Magistratura democratica
Magistratura e società

La nuova cultura dell’individuo emozionale e sempre emozionato *

di Gabriella Turnaturi
Alma mater professor di sociologia, Università di Bologna
Di cosa è fatta la discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale? Ancora una riflessione dopo le sentenze di Bologna e Genova su casi di femminicidio

Le sentenze di Bologna e Genova verso uomini che hanno ucciso delle donne hanno provocato un dibattito che oppone apparentemente le ragioni dei magistrati e le ragioni delle donne. Ma in realtà mette a confronto due diverse posizioni all’interno della stessa neocultura emozionale. Ho l’impressione che da una parte e dall’altra si eviti una riflessione sulla cultura nella quale siamo immersi, che produciamo e riproduciamo quotidianamente attraverso discorsi, articoli, tweet e post. E come scrive il filosofo sloveno Slavoj Zizek «se in un conflitto uno schieramento ha torto non è detto che l’altro abbia ragione»

I magistrati emettono le loro sentenze seguendo i codici, regole e regolamenti e affermano la loro giusta volontà di non farsi condizionare dal contesto sociopolitico e culturale. Ma è possibile esserne fuori? Le sentenze e le parole usate per scriverle influenzano, formano e riproducono comunque opinioni, orientamenti, comportamenti e senso comune. Le parole e il linguaggio non sono mai neutrali e s’inseriscono sempre in un discorso pubblico. Le affermazioni usate nelle sentenze in questione, ad esempio, mostrano la pervasività del culto delle emozioni nelle nostre società contemporanee. Culto in base al quale tutti dovremmo agire seguendo le emozioni per affermare la nostra autenticità e autorealizzarci. I giudici, come tutti gli altri, partecipano, nel senso che ne fanno parte, di questa cultura e finiscono per legittimarla. Anche se la giustizia si basa e si riferisce a principi universalistici e generali, resta comunque una sfera non del tutto separabile dalla cultura dominante. Quindi non è in discussione la correttezza o meno delle sentenze emanate ma, almeno secondo me, la necessità di una maggiore autoconsapevolezza, e di riflessione da parte dei giudici sulla cultura in cui operano.

Proprio perché i magistrati non vivono nell’empireo è da loro che deve venire una riflessione su cosa le loro sentenze producono e sulla cultura che loro stessi esprimono e sostengono consapevolmente o inconsapevolmente. Senza contare che a volte anche le sentenze possono produrre mutamenti culturali.

Di cosa è fatta la discrezionalità dei giudici se non da un complesso intreccio fra conoscenza giuridica, sensibilità, cultura ed esperienza personale?

Se nessuno è al di sopra delle leggi, nessuno è fuori dalla cultura in cui vive.

Dalla parte delle donne invece non si distingue fra l’ira giusta, l’indignazione, che non sono mai disgiunte dalla ragionevolezza e dalla chiarezza dei fini che si vogliono ottenere, e la rabbia che travolge tutto e tutti senza distinzione. Si chiede da più parte una mobilitazione permanente e si mettono sotto accusa i magistrati. Ho l’impressione che ancora una volta s’indichi il dito e si perda di vista la luna. Per cui accade che la giusta indignazione prenda la deriva dell’attacco alla magistratura tout court e finisca dentro lo schieramento giustizialista del finto garantismo proprio di chi sostiene, legittima e riproduce una cultura misogina e di disprezzo per la libertà e l’autonomia femminile. Se il Ministro Salvini grida dopo le ultime sentenze «bisogna farli marcire in galera», le donne giustamente indignate devono prenderne le distanze. Credo che vada chiarito come ciò che indigna non sia l’entità della pena, ma quelle affermazioni che sembrano dare un peso e un valore eccessivo agli impulsi emotivi rispetto al riconoscimento e il rispetto della vita e della libertà femminile. Come credo che andrebbe chiarito che non si tratta di ritorno al passato. Proprio le donne dovrebbero, invece di sospettare e denunciare il ritorno al delitto d’onore, svelare come tutti i femminicidi così violenti e così frequenti siano frutto di una cultura malata basata sul non riconoscimento dell’altro, su un risentimento e su una rabbia diffusa del tutto nuova.

Siamo tutti immersi in una cultura e in un sistema di valori narcisistica, in una cultura che deresponsabilizza e legittima ogni reazione all’offesa che ciascuno crede di aver subito; ogni reazione violenta ad ogni delusione, abbandono e mancata gratificazione. Non importa più l’esistenza, la vita dell’altro, ma solo la propria gratificazione e la riparazione all’offesa ricevuta.

Può la giustizia ignorare questa cultura che sta diventando senso comune? Possono i giudici inconsapevolmente legittimare la deresponsabilizzazione tirando in ballo l’emotività e le emozioni?

