Seminario - Il contrasto ai soccorsi in mare: una prospettiva trasversale degli interessi in gioco e delle tutele possibili
Presiedono Giulia Crescini (avvocata ASGI) e Maria Acierno (Presidente I Sez. Civile della Corte di Cassazione)
Sessione La configurabilità di una discriminazione nell’ambito del soccorso in mare di cittadini stranieri
Maria Acierno
Bene, passiamo a una nuova sessione. Se mi è consentito, desidero soltanto formulare un'osservazione, volta a mettere in collegamento le due relazioni eccellenti che abbiamo appena ascoltato.
A mio avviso, vi è un punto specifico della sentenza Diciotti che rappresenta un nesso tra le due problematiche affrontate, ovvero le criticità relative al riconoscimento del diritto di accesso alla giustizia e alla tutela giurisdizionale, già evidenziate dall’avvocato Saltalamacchia.
Tale punto risiede nella fondamentale distinzione operata dalla sentenza Diciotti tra atto politico e atto amministrativo. In particolare, la sentenza afferma che le decisioni adottate — le quali hanno comportato una privazione della libertà personale, qualificata come condotta illecita e fonte di responsabilità per danno non patrimoniale — rientrano nella sfera dell’atto amministrativo, e non in quella dell’atto politico.
Di conseguenza, tali decisioni risultano suscettibili di sindacato giurisdizionale e, pertanto, giustiziabili.
Questa affermazione non è stata pronunciata da un pericoloso sovversivo, ma dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non più tardi di qualche mese fa. Si tratta, peraltro, dell’espressione di un orientamento giurisprudenziale consolidato della stessa Corte, che evidenzia chiaramente — pur non potendo in questa sede soffermarci sulla distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione, che sarebbe troppo lunga da approfondire — come anche un atto riconducibile alla sfera amministrativa, seppur ispirato o motivato da finalità politiche, non possa essere qualificato come atto politico.
Un atto, infatti, non può definirsi politico se non è “libero nei fini”. E perché non è libero nei fini? Perché è vincolato da norme di legge. La sentenza Diciotti ci spiega proprio questo, ed è stata sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione proprio in ragione della questione di giurisdizione che poneva, ritenuta tanto rilevante da non essere demandata alla Terza Sezione civile — che, come noto, si occupa con grande competenza delle questioni di risarcimento del danno — ma rimessa invece al massimo consesso della Corte.
In particolare, tanto la parte ricorrente quanto la parte contro-ricorrente, con ricorso incidentale condizionato, avevano sollevato la questione della giurisdizione: da un lato, la parte pubblica affermava l’inesistenza della giurisdizione, sostenendo che si trattasse di un atto politico e quindi sottratto al controllo del giudice; dall’altro lato, la parte privata contestava fermamente tale impostazione, sostenendo non solo la giustiziabilità dell’atto, ma anche la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Perché dico questo? Perché, a mio avviso, è un aspetto fondamentale anche rispetto al discorso svolto dall’avvocato. Innanzitutto, va precisato che si tratta di comportamenti o atti che sono giustiziabili, in quanto appartenenti - seppur alla sfera dell’alta amministrazione - comunque all’ambito amministrativo, e pertanto sottoponibili al sindacato giurisdizionale.
Quindi, semmai, il problema che dobbiamo porci è davanti a quale giudice tali atti siano giustiziabili, tenuto conto che, nelle materie di giurisdizione esclusiva, anche il giudice amministrativo è dotato di poteri di tutela cautelare, risarcitoria, e così via.
Devo però dire che, mentre parlavate, da un lato ascoltavo, dall’altro controllavo molto rapidamente — quindi prendetelo con il massimo beneficio d’inventario — la nostra giurisprudenza in materia di discrezionalità tecnica, la quale, per tre quarti dei casi, affida la giurisdizione al giudice ordinario.
Non ho trovato - e l’ho cercata su Google, così, mentre vi ascoltavo - una nozione di “alta discrezionalità tecnica”. Effettivamente, questo tema sembra farsi strada, per così dire, nella dogmatica amministrativa, ma si tratta comunque, sempre, di discrezionalità tecnica.
E il profilo della discrezionalità tecnica è stato da sempre utilizzato - e da sempre ci ha afflitto, a noi che siamo un po’ lenti nel comprendere il riparto di giurisdizione e il diritto amministrativo - perché rappresenta proprio quel crinale attraverso cui si cerca di comprendere se la questione attenga a diritti soggettivi, e dunque rientri nella giurisdizione del giudice ordinario. Come avviene, ad esempio, in buona parte delle controversie in materia sanitaria, di concessioni, e simili.
Le Sezioni Unite hanno affermato che, anche davanti al giudice amministrativo, l’alta discrezionalità tecnica - che sia alta, bassa o media - è sempre giustiziabile. Sempre giustiziabile.
Essa esprime, certo, una valutazione complessiva — ad esempio, la scelta di un appaltatore piuttosto che un altro — ma, laddove vi siano regole di evidenza pubblica ben definite, si tratta comunque di un esercizio di discrezionalità tecnica che, pur potendo riguardare profili di alta amministrazione, è certamente sindacabile.
