«Le vite di Moussa e Ousmane sono legate da un filo sottile, ma potente, fatto di speranza, sofferenza e ingiustizia. Sono figli della stessa terra ed entrambi hanno calpestato l’asfalto di Matoto, grande quartiere della capitale Conakry, prima di scegliere l’esilio verso l’Europa. Sono stati entrambi vittime di un sistema che scoraggia l’integrazione socio-professionale dei giovani e quindi sono partiti alla ricerca di un futuro migliore per sé stessi e le loro famiglie. Ricordiamo bene l’ultima volta che li abbiamo visti: Ousmane mi ha detto di stare tranquilla, che sarebbe stato coraggioso. Moussa, invece, non aveva avvisato nessuno della sua partenza ma una mattina presto, pochi giorni prima di lasciare la città, è venuto a salutarci uno a uno rimanendo in silenzio. Quando sono partiti avevano 20 e 19 anni.
Il viaggio è stato lungo e difficile, ma la loro gioia una volta arrivati in Italia è stata incontenibile. Moussa era un ragazzo molto socievole e generoso, Ousmane odiava le ingiustizie e non sapeva mentire. Le loro famiglie erano tutto per loro, in particolare le madri, che ancora oggi portano sulle spalle il peso di un dolore impossibile da comprendere. Donne che oggi soffrono e ancora si chiedono come si possa morire senza aver commesso alcun reato dentro una prigione per innocenti. Lo chiediamo a tutti voi».
Dalla Prefazione del libro Moussa e Ousmane non stanno dormendo di Mariama Sylla, sorella di Ousmane, morto nel CPR di Ponte Galeria il 4.2.2024 e Thierno Amadou Balde, fratello di Moussa, morto nel CPR di Torino il 23.5.2021.
Gorgo CPR è un libro di denuncia che, già attraverso il titolo, consente di cogliere il senso complessivo del tema affrontato: oltre ad essere fortemente coinvolgente sotto il profilo emotivo per le storie narrate, dà conto del forte contrasto fra i principi costituzionali che governano il nostro paese in materia di libertà personale, le norme ordinarie esistenti e la loro sostanziale (dis)applicazione.
Letteralmente, infatti, il termine “gorgo” indica il punto in cui l’acqua di un fiume, di un torrente o di un lago diventa improvvisamente più profonda, formando dei piccoli pozzi che costituiscono un guado pericoloso a causa dei vortici che si formano e che inghiottiscono tutto quanto si trova nello spazio circostante, facendolo scomparire.
Il libro contiene un’inchiesta rigorosa sui Centri di permanenza per il rimpatrio italiani, brutalmente denominati la “galera degli stranieri”: attraverso dati e testimonianze inedite, infatti, viene acceso un faro su meccanismi sconosciuti che è difficile collegare (proprio perché agitati in tanti vortici), attraverso i quali si calpestano i diritti fondamentali e si sperpera denaro pubblico.
Sia la storia di Mamadou Moussa Balde sia quella di Ousmane Sylla (conclusesi con il tragico suicidio di entrambi) costituiscono il punto di partenza per un’attenta osservazione dei sistemi di funzionamento dei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) e per una riflessione sui reiterati abusi che in essi vengono perpetrati, tanto da poterli configurare come “buchi neri” del diritto.
Gli autori partono dall’esame della legge 6 marzo 1998 n. 40 (c.d. Legge Turco- Napolitano) che, approvata a seguito dell’aumento dell’attenzione mediatica sul tema delle migrazioni, ha riordinato i provvedimenti normativi sparsi e disomogenei progressivamente emessi nella materia ed ha introdotto la detenzione amministrativa, tentando di renderla compatibile con l’art. 13 Cost.: l’art. 12 della legge citata ha infatti previsto che «quando non è possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell'Interno, di concerto con i ministri per la Solidarietà sociale e del Tesoro».
Tale disposizione – che ha creato una nuova forma di detenzione per bilanciare, attraverso il rafforzamento del controllo sui confini esterni l’eliminazione delle frontiere interne, conseguente all’inserimento del nostro paese nella costruzione dello spazio comune europeo, a seguito della sua adesione al Trattato di Schengen – ha subìto numerose modifiche nel corso degli anni e, confondendo il concetto di “accoglienza” con quello di “detenzione”, ha cambiato la denominazione delle strutture create ed ha progressivamente prolungato i termini di trattenimento originariamente previsti : dai Centri di permanenza temporanea ed assistenza (Cpta istituiti a Trapani, Trieste, Modena, Bologna, Ragusa, Catania, Isola Capo Rizzuto e Milano)[1], per i quali era stabilito che il tempo di restrizione doveva essere “strettamente necessario”, si è passati, infatti, ai Centri di identificazione ed espulsione (Cie)[2] con prolungamento del termine massimo di trattenimento a sei mesi e, successivamente, ai Centri per il rimpatrio (Cpr)[3] in relazione ai quali il periodo massimo di permanenza è stato esteso sino a 18 mesi ( con ulteriore previsione che ne debba essere aperto uno per ogni regione).