E possono le donne farsi agire dalla rabbia e confondere obiettivi e fini delle loro azioni?

È il sistema culturale che va smontato e decostruito e che riguarda tutti, non solo le donne. Quella stessa cultura narcisistica e questo titillare e invocare le emozioni è alla base non solo delle politiche di non riconoscimento della libertà femminile, ma anche del razzismo e delle nuove leggi sulla legittima difesa. Il rischio è che l’omicidio nei confronti di una donna, perché non è stata abbastanza gratificante e ha provocato la sofferenza di un uomo, venga legittimato, riconosciuto, come si vorrebbe giustificare l’omicidio del ladro che attenta alla proprietà. Perché ambedue gli omicidi avrebbero lo stesso movente: la rabbia e la vendetta.

È da questo modo di ragionare che dobbiamo difenderci, scrollarci di dosso questa vischiosità emozionale propagandata come autenticità, che tutto sembra travolgere e giustificare. Inveire contro i giudici fa parte di questa stessa cultura della rabbia diffusa, di questa vischiosità emozionale.

Tutto sembra dominato dalle emozioni che di nuovo vengono restituite al mondo naturale e istintuale, senza alcun nesso con la ragione. Proprio mentre l’uso di tecniche e della ragione strumentale manipola le emozioni rivendendocele come se fossero autenticamente nostre. Questa scissione fra mondo emozionale e mondo delle ragioni produce una cultura della irresponsabilità e della falsa autenticità, della “autenticità istituzionalizzata”. Permette inoltre il dominio delle percezioni e delle sensibilità, della cultura del vittimismo e di una politica che si afferma attraverso la manipolazione delle emozioni e della suggestione a scapito dei duri fatti e dell’argomentazione razionale.

E accanto alla non responsabilità verso le conseguenze delle proprie azioni si afferma la convinzione che andare “dove ti porta il cuore” sia sempre la strada giusta, e la legittimazione di nuovi criteri e modalità dell’agire.

“Lì dove c’è il diverso devi aver paura” “Alle disuguaglianze è giusto reagire con il risentimento e chiedere vendetta”; “Se sei una donna devi fare felice il tuo uomo” “Se una donna ti delude o vuole andare per la sua strada fai bene ad arrabbiarti”.

Alla biopolitica si è affiancata la politica delle emozioni.

Eppure il bene e il male non si compiono in base alle sole emozioni ma si scelgono, si compiono e si declinano secondo un sistema di valori, di credenze, di universi simbolici, e di educazione sentimentale condivisa.

Forse più che di mobilitazione abbiamo bisogno di più riflessione, in cui donne e giudici consapevoli siano impegnati insieme.

L’abolizione del delitto d’onore benché tardivo, fu dovuta non solo alla nuova consapevolezza femminile, all’irruzione nella sfera pubblica dei corpi e delle parole delle donne, ma anche all’impegno di giuristi e magistrati che ne accolsero le giuste rivendicazioni e si schierarono in difesa della parità dei diritti delle donne e degli uomini.

[*] Sulla sentenza della Corte d'assise d'appello di Bologna n. 29/2018, per ulteriori approfondimenti, si rimanda a: E. Canevini, La valutazione delle dichiarazioni dell’imputato nei reati caratterizzati da violenza di genere, in questa Rivista on-line, 12 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-delle-dichiarazioni-dell-imputato-nei-reati-caratterizzati-da-violenza-di-genere_12-03-2019.php; D. Iannelli, Corte d'assise d'appello di Bologna, brevi riflessioni sulla sentenza n. 29/2018 tra amici e nemici delle donne e della giurisdizione, in questa Rivista on-line, 19 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/tribunale-di-bologna-brevi-riflessioni-sulla-sente_19-03-2019.php  

27/03/2019
Altri articoli di Gabriella Turnaturi
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
Fine vita: il suicidio assistito in Europa e la palude italiana