Ritengo, dunque, che questo rappresenti un passaggio importante anche nella sentenza Diciotti, così come in un’altra decisione recente che, pur non affrontando direttamente il tema odierno - ossia quello dei soccorsi in mare - riguarda comunque una materia strettamente connessa: quella dell’immigrazione e dei cosiddetti “paesi sicuri”.
In tale sentenza, la Prima Sezione, della quale faccio parte, con la penna del Presidente Giusti e di un collegio estremamente qualificato, ha affermato che anche la lista dei paesi sicuri rientra nella sfera dell’amministrazione. Potrà trattarsi di amministrazione “alta”, “bassa” o persino “apicale”, ma resta comunque amministrazione - e amministrativo vuol dire, sempre, giustiziabile.
Alberto Guariso (avvocato ASGI)
In questo seminario si è scelto di esplorare tutte le possibili strade, anche nuove, al fine di un ampliamento e di una più precisa definizione della tutela. È dunque opportuno tentare di approfondire anche il possibile ruolo del diritto antidiscriminatorio, che tuttavia si presenta come complesso e innovativo, in quanto non esistono precedenti che abbiano cercato di applicare le nozioni proprie del diritto antidiscriminatorio alle situazioni oggetto della nostra analisi. Pertanto, sarà necessario fare riferimento ad ambiti differenti da quello del soccorso, nei quali si è progressivamente chiarita la portata, gli effetti e la funzione del diritto antidiscriminatorio, al fine di comprendere se tali sviluppi possano essere, in qualche misura, trasposti nel nostro contesto.
Per fare ciò, è necessario richiamare almeno tre recenti sviluppi che, a mio avviso, risultano particolarmente pertinenti.
La prima novità riguarda la possibilità, riconosciuta al giudice adito per l’esame di una situazione di possibile discriminazione, di emettere ordini nei confronti della pubblica amministrazione, imponendo determinati “comportamenti amministrativi” cioè la modifica o l’adozione di atti amministrativi affinché l’azione amministrativa risulti conformi al principio di non discriminazione.
Tale possibilità, oggetto di un dibattito ormai pluriennale, ha trovato conferma definitiva nella sentenza n. 15 del 2024 della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un ricorso per conflitto di poteri sollevato dalla Regione Friuli Venezia Giulia nei confronti del Tribunale di Udine. Quest’ultimo aveva ordinato alla Regione la modifica di un regolamento (un atto votato dall’organo politico elettivo, il consiglio regionale) ritenuto in contrasto con un obbligo di parità di trattamento tra italiani e stranieri sancito dal diritto dell’Unione.
La Regione, ritenendo tale ordine lesivo della propria sfera di autonomia, ha promosso ricorso per conflitto di poteri, sostenendo che vi fosse stata un’illegittima ingerenza del potere giudiziario nell’ambito delle competenze amministrative e politiche proprie della Regione.
La Corte Costituzionale ha respinto con argomentazioni molto nette il motivo principale sollevato dalla Regione, secondo cui un giudice non potrebbe mai adottare un simile provvedimento. Nella motivazione, la Corte chiarisce che, laddove il giudice accerti la violazione di una norma sovraordinata – nel caso di specie, di direttive dell’Unione Europea che impongono una determinata disciplina della fattispecie – egli può ordinare alla pubblica amministrazione, in qualsiasi sua articolazione, inclusi gli organi di natura politica quali il Consiglio regionale, la modifica di un atto amministrativo. Ciò con un’unica precisazione, che in questa sede riveste rilievo solo marginale: quando l’atto amministrativo sia la mera riproduzione di una norma di legge, il giudice non è privo del potere di ordinarne la modifica, ma può esercitarlo solo dopo aver sollevato questione di legittimità costituzionale. In altri termini, è necessario che la norma di legge, da cui discende in modo pedissequo l’atto amministrativo, sia previamente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale; fermo restando, comunque, che il diritto del singolo può e deve essere garantito mediante la disapplicazione dell’atto amministrativo contrastante con norme sovraordinate.
A prescindere da quest’ultima problematica, ciò che rileva è il riconoscimento dell’esistenza di quel potere in capo al giudice. Trasponendo tale principio nel nostro contesto, ne deriva che il giudice ha la facoltà – nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio - di ordinare la modifica di circolari o direttive emanate dal Ministero dell’Interno, da altri ministeri, o anche dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta di un’acquisizione consolidata, dalla quale non possiamo prescindere e che dobbiamo necessariamente tenere presente nel tentativo di applicare questi strumenti al tema oggetto della nostra analisi.
