro affidati, ma anche avere conseguenze notevoli sulla loro vita e sulla loro carriera e, quindi, comportare effetti analoghi a quelli di una sanzione disciplinare. Per tali motivi i trasferimenti di un giudice senza il suo consenso a un altro organo giurisdizionale sono potenzialmente atti a pregiudicare i principi di inamovibilità e di indipendenza, e quindi sono contrari al diritto dell’Unione.

Infine, la Corte ha anche aggiunto che deve considerarsi priva di effetti la decisione del Giudice di ultima istanza (Sąd Najwyższy) che ha respinto il ricorso del collega trasferito senza il suo consenso, ove sia accertato che la nomina del giudice di ultima istanza sia avvenuta in palese violazione di norme fondamentali dell’istituzione e del funzionamento del sistema giudiziario interessato, così che non possa considerarsi detta decisione emessa da un giudice indipendente e imparziale precostituito per legge.

 

Sentenza  16 novembre 2021 della Corte di giustizia nelle cause riunite C-748/19, C-749/19, C-750/19, C-751/19, C-752/19, C-753/19, C-754/19

Prokuratura Rejonowa w Mińsku Mazowieckim

Il diritto dell’Unione osta al regime in vigore in Polonia che consente al Ministro della Giustizia di distaccare i giudici presso organi giurisdizionali penali superiori, distacco al quale tale Ministro, che è al contempo procuratore generale, può porre fine in qualsiasi momento senza motivazione.

Con la sentenza in commento la Corte, riunita in Grande Sezione, torna ad occuparsi di violazioni dei principi di inamovibilità ed indipendenza dei giudici polacchi.

In base al diritto polacco, il Ministro della Giustizia può mediante distacco assegnare un giudice presso un organo giurisdizionale penale di grado superiore sulla base di criteri che non predefiniti e non conoscibili, e senza che la decisione di distacco possa essere impugnata in sede giurisdizionale.  Allo stesso modo, il Ministro può revocare tale distacco in qualsiasi momento senza obbligo di motivazione.

Investita della questione, la Corte osserva che il requisito dell’indipendenza dei giudici impone che le norme relative al distacco dei giudici presentino le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio che esso sia impiegato quale strumento di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie, in particolare nel settore penale. 

Ciò significa anzitutto che sia il distacco che la revoca devono essere adottati sulla base di criteri noti in anticipo ed essere debitamente motivati.

Inoltre, poiché la revoca del distacco di un giudice senza il suo consenso può comportare per quest’ultimo effetti analoghi a quelli di una sanzione disciplinare, una misura del genere dovrebbe poter essere impugnata in sede giurisdizionale, seguendo una procedura che garantisca pienamente i diritti della difesa. 

Per di più, rilevando che il Ministro della Giustizia ricopre altresì la posizione di procuratore generale, la Corte constata che esso dispone in tal modo, nell’ambito di un determinato procedimento penale, di un potere tanto sul procuratore ordinario quanto sui giudici distaccati, il che può far sorgere dubbi legittimi in capo ai singoli circa l’imparzialità di detti giudici distaccati.

Un potere del genere non può essere considerato compatibile con lo status d’indipendenza di cui i giudici devono godere. 

L’indipendenza e l’imparzialità dei giudici sono condizioni essenziali affinché la presunzione di innocenza sia garantita. La direttiva 2016/343 impone infatti che il giudice penale, quando esamina la responsabilità dell’accusato, sia immune da qualunque parzialità e pregiudizio. 

Nel caso di specie quindi, l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici e, di conseguenza, la presunzione di innocenza, non sono sufficientemente garantiti.

 

5) DIRITTO DELL’UNIONE E GIUDIZI INTERNI

Sentenza 6 ottobre 2021della Corte di giustizia nella causa C-561/19

Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi e Catania Multiservizi

La Corte precisa la propria giurisprudenza «Cilfit» riguardo alle situazioni in cui i giudici nazionali di ultima istanza non sono soggetti all'obbligo di rinvio pregiudiziale.

Nel caso, il Consiglio di Stato si era rivolta alla Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale nell'ambito di una controversia riguardante un appalto pubblico di servizi di pulizia, in particolare, di stazioni ferroviarie italiane; la Corte aveva quindi pronunciato la sua sentenza nel 2018. Le parti di tale controversia avevano quindi successivamente chiesto al giudice del rinvio di sottoporre alla Corte altre questioni pregiudiziali. In tale contesto, il Consiglio di Stato italiano ha chiesto alla Corte se, nella sua funzione di giudice nazionale di ultima istanza, fosse obbligato a sollevare pregiudiziale comunitaria sull’applicazione del diritto dell’Unione, anche se la relativa istanza fosse pervenuta da una parte in una fase processuale avanzata, e dopo che nello stesso procedimento vi era già stato un rinvio pregiudiziale su cui era intervenuta la decisione della Corte stessa. 