Gli autori, costatando che, in realtà, il rimpatrio avviene in meno della metà dei casi - con ciò vanificando l’originaria funzione per la quale i Centri erano stati creati - affermano che l’istituzione dei Cpr si è tradotto, in sostanza, in un mero strumento di deterrenza per l’ingresso in Italia degli stranieri: si precisa, infatti, che le ragioni dei trattenimenti e quindi della privazione della libertà personale non sono mai riconducibili alla commissione di reati, visto che nei casi più frequenti esse consistono nella elusione dei controlli di frontiera o nella perdita del documento di identità anche a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Aggiungono che tali detenzioni, oltre a costituire un alto costo per lo Stato, sono connotate da trattamenti inumani e degradanti, fondati sull’uso sistemico di psicofarmaci che hanno provocato numerosi decessi, spesso per suicidio.
La gestione dei centri rappresenta un problema nodale in quanto, in moltissimi casi, viene affidata a società che hanno costruito artificiosamente il proprio curriculum per aggiudicarsi l’appalto: l’aggiudicazione, spesso fondata su protocolli di intesa falsi (in un caso è stata rilevata la sottoscrizione due anni dopo che il firmatario era deceduto) diventa fonte di ingenti guadagni, a fronte dei quali le prestazioni erogate risultano essere ben diverse da quelle per le quali le società si sono impegnate.
La riflessione degli autori, a questo punto, si incentra su un confronto fra la previsione dell’art. 13 della Costituzione - che cristallizza i limiti alla libertà personale, disponendo che qualsiasi restrizione può essere ammessa solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, che, in tal modo, deve farsi garante dell’eventuale arbitrio dell’autorità pubblica sicurezza – e la situazione concreta che si verifica nella realtà dei fatti, in cui la decisione giudiziaria sui trattenimenti è affidata ad una c.d. “giurisdizione apparente”, caratterizzata da udienze superficiali in cui il tempo dell’ascolto del migrante è ridotto a pochissimi minuti, con verbalizzazioni spesso inconsistenti e conseguente violazione del diritto di difesa.
A ciò si aggiunge la descrizione di quella che è stata descritta come “la macchina dei rimpatri” che, oltre alle modalità spesso lesive della dignità umana, sono numericamente irrisori sia per l’esiguo numero degli accordi di riammissione coi Paesi d’origine, sia per gli altissimi costi, determinati dal prezzo del volo aereo o della nave di linea per il rientro nel paese di origine, oltre che da quello relativo alla missione degli agenti di scorta.
All’interno del contesto sopra descritto si collocano le tragiche storie di Moussa Balde e di Ousmane Sylla.
Moussa Balde originario della Guinea Conakry, arriva a 19 anni in Italia nel 2017 dopo aver attraversato il Mali, l’Algeria e poi la Libia, dove finisce nelle mani dei trafficanti che, dopo aver ottenuto più volte danaro dalla sua famiglia, gli fanno affrontare il viaggio senza fornirgli i documenti promessi, documenti che non riesce ad ottenere neanche dopo il suo sbarco: da ciò nasce un circuito di fuga e solitudine che si conclude con un’aggressione violenta a Ventimiglia da parte di tre uomini italiani armati di spranghe e, paradossalmente, con il suo trasferimento nel CPR di Torino, dove viene ristretto senza alcuna attenzione alle violenze subite ed alle sue condizioni psicofisiche ormai deteriorate. La mattina del 23 maggio 2021 Moussa Balde viene trovato impiccato nel soffitto del bagno della sua cella.
Ugualmente tragica è la storia di Ousmane Sylla, sbarcato a Lampedusa dopo un lungo viaggio da Conakry e rinchiuso nel CPR di Trapani dove, senza alcuna diagnosi, è stato sottoposto a trattamento con farmaci neurolettici. Successivamente, viene trasferito al CPR di Roma Ponte Galeria dove l’assunzione è stata improvvisamente interrotta provocando il cd. “effetto rimbalzo”: qualche giorno dopo, Ousmane si impicca alla grata esterna del CPR. Prima di morire traccia un messaggio sul muro nel quale scrive: «Se dovessi un giorno morire vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace».