Una seconda acquisizione da considerare è anch’esso frutto di un’evoluzione giurisprudenziale maturata nel corso degli anni, che ha trovato ora un’ulteriore conferma (forse definitiva) nella sentenza della Corte di Giustizia del 29 luglio 2024, relativa al reddito di cittadinanza. L’acquisizione è la seguente: le nozioni fondamentali del diritto antidiscriminatorio, in particolare quelle di discriminazione diretta, discriminazione indiretta, cause di giustificazione, controllo della legittimità della finalità perseguita e dei mezzi proporzionati e necessari per conseguirla, trovano applicazione non soltanto nei casi in cui siano espressamente richiamate dalle specifiche norme antidiscriminatorie – come, ad esempio, le direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE, che disciplinano in modo puntuale il divieto di discriminazione – ma anche ogniqualvolta sussista un obbligo di parità di trattamento connesso alla condizione di straniero, anche se tale obbligo riguarda un gruppo più ristretto rispetto alla totalità del gruppo connotato dal fattore protetto della nazionalità; ad es., come nel caso esaminato dalla Corte, il solo gruppo dei titolari di permesso di lungo periodo, ai quali la parità di trattamento in una serie molto ampia di ambiti, è garantita dall’art. 11 direttiva 2003/109.
Questa estensione delle nozioni proprie del diritto antidiscriminatorio consente di rispondere alla questione centrale per il nostro tema: una discriminazione può essere fatta valere in giudizio esclusivamente nei casi in cui essa comporti l’esclusione generalizzata di soggetti appartenenti a una determinata etnia o nazionalità? Oppure si deve ritenere che anche nei casi in cui una norma attribuisca a un determinato gruppo – ad esempio i titolari di protezione internazionale – un diritto a una specifica parità di trattamento - seppure non assoluta, seppure limitata a determinati ambiti - la violazione di tale parità faccia comunque scattare l’applicazione del diritto antidiscriminatorio, con tutto il relativo apparato concettuale e normativo?
Se valgono le acquisizioni sopra richiamate, la risposta corretta è la seconda. In altri termini, non è necessario che siano esclusi da un determinato diritto tutti i membri del gruppo protetto (tutti gli stranieri) affinché si configuri una discriminazione; è sufficiente che tutti i soggetti esclusi appartengano a un gruppo protetto, anche se altri appartenenti al medesimo gruppo protetto non subiscono la discriminazione di cui si tratta. Dunque possiamo avvalerci degli strumenti del diritto antidiscriminatorio per il solo fatto che coloro che si avvicinano alle nostre coste o ai nostri confini di terra sono solo persone straniere, spesso accomunate da una determinata etnia, anche se ovviamente l’impedimento a raggiungere i confini non riguarda tutti gli stranieri.
Abbiamo cosi acquisito (sia chiaro, con tutte le incertezze e la prudenza del caso) che la violazione, ad es., degli obblighi di parità di trattamento di cui alla direttiva 2011/95 (ad es. nella assistenza sociale, art. 29; nell’accesso alla formazione professionale, art. 26 ecc.) costituisce discriminazione in ragione della nazionalità e che il Giudice ordinario può ordinare la rimozione degli atti amministrativi che realizzano tale discriminazione.
Il terzo punto rilevante da acquisire – anch’esso non nuovo, ma ormai consolidato – è quello relativo alla cosiddetta “discriminazione associata”.
Il diritto antidiscriminatorio non tutela esclusivamente i soggetti direttamente appartenenti a un gruppo protetto (per nazionalità, etnia o altri fattori), ma anche coloro che, pur non essendo personalmente connotati da una caratteristica rientrante tra i fattori protetti, risultano collegati al gruppo protetto da una relazione significativa.
In particolare, rientrano in tale ambito coloro che subiscono uno svantaggio o una lesione proprio in ragione del fatto che operano per la tutela dei diritti del gruppo protetto. In questi casi, anche tali soggetti godono della protezione offerta dal diritto antidiscriminatorio.
Il principio, di estrema rilevanza, trova origine nella nota sentenza Coleman della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (2008), relativa a una madre non disabile che aveva subito uno svantaggio – nella specie, essere stata mobbizzata – in quanto si occupava dell’assistenza al figlio disabile. Il legame, in quel caso, era particolarmente stretto e ha fondato il riconoscimento della tutela.
Successivamente, tale principio ha avuto una applicazione estesa non solo a tutti i casi di caregiver (e dunque di situazioni di svantaggio subite a causa della attività di cura di un soggetto disabile) ma anche a casi diversi, tra cui uno particolarmente rilevante per i temi che ci interessano: si tratta del caso esaminato anni fa dal Tribunale di Brescia (ord. 31.1.2012) , riguardante una cittadina italiana che aveva subito una molestia per aver esposto cartelli a sostegno dei migranti presenti sul territorio. Il Tribunale ha qualificato tale comportamento come molestia discriminatoria, proprio in ragione del collegamento tra il soggetto – che non era straniero, né appartenente a un particolare gruppo etnico – e l’attività svolta a favore di soggetti appartenenti a un gruppo protetto.
Ne possiamo trarre la conclusione che il diritto antidiscriminatorio tutela anche le organizzazioni non governative (ONG) che operano in favore dei migranti, in quanto “collegate” ai soggetti appartenenti al gruppo protetto.