A fronte dell’infinito confronto, esistenziale e filosofico, sui temi della libertà di vivere e della libertà di morire, è emersa in Europa una nuova domanda sociale: quella di una libertà del morire che sia tutelata dall’ordinamento giuridico non solo come “libertà da” e come espressione di autodeterminazione ma anche come un vero e proprio “diritto sociale” che assicuri l’assistenza di strutture pubbliche nel momento della morte volontaria. In questi ultimi anni, in alcuni Paesi europei sono stati compiuti significativi passi verso un nuovo regime del fine vita mentre in altri vi sono cantieri aperti ormai ad un passo dalla positiva chiusura dei lavori. Il Regno Unito sta approvando una nuova legge destinata a superare il Suicide Act del 1961. In Germania la Corte costituzionale, con una decisione del 2020, ha affermato che esiste un diritto all’autodeterminazione a morire ed a chiedere e ricevere aiuto da parte di terzi per l’attuazione del proposito suicidario. In Francia una nuova normativa, in corso di approvazione, è stata preceduta e preparata da un importante esperimento di democrazia deliberativa come l’istituzione di una Convention Citoyenne Cese sur la fin de vie, formata per sorteggio e chiamata a fornire un meditato e informato parere sul fine vita. La situazione del nostro Paese resta invece caratterizzata da una notevole dose di ipocrisia e da un altrettanto elevato tasso di confusione istituzionale. La radicale negazione dell’esistenza di un diritto a morire proveniente dalla maggioranza di governo coesiste infatti con il riconoscimento di diverse possibilità legittime di porre fine volontariamente alla propria vita in particolari situazioni: rifiuto delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito in presenza delle condizioni previste dalle pronunce della Corte costituzionale. Dal canto suo il legislatore nazionale è stato sin qui paralizzato da veti e contrasti ed appare incapace di rispondere alla domanda, che sale con crescente intensità dalla società civile, di tutelare il diritto “doloroso” di porre fine ad una esistenza divenuta intollerabile. In questa situazione stagnante la domanda sociale di libertà del morire si è trovata di fronte solo l’arcigna disciplina del fine vita dettata dagli artt. 579 e 580 di un codice penale concepito in epoca fascista. Da questo impatto sono scaturite le forme di disobbedienza civile consistenti nel prestare aiuto, sfidando le norme penali, a chi in condizioni estreme aspirava ad una fine dignitosa. E, a seguire, i giudizi penali nei confronti dei disobbedienti e le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso dei processi dai giudici che hanno innescato i numerosi interventi della Corte costituzionale, sinora decisivi nel disegnare la disciplina del fine vita. Da ultimo un tentativo di superare l’inerzia del parlamento è stato compiuto da due Regioni - Toscana e Sardegna - che hanno approvato leggi sul fine vita, individuando come requisiti per accedere all’assistenza al suicidio quelli previsti dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e disegnando procedure per ottenere la prestazione assistenziale richiesta. La reazione del governo è consistita nell’impugnare la legge regionale toscana ritenuta esorbitante dalle competenze regionali e lesiva di competenze esclusive dello Stato. Reazione non priva di qualche fondamento giacchè la prospettiva di regimi del fine vita differenziati su base regionale appare criticabile sotto il profilo giuridico e non certo desiderabile nella pratica, ma singolare quando provenga dal uno Stato che sinora si è dimostrato incapace di dettare una normativa rispondente alle istanze di riconoscimento di libertà e di diritti sul fine vita che provengono dalla società italiana. 

19/11/2025
Camera dei deputati, Comm. Giustizia: Esame ddl 2528/2025 recante "Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime" (approvato dal Senato) (2528)

La presente relazione scritta costituisce la versione estesa della relazione tenuta dal dott. Fabrizio Filice (giudice del Tribunale di Milano) alla Commissione Giustizia, il 14 ottobre 2025, la quale segue e aggiorna la relazione già tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, il 24 aprile 2025, sulla precedente versione del disegno di legge (1433), successivamente modificato (nel 2528) e approvato dal Senato il 23 luglio 2025.

27/10/2025
Maternità in carcere alla luce del “Decreto Sicurezza” 48/2025: trattamento o esclusione?

Un saggio a tutto tondo sulla maternità in carcere e sulla detenzione femminile, riletti alla luce delle regressive modifiche contenute nel c.d. Decreto Sicurezza 48 del 2025

09/10/2025
La denuncia riservata. Spunti per un parziale cambio di passo nella legislazione antimafia

Riflessioni a partire dal volume di Arturo Capone La denuncia riservata. Genesi e metodo delle mafie, limiti della legislazione antimafia e spunti per una strategia processuale di contrasto (Giappichelli, 2025)

22/09/2025
Dare senso all'indicibile

Guardando Elisa, film di Leonardo Di Costanzo

20/09/2025
Il reato di «Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina» (art. 12-bis t.u. imm.). Uno strumento sproporzionato e inefficace per il contrasto al traffico di migranti

Il contributo esamina il delitto di cui all’art. 12-bis del testo unico immigrazione, introdotto dal decreto-legge n. 20/2023 all’indomani del tragicamente noto naufragio di Cutro. L’analisi rivela criticità attinenti sia alla prevedibile inefficacia della nuova figura di reato, rispetto al dichiarato obiettivo di contrastare le forme più gravi di traffico di migranti; sia alla manifesta sproporzione dei minimi edittali, rispetto alle condotte connotate da minore disvalore, come quelle riconducibili ai c.d. migranti-scafisti.

22/07/2025