Seminario - Il contrasto ai soccorsi in mare: una prospettiva trasversale degli interessi in gioco e delle tutele possibili
Presiedono Giulia Crescini (avvocata ASGI) e Maria Acierno (Presidente I Sez. Civile della Corte di Cassazione)
Giulia Crescini
Buongiorno a tutti e a tutte, benvenuti e benvenute a questo convegno organizzato da ASGI, da Magistratura Democratica e da Questione Giustizia.
Il convegno si articolerà in due momenti: una prima parte di taglio più frontale, durante la quale ascolteremo interventi – anche a due voci – di professori, giuristi, avvocati, avvocate e magistrati su alcune tematiche; e una seconda parte che consisterà in una tavola rotonda, dove, in modo più libero e con un confronto più diretto, proveremo a riflettere insieme, anche a partire dalle considerazioni emerse nella mattinata. Cercheremo di ragionare sugli strumenti giuridici utili a costruire forme di resistenza, di contrapposizione, ma anche di superamento di alcuni nodi giuridici con cui ci confrontiamo nelle operazioni di search and rescue.
Ormai da diversi anni ci troviamo di fronte a un insieme composito e in continua evoluzione di atti legislativi e prassi, anch’esse in costante mutamento, che mirano fondamentalmente a limitare, da un lato, l’attività di soccorso in mare di persone in fuga dalla Libia e dalla Tunisia, andando così a modificare, attraverso prassi o provvedimenti legislativi, alcuni principi fondamentali delle principali convenzioni sul diritto del mare.
Dall’altro lato, assistiamo a una crescente limitazione della capacità di azione di alcuni soggetti – in questo caso attori privati, come le organizzazioni che operano nel soccorso in mare – i quali sono arrivati a sostituire un’attività che sarebbe doverosa da parte degli Stati e della Commissione europea.
Lucia Gennari (avvocata ASGI)
Gli strumenti normativi, le prassi amministrative e i procedimenti penali per il contrasto al soccorso civile in mare dal 2017 a oggi
Io cercherò, in questa prima mezz’ora, di offrire un quadro dello sviluppo delle dinamiche attorno al soccorso in mare effettuato da navi private, cercando di sintetizzare quelle che ci sembrano le principali criticità. Sarà una necessaria semplificazione, perché negli ultimi 6-7 anni, abbiamo assistito a un continuo cambiamento, sia nelle prassi sia nelle norme che sono state introdotte per disciplinare il soccorso civile in mare. Anche la composizione delle organizzazioni attive nel Mediterraneo centrale, impegnate in attività umanitarie, è mutata nel tempo, e ci sarebbe davvero moltissimo da dire.
Perché ci interessa il tema del soccorso in mare? Perché si tratta di un tema fortemente contestato, che nel contesto storico attuale ha assunto una valenza politica molto rilevante, come del resto tutti i temi legati all’immigrazione.
Questa circostanza si innesta su una dinamica che riguarda direttamente il diritto alla vita delle persone, e le politiche adottate su questo fronte producono spesso effetti profondi e, talvolta, violenti sui diritti fondamentali delle persone coinvolte.
Ci interessa anche perché tutti gli interventi su questo tema hanno - secondo noi - generato tensioni e contraddizioni rispetto ai diritti sanciti dal diritto internazionale, in particolare alle convenzioni e ai trattati che riguardano sia il diritto del mare, sia la tutela dei diritti fondamentali.
In questo senso, si sente spesso dire che il tema del soccorso civile in mare è una materia non sufficientemente regolata, o che le convenzioni applicabili in questo ambito non sono aggiornate. Questo argomento viene sollevato in particolare con riferimento alle convenzioni sul diritto del mare, che sarebbero state adottate in un periodo storico in cui il fenomeno delle migrazioni via mare non esisteva ancora.
Su questo punto, però, credo sia interessante riflettere sul fatto che le principali convenzioni – come la Convenzione SAR e la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare – sono entrate in vigore tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in un contesto in cui, in realtà, questo fenomeno esisteva già. Basti pensare al caso del Vietnam, dove era in corso una fuga di persone in mare a seguito del conflitto.
È curioso notare, tra l’altro, che già allora esistevano ONG tedesche impegnate in operazioni di soccorso in mare in quel contesto. Quindi non è del tutto corretto affermare che queste convenzioni sono nate in un vuoto di esperienza rispetto a fenomeni di questo tipo..