Possiamo dunque sintetizzare le tre acquisizioni fondamentali:
- L’attività amministrativa è sindacabile, anche nei suoi livelli più elevati, alla luce del diritto antidiscriminatorio.
- I principi del diritto antidiscriminatorio trovano applicazione anche rispetto a situazioni in cui vi siano diritti di uguaglianza specificamente riconosciuti a gruppi di stranieri.
- Anche soggetti collettivi che operano in favore di gruppi protetti sono tutelati dal diritto antidiscriminatorio.
Aggiungo che, nell’ambito delle controversie in materia di discriminazione, pur a fronte di ciò che taluni definirebbero una “invasione” nelle decisioni di natura politica, non si sono di fatto mai verificate situazioni in cui la natura politica dell’atto abbia costituito un ostacolo all’intervento del giudice.
Anche nei casi in cui le decisioni impugnate era state assunte da organi politici – ad esempio, dal Consiglio regionale nel caso esaminato dalla sentenza 15 citata – non è mai stata accolta un’eccezione di insindacabilità per motivi attinenti alla natura politica dell’atto.
I giudici si sono quindi assunti la responsabilità di adottare decisioni complesse, talvolta riguardanti ambiti tipicamente attribuiti alla discrezionalità amministrativa e politica, come la graduazione dei bisogni nell’accesso alle prestazioni. Tuttavia, qualora esista una norma sovraordinata che fornisca un criterio o una regola esplicita su tale graduazione, il giudice è legittimato a intervenire.
Anche questo rappresenta un elemento di forza e un vantaggio insito nella struttura del diritto antidiscriminatorio.
Siamo quindi di fronte a un piccolo patrimonio giuridico che si è arricchito e consolidato negli ultimi anni, a favore di un utilizzo più esteso e efficace del diritto antidiscriminatorio.
Alla luce di ciò, vale certamente la pena tentare di percorrere la strada ipotizzata all’inizio. Non certo per il gusto di cimentarci con ulteriori eccezioni (oltre a quelle già ampiamente praticate dalle controparti) che possano complicare il contenzioso. Ma nel tentativo di sfruttare i potenziali benefici di questa ricostruzione, benefici che si collocano essenzialmente sul piano processuale.
Mi limito a elencarne alcuni:
a) le azioni antidiscriminatorie sono soggette al rito semplificato di cognizione, che – come è noto – risulta nella maggior parte dei casi più celere rispetto al giudizio amministrativo dinanzi al TAR;
b) la giurisdizione è sempre del giudice ordinario, anche quando sono in gioco posizione soggettive che, ove considerate sotto profili diversi, sarebbero qualificate come interessi legittimi; e comunque anche quando è in discussione l’attività amministrativa (come confermato ancora una volta dalla citata sentenza n. 15).
c) la competenza territoriale è quella del domicilio del soggetto che agisce, inclusi i soggetti collettivi, come ad esempio le ONG. Ciò comporta che non sia necessario centralizzare le azioni su Roma, come accade frequentemente, nella materia che ci riguarda, per la giurisdizione amministrativa;
d) sussiste la legittimazione attiva degli enti e associazioni iscritte nell’apposito elenco di cui all’art. 5 d.lgs. 215/03 (sul punto tornerò subito);
e) ma soprattutto il giudice gode di ampi poteri nella individuazione dei rimedi alla discriminazione.
Sotto tale ultimo punto un decisivo elemento di rilievo è rappresentato dal piano di rimozione finalizzato a prevenire la reiterazione della condotta discriminatoria, secondo quanto previsto dall’art. 28 del decreto legislativo n. 150 del 2011. Come è stato opportunamente ricordato dall’avv. Saltalamacchia, un intervento analogo è oggi possibile, in forza degli sviluppi giurisprudenziali intervenuti, anche sulla base dell’art. 2043 c.c.. Tuttavia, nel contesto dell’azione antidiscriminatoria, tale potere può essere esercitato con ancora maggiore forza, essendo espressamente previsto dalla normativa di settore. Il piano può essere adottato anche d’ufficio (a mio avviso, ma è ovvio che l’indicazione da parte dell’attore sarà di grandissima utilità) e comunque il Giudice può disporre tutti i provvedimenti valutati come idonei al fine indicato. È proprio in quest’ottica che la sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale ha riconosciuto la possibilità per il giudice di ordinare la modifica di un atto amministrativo (ovviamente senza giungere all’annullamento dell’atto). Anche questo ampliamento dei poteri giudiziali rimediali merita di essere attentamente valorizzato.