Gli autori mettono in risalto, proprio con riferimento alla morte dei due migranti trattenuti, il grave problema della “salute calpestata” attraverso l’abuso di psicofarmaci e valutazioni di idoneità alla detenzione spesso del tutto superficiali, anche perché eseguite da personale medico non competente, e cioè non in grado di individuare i soggetti portatori di patologie psichiatriche che, in ragione di ciò, non dovrebbero essere sottoposti a restrizione in quanto la privazione della libertà, oltretutto per un tempo non determinato, rischia di portarli alla disperazione e ad atti di autolesionismo.
Gorgo CPR è un libro tragicamente attuale. Il tema della detenzione amministrativa, infatti, raramente è stato oggetto di approfondita osservazione: di essa si parla soltanto in occasione dei tragici eventi per i quali l’accertamento delle cause che li hanno determinati, viene spesso ricondotta a fatti generici che si perdono nella complessità delle storie all’interno delle quali vengono collocati.
Ma proprio per questo, l’opera rappresenta un prezioso stimolo a riflettere sulla continua produzione legislativa in materia che, lungi dal tenere conto dei principi costituzionali che tutelano la libertà personale, crea norme sempre più restrittive che fanno confluire nella detenzione amministrativa soggetti ai quali non può essere attribuita alcuna responsabilità penale, ma solo la colpa di essere nati e di provenire “dalla parte sbagliata del mondo”.
I presupposti del trattenimento, infatti, sono stati progressivamente ampliati: da luoghi deputati ad una temporanea permanenza finalizzata all’espulsione di migranti che, privi di documenti, non potevano ottenere il permesso di soggiorno (Cpta), si è passati ai Cie e, successivamente, ai Cpr (nei quali, come già detto, il termine di permanenza è stato elevato a 18 mesi) che, pur mantenendo formalmente lo stesso obiettivo, nascondono una finalità detentiva, in parte di carattere punitivo ed in parte legata alla consapevole impossibilità di provvedere al rimpatrio nei paesi di origine.
Da ultimo, tale tendenza espansiva è stata accentuata dal Protocollo ratificato con l. 21.2.2024 n. 14 che ha previsto la creazione in Albania, e dunque fuori dal territorio italiano, di strutture per lo svolgimento delle procedure di ingresso, dove, ab origine, potevano essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità all'esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell'Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso.
Successivamente, il recentissimo DL 28 marzo 2025 n. 37 (in corso di conversione) ha modificato la L. 14/2024, estendendo ulteriormente l’utilizzo di tali strutture anche ai migranti destinatari di provvedimenti di trattenimento già convalidati o prorogati ai sensi dell'articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e cioè a soggetti che sono già transitati sul territorio italiano, trattenuti in Cpr nazionali e che devono essere rimpatriati nel paese di origine.
Rispetto a tale ultima normativa, invero, sono stati già sollevati dubbi di compatibilità costituzionale attraverso le prime attente riflessioni degli studiosi del settore[4], fondate soprattutto sulla considerazione che con l’Albania non c’è un accordo per l’esecuzione delle espulsioni, senza il quale nessuno può essere rimpatriato da un paese terzo e cioè diverso da quello nel quale si è verificato il primo approdo[5].
E’ auspicabile, dunque, che l’attività di monitoraggio e denuncia portata sinora avanti dai due autori di Gorgo CPR prosegua con attenzione ancor maggiore, visto che a tutte le carenze già denunciate si accompagna, per le strutture aperte in Albania, il rischio “dei fari spenti”, determinato dalla lontananza e dalla conseguente maggiore difficoltà a far emergere tempestivamente eventuali comportamenti arbitrari e lesivi dei diritti fondamentali delle persone ivi trasferite.
[1] Cfr. L. 6 marzo 1998 n. 40.
[3] Cfr. Dl.17.2.2017 n. 13 conv. nella L. 13.4.2017 n. 46.
[4] Asgi, Il laboratorio autoritario delle politiche migratorie italiane. Una prima analisi del DL 37/2025, in https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/decreto-37-2025-un-laboratorio-autoritario-delle-politiche-migratorie/
[5] https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/12/migranti-in-albania-il-viminale-andranno-tutti-riportati-in-italia-da-li-niente-rimpatri-ecco-perche/7950692/