Ma un aspetto, per me, ancora più rilevante è che oggi anche le convenzioni sui diritti umani – come la CEDU e la Convenzione di Ginevra – sono oggetto di critiche, con l’argomentazione che non sarebbero più aggiornate al contesto storico attuale. Eppure si tratta di strumenti che sono alla base degli ordinamenti giuridici europei dal secondo dopoguerra in poi. Anche questo è un elemento che ci interroga.
Quello che proverò a raccontare parte da una domanda: se vado a limitare, fino a sanzionare, un comportamento universalmente riconosciuto come doveroso – come l’obbligo di soccorso – non sto forse attaccando alcuni principi fondamentali degli ordinamenti democratici? Perché, così facendo, si finisce per negare il diritto alla vita a determinate categorie di persone, oppure per compromettere la sicurezza in mare, che si basa anche sulla certezza che ogni comandante, ricevuta una segnalazione di pericolo, interverrà, indipendentemente dalla situazione concreta o dalla tipologia dell’imbarcazione – che sia una nave privata, pubblica o militare.
Quindi ci chiediamo se tutto questo intervento non stia andando a compromettere un equilibrio fondamentale. La tensione che osserviamo nasce principalmente dallo scontro – e poi dalla necessità di operare un bilanciamento, nei diversi giudizi che si sono susseguiti su questo tema – tra l’interesse degli Stati al controllo delle frontiere, che tra l’altro può essere esercitato in modi diversi, non necessariamente in quelli che vediamo, e i diritti individuali. I diritti delle persone che fuggono da contesti come la Libia o la Tunisia: il diritto alla vita, alla salute, alla dignità, e a non essere respinte verso luoghi in cui rischiano persecuzioni. Ma anche diritti delle soccorritrici e dei soccorritori stessi, che si vedono negare, in alcuni casi, la libertà di espressione, il diritto di associazione, e incontrano ostacoli nell’adempimento dell’obbligo di prestare soccorso.
Per semplicità, proverò a ricostruire alcune fasi di questa dinamica tra le navi private e le ONG impegnate nel monitoraggio e nel soccorso in mare, e la reazione delle istituzioni statali – principalmente in Italia.
Come sappiamo, però, anche se non mi soffermerò su questo aspetto, le decisioni politiche prese in Italia hanno spesso origine, o quantomeno un orientamento, nelle scelte politiche – soprattutto di indirizzo – della Commissione europea.
La prima fase che mi interessa analizzare è quella che va dal 2017 fino, più o meno, al 2020. È una fase che inizia subito dopo il primo periodo di attività delle ONG impegnate nel soccorso in mare – uso questa espressione semplificata, anche se sappiamo che la composizione delle organizzazioni è mista – cioè il biennio 2015-2016, quando, in occasione di quella che è stata definita la crisi dei rifugiati, sono aumentati i flussi di persone che tentavano di raggiungere l’Italia via mare.
In quel momento, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum – che prevedeva l’impiego di navi statali italiane anche per il soccorso in mare nel Mediterraneo centrale – si verifica un arretramento della presenza navale europea. Le navi iniziano a essere impiegate nell’ambito della missione Frontex Triton, con compiti e modalità diversi, e si crea quindi un vuoto operativo in quella zona.
È in questo contesto che iniziano ad attivarsi le navi private di organizzazioni della società civile, che assumono un ruolo sempre più rilevante nel supportare le autorità italiane, le quali continuano a coordinare i soccorsi in quell’area.
Una serie di dinamiche politiche porta questa fase a concludersi: anche le autorità italiane preposte al coordinamento del soccorso marittimo iniziano a smettere – o a voler smettere – di gestire i soccorsi in quella zona. Ci sono diversi passaggi, che ora scorrerò rapidamente, ma che vanno tenuti insieme nella lettura di questo fenomeno.
Mi riferisco in particolare ai processi di esternalizzazione del controllo delle frontiere, al memorandum Italia-Libia del febbraio 2017, all’istituzione della zona SAR libica nel 2018, e al codice di condotta per le ONG. Questi elementi determinano un cambiamento significativo, innanzitutto nella narrazione dell’attività umanitaria: da attività pubblicamente riconosciuta e molto elogiata, essa comincia a essere oggetto di accuse – inizialmente nel dibattito pubblico, e successivamente anche nei procedimenti giudiziari – di non essere del tutto trasparente, e si insinua l’ipotesi di possibili connessioni tra alcune organizzazioni attive in mare e le reti di trafficanti in Libia.