Un ulteriore profilo processuale rilevante riguarda il superamento della questione dell’interesse ad agire, spesso centrale nel contenzioso amministrativo. È stato fatto riferimento, dagli interventi precedenti, al tema dell’esaurimento dell’efficacia dell’atto impugnato e alle relative implicazioni sulle decisioni del TAR. Ebbene, in materia di discriminazione tale problematica non si pone. L’accertamento della condotta discriminatoria può infatti essere richiesto al giudice anche quando la discriminazione sia cessata e ciò è espressamente riconosciuto dalle direttive europee in materia che, con riferimento agli strumenti di tutela, utilizzano sempre l’espressione «anche quando sia cessato il rapporto che si lamenta essere affetto da discriminazione». È vero che anche in forza del diritto comune l’esaurimento della situazione contra legem lascia comunque spazio al risarcimento del danno, ma le norme di cui sopra dicono di più, cioè che anche rispetto al mero accertamento e alla richiesta di un piano di rimozione pro-futuro l’interesse ad agire permane comunque, anche dopo la cessazione della vicenda in contestazione; e dunque permane anche se (ad es.) il porto lontano è già assegnato e lo sbarco è già avvenuto.
Un ulteriore profilo di grande rilievo è, come sopra anticipato, il riconoscimento della legittimazione attiva alle associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 Dlgs 150/2011, in tutti i casi in cui i soggetti lesi dalla discriminazione non sono direttamente o immediatamente identificabili. Ciò consente l’azione anche quando, ad es., i soggetti respinti o i soggetti assegnati a un porto lontano non sono identificabili o ritengono di non poter o voler agire in giudizio.
Nel complesso, tutti questi elementi dovrebbero costituire un incentivo concreto a percorrere con convinzione la strada dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio.
A questo punto resta da esaminare quali sono le strade attraverso le quali sviluppare questa ipotesi.
Un primo profilo consiste nel considerare la dimensione discriminatoria nell’ambito della valutazione della proporzionalità. Gli interventi precedenti hanno ampiamente illustrato situazioni di palese violazione del principio di proporzionalità nella applicazione di sanzioni o nell’adozione di misure intrusive nei confronti di soggetti privati quali le ONG: ebbene questa violazione del principio di proporzionalità può essere valutata anche sotto il profilo discriminatorio considerando che la sproporzione colpisce in questa misura così clamorosa solo i soggetti che operano nell’ambito del soccorso di migranti? A mio avviso non c’è dubbio che quantomeno sul piano teorico la contestazione può fondatamente essere mossa, restando ovviamente da dimostrare che, sul piano pratico, questa “sproporzione comparativa” (ad es. in comparazione con analoghe situazioni riguardanti navi commerciali) sussiste. In sostanza, se la misura sproporzionata incide in modo particolare su soggetti appartenenti a un gruppo protetto, connotati ad esempio da specifica nazionalità o etnia o su soggetti ad essi collegati “per associazione” (le ONG), allora la valutazione di proporzionalità assume una valenza rafforzata, in quanto si affianca a un possibile profilo discriminatorio.
Su un secondo profilo, disponiamo almeno di un precedente giurisprudenziale.
Come sappiamo, la definizione di discriminazione rimanda sempre a un processo logico comparativo: è cioè necessario che vi sia un obbligo di trattamento eguale, una condizione comparabile tra i due soggetti, uno svantaggio che ricada esclusivamente sul soggetto portatore del fattore protetto. Presupposto dell’intero percorso è dunque la individuazione, in quella specifica vicenda o materia, di un obbligo di parità di trattamento. Ma è possibile parlare di discriminazione anche nei casi in cui la parità di trattamento non sia ancora stata raggiunta, ma viene frapposto un ostacolo al suo conseguimento? Il divieto di discriminazione può operare, quindi, anche in funzione preventiva?
Secondo un interessante precedente del Tribunale di Milano la risposta è positiva (Trib. Milano 13.7.2011). La vicenda esaminata riguardava l’impedimento, introdotto da una circolare ministeriale, ad essere ammessi alla sanatoria del 2009. Tale impedimento derivava dal richiamo al reato di mancata ottemperanza all’ordine di espulsione (art. 14, comma 5, del T.U.I.), cioè da una norma che era già stata dichiarata in contrasto con la direttiva rimpatri dalla CGUE. Nonostante questa pronuncia della CGUE, la circolare ministeriale aveva mantenuto tale riferimento come causa ostativa all’accesso alla procedura di emersione. Il contenzioso era stato proposto proprio sotto il profilo della discriminazione in quanto l’illegittimo impedimento al procedimento di sanatoria, impediva allo straniero di accedere a una condizione (quella di regolarmente soggiornante) che gli avrebbe garantito il diritto alla parità di trattamento in una amplissima serie di ambiti (tutti i “diritti civili” garantiti al regolarmente soggiornante dall’art. 2, c.2 TU Immigrazione). L’esclusione dalla condizione di regolarmente soggiornante comportava invece l’esclusione da ogni possibile diritto alla parità di trattamento.
Un percorso logico-giuridico di questo genere può essere replicabile nell’ambito del soccorso marittimo? Forse sì. La persona che giunge sulle nostre coste, nel momento stesso in cui mette piede sul territorio nazionale, può accedere – sia come richiedente asilo e ancor più all’esito della procedura – a una serie di diritti di uguaglianza: pensiamo, per il richiedente asilo, alle «condizioni materiali di accoglienza» e per il titolare di protezione, alle «modalità equivalenti a quelle previste per il cittadino» in materia di accesso ai servizi per l’impiego; o alla «assistenza sociale alla stregua di quella prevista per il cittadino» (articolo 29), e così via.
