Magistratura democratica
Magistratura e società

Parole che smuovono le pietre

di Caterina Bubba
docente di Lingua e letteratura italiana, Liceo Scientifico Statale Lorenzo Mascheroni di Bergamo
A tre anni dalla sua uscita, Fine pena: ora di Elvio Fassone − il libro che racconta il carteggio ultredecennale tra un ergastolano e il suo giudice − è diventato uno spettacolo teatrale. Le sue pagine continuano ad agitare le nostre coscienze, emozionandoci e ponendo questo quesito: «Come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato»? Un interrogativo che coinvolge il nostro Paese in un momento storico in cui la riforma penitenziaria è stata finalmente approvata dal Consiglio dei ministri il 16 marzo 2018, anche se il suo iter non si è ancora concluso.
Parole che smuovono le pietre

Sabato 10 marzo gli studenti del Liceo Scientifico Statale Lorenzo Mascheroni di Bergamo, impegnato da anni nel progetto di educazione alla legalità grazie all’azione sinergica di docenti, genitori e studenti, hanno avuto l’occasione di incontrare Elvio Fassone autore del libro Fine pena: ora (Sellerio, 2015) e rappresentato presso il Piccolo Teatro di Milano nel novembre scorso con la drammaturgia di Paolo Giordano e la regia di Mauro Avogadro [1].

Il libro racconta il carteggio, ormai trentennale, che Fassone, presidente della Corte d’assise nel maxi-processo di Torino del 1985 alla mafia catanese, ha intrapreso di sua iniziativa con uno degli imputati, Salvatore, da lui condannato all’ergastolo.

Il testo si impone sin dalle prime pagine per la forza delle sue parole e per il portato di verità di cui l’autore si fa testimone. La veridicità del racconto è garantita, infatti, oltre che dall’alto profilo istituzionale, morale e umano che riconosciamo a chi scrive, dalla natura totalmente disinteressata di questa corrispondenza e dall’obiettivo che l’autore si è dichiaratamente posto con la pubblicazione del suo libro: attestare e non dimostrare alcune cose sulla vita di un ergastolano che, come Salvatore, dopo essersi macchiato di crimini efferati, si è seriamente impegnato durante gli anni della detenzione per diventare un uomo diverso.

La storia di Salvatore si offre quindi come un’ulteriore variabile, all’interno del dibattito sull’ergastolo, per stimolare la riflessione (delle istituzioni, del mondo della giustizia e della politica, ma, ancor prima, di tutta la società civile) sul tema della rieducazione, parola faro del trattamento penitenziario, che, in linea con i principi della nostra Costituzione, vieta alla pena di essere solamente pena.

La storia fallimentare di Salvatore, il suo tentativo frustrato di risalire dal tunnel del carcere duro, di ottenere l’articolo 21 e la semilibertà, ha spinto Fassone a una valutazione attenta, ponderata, cauta, ma sempre rigorosa e severa di tutti i fattori che hanno impedito questo percorso di riabilitazione: l’esigenza della prevenzione, necessaria e ineludibile, a salvaguardia della società civile e dello stato stesso in un regime di eccezione che costituisce un pericolo grave e che rischia di allentare la difesa intransigente di ogni minima garanzia; la necessità della legge che, procedendo per generalia, tritura, impassibile; l’applicazione talora asettica delle regole; la prudenza talvolta un po’ rancida all’insegna del non volere grane; il rifugio anestetico nelle procedure; la prudenza elevata a sapienza; episodi di ordinaria crudeltà carceraria; la complessità della realtà penitenziaria; la logica distorta di una società inzuppata di paura che esige che paghino tutti, anche se la colpa è di uno solo.

A sorreggerlo nell’esame, di rigore leviano, delle concause che hanno portato al fallimento di Salvatore e al suo tentato suicidio la convinzione profonda e, nel contempo, la speranza che la rieducazione e il reinserimento del detenuto possano essere resi sempre praticabili su ogni singolo soggetto che lo voglia e che si possano trovare altre forme e modalità di risarcimento che siano a misura d’uomo, della libertà e dignità che vanno riconosciute ad ogni uomo, anche all’uomo in carcere.

E proprio il libro si offre come un percorso praticabile di rieducazione, per il valore terapeutico e formativo che Elvio Fassone attribuisce ai libri, alla letteratura, e come un percorso di re-inserimento, per l’accoglienza che lui ha accordato alla domanda di adozione, di cura, di paternità che Salvatore gli ha rivolto.

Stupisce e commuove che un uomo come Salvatore, che fino ad allora ha letto solo atti processuali e che prende la licenza di quinta elementare in carcere, riconosca immediatamente il valore comunicativo e umano profondo dei libri, primo fra tutti Siddharta di Hermann Hesse, che Fassone gli invia, mosso dalla convinzione che, certe volte, una pagina, una frase, una parola possano smuovere delle pietre pesanti sul nostro scantinato.