La Corte, riunita in Grande Sezione, nel segno della continuità con la propria giurisprudenza, precisa e ribadisce che il giudice nazionale di ultima istanza è esonerato da un siffatto obbligo soltanto in tre situazioni: 

i) se la questione da sottoporre alla Corte non è rilevante per dirimere la controversia sottoposta al giudice nazionale; 

ii) se la disposizione del diritto dell'Unione di cui si tratta è già stata oggetto di interpretazione da parte della Corte; 

iii) se la corretta interpretazione del diritto dell’Unione è talmente evidente da non lasciar adito a ragionevoli dubbi. 

Inoltre, può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte, se i motivi prospettati al giudice nazionale sono irricevibili, a condizione che le norme processuali nazionali applicabili rispettino i principi di equivalenza ed effettività.

Al di fuori di questi casi, pertanto, il giudice non può essere liberato dal suo obbligo di rinvio pregiudiziale per il solo fatto di aver già adito la Corte in via pregiudiziale nell'ambito del medesimo procedimento. 

 

Sentenza 21 dicembre 2021 della Corte di giustizia nella causa C-497/20

Randstad Italia

Il diritto dell’Unione non osta a che l’organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro non possa annullare una sentenza pronunciata in violazione di tale diritto dal supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato membro.

Il Consiglio di Stato dichiarava irricevibili i motivi di impugnazione presentati da una società esclusa da una gara indetta dall’Azienda USL Valle d’Aosta per un appalto pubblico al fine di individuare un’agenzia per il lavoro cui affidare la somministrazione temporanea di personale.  Contro questa decisione, l’azienda ricorreva dinanzi alla Corte suprema di cassazione, lamentando che il rifiuto da parte del Consiglio di Stato di esaminare i motivi vertenti sull’irregolarità della procedura di gara violava il suo diritto a un ricorso effettivo, ai sensi del diritto dell’Unione.

La Corte di Cassazione sollevava questione pregiudiziale comunitaria, al fine di chiarire se il diritto dell’Unione osti a una disposizione di diritto interno che, secondo la giurisprudenza nazionale, non consente al singolo di contestare, nell’ambito di un ricorso per cassazione dinanzi a tale giudice, la conformità al diritto dell’Unione di una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa: infatti, la Cassazione, pur riconoscendo che la decisione del Consiglio di Stato fosse contraria al diritto dell’Unione, avrebbe comunque dovuto dichiarare irricevibile il ricorso, dacché contro le decisioni del Consiglio di Stato il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, mentre, nel caso di specie, il ricorso era fondato su un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione. 

La Corte, riunita in Grande Sezione, dichiara che una siffatta disposizione è conforme al diritto dell’Unione; essa ricorda, infatti, che il diritto dell’Unione non produce l’effetto di obbligare gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso diversi da quelli già contemplati dal diritto interno, a meno che non esista alcun rimedio giurisdizionale che permetta di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione. 

La Corte di Giustizia offre notevoli spunti in ordine alla garanzia del diritto ad un ricorso effettivo e dei corrispondenti limiti alla declaratoria di irricevibilità dei ricorsi amministrativi, affermando tra l’altro che è di regola sufficiente, per dichiarare ricevibile il ricorso, che esista una possibilità che l’amministrazione aggiudicatrice, in caso di accoglimento del ricorso, sia indotta a ripetere la procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, trovando tale principio limite solo nella esclusione -definitiva e sottoposta a vaglio giudiziario- dell’offerente dalla procedura.

La Corte osserva che nel caso al ricorrente non è stato negato il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice indipendente e imparziale, né gli è stato impedito di far valere in modo effettivo dinanzi ad esso una violazione del diritto dell’Unione o delle disposizioni del diritto nazionale che lo recepiscono nell’ordinamento giuridico interno.

Resta però una valvola di sicurezza non irrilevante: è fatto salvo, infatti, secondo la Corte, il diritto del privato di porre rimedio all’errore giudiziario intentando un giudizio risarcitorio in cui far valere la responsabilità dello Stato membro, ricorrendone le condizioni.

 

photo credits: Corte di Giustizia dell'Unione Europea

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Francesco Buffa, consigliere della Corte di cassazione
 
Salvatore Centonze, avvocato del Foro di Lecce

11/02/2022
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SOMMARIO. 1. La sentenza Randstad. – 2. I difficili rapporti tra i vertici delle giurisdizioni. – 3. La mancata applicazione del diritto dell’Unione: violazione di diritto, non eccesso di potere giurisdizionale. – 4. Il rispetto dell’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione.

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