Siamo dunque di fronte a un sistema normativo che riconosce diritti di uguaglianza in capo a soggetti stranieri, a condizione che acquisiscano un determinato status.
Ora, se ad un soggetto viene impedito, in forza di un atto illegittimo, di conseguire lo status che gli consente l’accesso a tali diritti – e quindi di vedersi riconosciuta una (pur delimitata) parità di trattamento – si può sicuramente prospettare che tale impedimento integri una forma di discriminazione fondata su un fattore protetto (quale è, certamente, la condizione di straniero).
Certamente questo richiede che l’atto impeditivo dell’approdo e quindi dell’accesso sia illegittimo, il che aggrava il ragionamento (in generale il diritto antidiscriminatorio non interviene affatto per rafforzare il contrasto ad atti già di per se illegittimi, ben potendo esservi discriminazione attuata anche in forza di atti legittimi) ma su questo punto, cioè sulla illegittimità degli atti, già altri sono intervenuti.
Resta comunque il fatto che se a causa di un atto illegittimo un soggetto non riesce a conseguire, al momento dell’ingresso nel territorio nazionale, i diritti di uguaglianza ai quali avrebbe avuto titolo, si può contestare tale situazione come una discriminazione legata a un fattore protetto.
Il terzo punto riguarda un possibile utilizzo del diritto antidiscriminatorio nella sua funzione di strumento di tutela dei diritti fondamentali, inteso non necessariamente come diritto relativo, fondato sulla comparazione, ma come diritto assoluto. Su questo punto lascio la parola alla dottoressa Sanlorenzo.
In conclusone, a mio avviso, l’aspetto positivo di questa costruzione concettuale consiste nel ricordarci che la persona, quando si sposta, porta con sé, attraversando il confine, un proprio diritto all’uguaglianza, che deve essere riconosciuto. Si tratta di un diritto che attiene, almeno in parte, alla sua condizione di essere umano, che – in primo luogo – ha diritto alla vita, aspetto di cui ci occupiamo, ad esempio, quando trattiamo del soccorso in mare. E, in ogni caso, al suo arrivo, questa persona potrà far valere un suo diritto di uguaglianza; anzi più diritti di uguaglianza, forse differenziati a seconda dei settori e delle condizioni, ma comunque presenti. Il cammino verso questi diritti non può essere arbitrariamente interrotto.
Rita Sanlorenzo (avvocata generale presso la Procura Generale della Corte di Cassazione)
Mentre applaudivo convintamente l'intervento dell'avvocato Guariso, non potevo fare a meno di congratularmi interiormente per la scelta tattica che mi ha indotta a lasciargli la parola per primo. Il suo intervento ha infatti già messo in luce, con chiarezza, vantaggi e criticità connessi al richiamo, all’utilizzo e all’applicazione della normativa antidiscriminatoria in un ambito tanto specifico quanto peculiare.
L’avvocato Guariso ha già richiamato la recente pronuncia della Corte Costituzionale, in particolare la n. 15 del 2024, nonché quella della Corte di Giustizia del 29 luglio 2024, che, pur affrontando tematiche differenti, hanno tuttavia - potremmo dire - esteso, senza forzature, ma rendendo più coerente il quadro complessivo, le tutele previste dal diritto antidiscriminatorio. Tutele che, in sostanza, trovano applicazione ogniqualvolta si verifichi una violazione dell’obbligo di parità di trattamento. Pertanto, è corretto affermare che nel caso di specie ci troviamo piuttosto di fronte a un problema specifico: ci occupiamo, infatti, delle misure adottate nei confronti di soggetti portatori di particolari fattori di protezione, quali l’origine etnica, la provenienza e la nazionalità.
Dobbiamo renderci conto che qui ci stiamo riferendo a una categoria ancora più ristretta, nell’ambito di un più ampio fattore di protezione: abbiamo di fronte i poveri, i disperati della terra. È nei loro confronti che si manifesta un vero e proprio parossismo normativo, come è stato ricostruito nei precedenti interventi: un’azione legislativa che non si limita alla discriminazione, ma che assume i tratti di una vera e propria persecuzione, volta ad aumentare progressivamente il livello delle difficoltà per chi intenda migrare, trovare un porto sicuro, ottenere salvezza, semplicemente sopravvivere. Ecco, questo è il nodo centrale della questione.
Il vantaggio derivante dal ricorso al diritto antidiscriminatorio, che può trovare applicazione nel prospettare queste forme di impedimento e di ostacolo come vere e proprie discriminazioni, risiede - a mio avviso - anche in una rilevante portata ideale e simbolica. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che siamo tutti uguali su questa terra, siamo tutti esseri umani, e tale approccio si oppone a quel tentativo, purtroppo molto diffuso, di disumanizzazione della figura dello straniero che cerca di varcare i confini. In questo senso, il diritto antidiscriminatorio assume anche una forte valenza etica.