La letteratura, che costituisce una sorta di seconda trama all’interno di questo libro, diventa quindi terreno di dialogo con Salvatore, mezzo di riflessione e di espiazione, strumento di indagine della realtà e fonte di quei valori di solidarietà e umanità, nell’accezione più profonda del termine, che costituiscono (o dovrebbero costituire) il fondamento della nostra cultura, anche di quella giuridica.

La domanda di adozione, di cura, di paternità che Salvatore rivolge a Fassone e che quest’ultimo ha saputo comprendere ed accogliere, oltre a testimoniare l’assenza di padri nella società contemporanea e la realtà di abbandono, di marginalità e di degrado in cui vivono moltissimi giovani oggi, si configura, con assoluta e sincera naturalezza, come un invito profondo ad accogliere. Nessun buonismo, nessuna retorica dei sentimenti, ma la speranza che la società civile e le istituzioni facciano sentire più forte e incisiva la loro presenza laddove il degrado e il senso di abbandono sono maggiori.

*L'immagine di copertina è di Masiar Pasquali. È una foto di scena dello spettacolo Fine pena: ora. Tutte le info su https://www.piccoloteatro.org/it/2017-2018/fine-pena-ora

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[1] Elvio Fassone è stato presidente della Corte d'assise di Torino, componente del Consiglio superiore della magistratura e senatore della Repubblica italiana.

17/03/2018
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Fine vita: il suicidio assistito in Europa e la palude italiana

A fronte dell’infinito confronto, esistenziale e filosofico, sui temi della libertà di vivere e della libertà di morire, è emersa in Europa una nuova domanda sociale: quella di una libertà del morire che sia tutelata dall’ordinamento giuridico non solo come “libertà da” e come espressione di autodeterminazione ma anche come un vero e proprio “diritto sociale” che assicuri l’assistenza di strutture pubbliche nel momento della morte volontaria. In questi ultimi anni, in alcuni Paesi europei sono stati compiuti significativi passi verso un nuovo regime del fine vita mentre in altri vi sono cantieri aperti ormai ad un passo dalla positiva chiusura dei lavori. Il Regno Unito sta approvando una nuova legge destinata a superare il Suicide Act del 1961. In Germania la Corte costituzionale, con una decisione del 2020, ha affermato che esiste un diritto all’autodeterminazione a morire ed a chiedere e ricevere aiuto da parte di terzi per l’attuazione del proposito suicidario. In Francia una nuova normativa, in corso di approvazione, è stata preceduta e preparata da un importante esperimento di democrazia deliberativa come l’istituzione di una Convention Citoyenne Cese sur la fin de vie, formata per sorteggio e chiamata a fornire un meditato e informato parere sul fine vita. La situazione del nostro Paese resta invece caratterizzata da una notevole dose di ipocrisia e da un altrettanto elevato tasso di confusione istituzionale. La radicale negazione dell’esistenza di un diritto a morire proveniente dalla maggioranza di governo coesiste infatti con il riconoscimento di diverse possibilità legittime di porre fine volontariamente alla propria vita in particolari situazioni: rifiuto delle cure, sedazione profonda, suicidio assistito in presenza delle condizioni previste dalle pronunce della Corte costituzionale. Dal canto suo il legislatore nazionale è stato sin qui paralizzato da veti e contrasti ed appare incapace di rispondere alla domanda, che sale con crescente intensità dalla società civile, di tutelare il diritto “doloroso” di porre fine ad una esistenza divenuta intollerabile. In questa situazione stagnante la domanda sociale di libertà del morire si è trovata di fronte solo l’arcigna disciplina del fine vita dettata dagli artt. 579 e 580 di un codice penale concepito in epoca fascista. Da questo impatto sono scaturite le forme di disobbedienza civile consistenti nel prestare aiuto, sfidando le norme penali, a chi in condizioni estreme aspirava ad una fine dignitosa. E, a seguire, i giudizi penali nei confronti dei disobbedienti e le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso dei processi dai giudici che hanno innescato i numerosi interventi della Corte costituzionale, sinora decisivi nel disegnare la disciplina del fine vita. Da ultimo un tentativo di superare l’inerzia del parlamento è stato compiuto da due Regioni - Toscana e Sardegna - che hanno approvato leggi sul fine vita, individuando come requisiti per accedere all’assistenza al suicidio quelli previsti dalla sentenza della Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 e disegnando procedure per ottenere la prestazione assistenziale richiesta. La reazione del governo è consistita nell’impugnare la legge regionale toscana ritenuta esorbitante dalle competenze regionali e lesiva di competenze esclusive dello Stato. Reazione non priva di qualche fondamento giacchè la prospettiva di regimi del fine vita differenziati su base regionale appare criticabile sotto il profilo giuridico e non certo desiderabile nella pratica, ma singolare quando provenga dal uno Stato che sinora si è dimostrato incapace di dettare una normativa rispondente alle istanze di riconoscimento di libertà e di diritti sul fine vita che provengono dalla società italiana. 

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