Inoltre - come ricordava con precisione Alberto Guariso - esso può presentare il vantaggio di una concreta efficacia, in quanto fornisce uno strumento processuale che semplifica, in particolare, gli oneri probatori, e può persino condurre a forme di reazione alle misure discriminatorie, fino a consentire al giudice di predisporre un piano di rimozione finalizzato a prevenirne la reiterazione.
Occorre, tuttavia, procedere con cautela. Siamo noi stessi, infatti, ad aver rilevato, nel momento in cui si è iniziato a esplorare più a fondo il diritto antidiscriminatorio di matrice europea, che se tutto viene qualificato come discriminazione, allora nulla lo è davvero. Si tratta di un ambito giuridico estremamente tecnico, i cui confini sono tracciati dalle fonti normative europee. Tuttavia, tale disciplina è ormai stata arricchita e, potremmo dire, ampliata dalle esperienze giurisprudenziali maturate sia a livello europeo sia in ambito nazionale.
Mi sono interrogata su quale possa essere l’applicazione del diritto antidiscriminatorio con riferimento alle violazioni poste in essere dallo Stato italiano in materia di diritti di sbarco, nonché di accesso, da parte delle navi umanitarie e dei diritti dei migranti trasportati a bordo di esse. Ho rilevato che, non molto tempo fa, è stato pubblicato un commento relativo a fatti riconducibili alla chiusura dei porti alle navi umanitarie, che appunto venivano esaminati alla luce del diritto internazionale. In tale contesto, l’analisi si concentrava sui diritti e sugli obblighi spettanti tanto agli Stati quanto ai comandanti delle navi, e già allora, nell’ambito di questo commento, che riguardava il profilo penalistico del divieto di sbarco, si adottava questa chiave di lettura: si prospettava la possibilità di configurare una discriminazione, quindi una violazione del divieto di discriminazione, con riferimento al contesto dell’obbligo di soccorso in mare.
Si faceva riferimento, in particolare, a migranti sbarcati inizialmente nel porto di Catania, mentre ad altri, che pur versavano in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psicologica, anche se non presentavano rischi immediati per la salute, non era stato consentito di scendere a terra. Questo diverso trattamento veniva indicato come manifestamente in contrasto con il diritto internazionale dei diritti umani, nonché con le norme del diritto del mare che disciplinano l’obbligo di salvataggio. Come è già stato evidenziato nel corso delle relazioni precedenti, è vero che tali atti e convenzioni non menzionano espressamente il divieto di discriminazione; tuttavia, contengono sicuramente delle disposizioni che ne presuppongono l’applicazione. Mi riferisco, in particolare, all’articolo 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che impone ai comandanti l’obbligo di prestare soccorso a chiunque si trovi in pericolo in mare. Inoltre, si prevede che tale obbligo si esaurisca soltanto con lo sbarco delle persone soccorse in un luogo sicuro. Dunque, in primo luogo, il comandante della nave ha l’obbligo di far sbarcare al più presto e senza indugio tutte le persone migranti soccorse e presenti a bordo. Anche la Convenzione SOLAS e la Convenzione SAR presentano analoga ampiezza e assolutezza nell’affermare i diritti in materia di assistenza e salvataggio, riconoscendo il diritto ad essere soccorsi e, soprattutto, a essere fatti sbarcare in un porto sicuro. Addirittura, la Convenzione di Bruxelles del 1910 stabilisce che l’assistenza deve essere prestata a qualsiasi persona in pericolo di vita trovata in mare, anche qualora si tratti di un nemico. Si tratta, dunque, di un obbligo che grava direttamente sul capitano dell’imbarcazione soccorritrice.
Va tuttavia precisato che queste stesse previsioni si estendono anche agli Stati, sui quali grava un dovere ben preciso: quello di accogliere, o quantomeno di consentire l’accoglienza, delle persone soccorse in un porto sicuro. Non si tratta, dunque, di un obbligo di salvataggio “monco”; è necessario garantire lo sbarco in condizioni tali da assicurare una tutela effettiva, una protezione reale del loro diritto essenziale, fondamentale, alla vita.
Come sappiamo, nel nostro Paese, finalmente superato il proposito di chiusura totale dei porti, si è giunti a una fase successiva, ben delineata anche nelle interessanti relazioni che ci hanno preceduto. In particolare, mi riferisco all’intervento dell’Avvocato Saltalamacchia, che ha illustrato un’ipotesi di azione giudiziaria - già in corso - finalizzata a ottenere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 del codice civile nel cosiddetto “caso dei porti lontani”. Tale azione si fonda sulla reazione a un provvedimento che appare, senza esitazione, irragionevole e gravemente dannoso: anziché indicare il porto sicuro più vicino, impone rotte prolungate - definite ironicamente “crociere” - che si traducono in conseguenze drammatiche. Da un lato, infatti, le ONG sono costrette a sostenere costi significativamente maggiori, anche solo per l’uso del carburante; dall’altro, si arrecano danni in misura tangibile alla salute, già precaria, delle persone soccorse in mare.
Mi domando quindi se, di fronte di questi provvedimenti di natura amministrativa - ed è una riflessione che emerge anche dalle parole di chi mi ha preceduto e che, mi pare, costituisce un filo conduttore trasversale a molti degli interventi precedenti - non si possa prospettare l’ipotesi di una discriminazione diretta. Non si tratta di certo, infatti, di una forma indiretta: si tratta di misure che colpiscono in modo specifico determinate imbarcazioni, in quanto impegnate nel salvataggio di persone migranti provenienti da Paesi terzi, dunque appartenenti a un’etnia o a una nazionalità diversa. Si tratta, inoltre, di provvedimenti che non forniscono alcuna motivazione razionale, imponendo, in alcuni casi, addirittura la circumnavigazione dell’intero territorio italiano per raggiungere il porto assegnato. Ci troviamo di fronte a un atteggiamento, a una condotta, a una serie di atti che hanno, in modo evidente e mirato, un obiettivo preciso: rendere più difficile il viaggio in mare e, conseguentemente, l’approdo.
Ci troviamo di fronte a un atteggiamento, a una condotta, a una serie di atti che hanno, in modo evidente e mirato, un obiettivo preciso: rendere più difficile il viaggio in mare e, conseguentemente, l’approdo.
È però fondamentale ricordare che, secondo consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, per provare una condotta discriminatoria non è necessario dimostrare l’elemento soggettivo. Non rileva, dunque, ciò che pensi - pur potendosi agevolmente dedurre - colui che, in quel momento, impartisce l’ordine di far giungere la nave sull’altro versante dell’Italia.
Ciò che emerge con particolare evidenza è lo svantaggio concreto e l’ulteriore difficoltà che colpisce tanto le ONG quanto i migranti trasportati, costretti a eseguire un ordine - un atto amministrativo - che nega i presupposti stessi da cui dovrebbe originare. Infatti, come è stato opportunamente ricordato in precedenza, le fonti che disciplinano tali attività di salvataggio prevedono espressamente che la navigazione debba concludersi nel porto sicuro più vicino. Un comportamento di segno contrario risulta, dunque, in evidente contrasto con il principio da cui occorrerebbe logicamente e giuridicamente muovere.
Certamente, come abbiamo sentito dall’Avvocato Saltalamacchia, le difese dell’Avvocatura dello Stato si mostrano estremamente agguerrite nel rifiutare qualsiasi spiegazione delle ragioni sottese a tali provvedimenti. Tuttavia, anche in materia di discriminazione e di prova della discriminazione, resta fermo che è la parte accusata di aver posto in essere una condotta discriminatoria a dover fornire gli elementi atti a dimostrare la legittimità del proprio operato, laddove sia stato dimostrato l’effetto discriminatorio della misura adottata.
Va inoltre sottolineato che, nel caso di discriminazione diretta, non è possibile invocare giustificazioni fondate su criteri quali la proporzionalità o l’adeguatezza dello strumento utilizzato. In tal caso, il regime giuridico è molto più rigoroso e consente di giustificare una disparità di trattamento solo in presenza di eccezioni tassative, nelle quali la differenza sia giustificata da un obiettivo legittimo, necessario e non eccessivo. Anche in questo caso, si tratterebbe di dimostrare, in sede giudiziale, che misure di tale natura siano effettivamente necessitate e rese inevitabili da una situazione concreta, che però deve essere integralmente provata e giustificata da colui che è chiamato a rispondere della condotta discriminatoria.
Credo si tratti di strade nuove, certamente non agevoli, ma che forse vale la pena percorrere. Come ha ben evidenziato l’Avvocato Guariso, nessuno può più sostenere che atti di questo tipo siano insindacabili dal giudice, anche alla luce delle considerazioni già espresse dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. A maggior ragione, ciò vale nell’ambito del procedimento antidiscriminatorio, in cui il giudice è specificamente chiamato a valutare il merito delle scelte adottate, potendo non solo ordinare la cessazione degli effetti immediati, ma anche predisporre un piano di rimozione volto a impedire la reiterazione delle condotte discriminatorie nel futuro.
Ritengo che queste osservazioni possano integrare e completare quanto già illustrato nell’intervento introduttivo dell’Avvocato Guariso, e offrire alcuni spunti concreti in merito alle possibili reazioni processuali rispetto a tali comportamenti.
Giulia Crescini
Ringrazio sentitamente tutte le relatrici e tutti i relatori intervenuti in questa prima parte della giornata. L’obiettivo che ci eravamo posti era quello di iniziare a delineare alcune strategie giuridiche per affrontare, in maniera complessiva e non frammentaria, la complessa dinamica di contrasto alle operazioni di soccorso in mare e, più in generale, all’operatività concreta delle ONG impegnate in tali attività.
Nel corso della tavola rotonda di questo pomeriggio cercheremo di approfondire ulteriormente, sia gli scenari fattuali rilevanti, sia le possibili strategie giuridiche specifiche da adottare.