In questa fase, sempre nel 2017, assistiamo all’avvio continuo di indagini nei confronti di comandanti e capi missione, vale a dire figure esperte del soccorso in mare in quel contesto specifico. Vengono avviati almeno una quindicina di procedimenti a carico di quasi tutte le organizzazioni allora attive.
Ad oggi, solo uno di questi procedimenti ha portato a un rinvio a giudizio – tra l’altro molto recente – nei confronti dell’ONG Mediterranea, presso il Tribunale di Ragusa. Tutti gli altri si sono conclusi con l’archiviazione o il mancato rinvio a giudizio.
La vicenda più nota è forse quella della Procura di Trapani nel 2017, che ha visto coinvolte alcune grandi ONG, tra cui Medici Senza Frontiere, Save the Children e Iuventa, quest’ultima un’organizzazione tedesca di dimensioni più contenute.
Quindi, contemporaneamente, assistiamo a uno spostamento del discorso pubblico e all’avvio di numerose indagini. La giurisprudenza che si è espressa è quella penale, e direi che è sempre stata piuttosto unanime: fatta eccezione per il recente rinvio a giudizio di cui parlavo prima, abbiamo una giurisprudenza molto compatta che, di fronte alla condotta di chi – a seguito di operazioni di soccorso – consente l’ingresso sul territorio italiano di persone prive di documenti, riconosce costantemente l’esistenza di scriminanti.
Cito solo due casi che mi sembrano particolarmente significativi, perché, a mio avviso, sono tra i più forti: essi analizzano infatti la condotta di comandanti e capi missione che hanno apertamente disobbedito ad alcune istruzioni di attori statali.
Il primo caso, forse meno noto, è quello del Tribunale di Ragusa, relativo all’ONG Open Arms. In quella vicenda, il Tribunale ha riconosciuto che gli imputati avevano agito in stato di necessità per evitare un duplice pericolo. Mi interessa sottolinearlo, perché si tratta di un aspetto che poi riemerge anche in altri casi: il pericolo da evitare non consiste solo nel rischio di annegamento per le persone soccorse, ma anche nel rischio di essere respinte verso un contesto come quello libico. Nel caso specifico, l’ONG si era rifiutata di interrompere l’intervento di soccorso proprio per evitare che ciò accadesse.
L’altro caso, ben più noto, è quello di Carola Rackete, su cui si è espressa la Corte di Cassazione. Come sappiamo, in quella vicenda la comandante aveva disobbedito a un ordine delle autorità italiane: le era stato intimato di non entrare nelle acque territoriali e di non attraccare al porto di Lampedusa.
La Cassazione ha riconosciuto che la comandante disobbedendo a tale intimazione aveva agito nell’adempimento di un dovere: il dovere di soccorso, che non si esaurisce con il semplice recupero delle persone a bordo della nave soccorritrice, ma deve necessariamente concludersi con lo sbarco a terra in un luogo effettivamente sicuro.
Il tema del soccorso, non solo in riferimento al naufragio ma anche al rischio di respingimento, è stato ripreso di recente dal Tribunale di Trapani, che nelle sue conclusioni sottolinea con forza un punto centrale: non è possibile qualificare automaticamente come “irregolare” l’ingresso in Italia di persone soccorse in mare.
In questi casi, infatti, prevale la loro condizione di naufraghi rispetto alla normativa sull’immigrazione. E in quanto tali, i naufraghi hanno anche il diritto di essere condotti a terra in un luogo sicuro.
La definizione di “luogo sicuro” è stata oggetto di approfondimento da parte della giurisprudenza. In particolare, un’importante sentenza recente della Corte di Cassazione – nel caso della nave Diciotti – ha chiarito che un luogo può dirsi sicuro anche in funzione della possibilità, per le persone soccorse, di presentare una domanda di asilo.
Questa fase di moltiplicazione delle indagini – che poi, nella quasi totalità dei casi, si concludono senza esiti sanzionatori – si esaurisce, per quanto riguarda l’avvio delle indagini stesse, intorno al 2018-2019. In quel periodo entriamo in una nuova fase, in cui la reazione dello Stato si sposta maggiormente sul piano delle prassi amministrative e, soprattutto, sull’inquadramento della materia nell’ambito delle sanzioni amministrative.
Ci troviamo in un contesto in cui il Centro di coordinamento di Roma smette di coordinare attivamente, pur continuando a ricevere tutte le informazioni che le organizzazioni attive in mare trasmettono regolarmente, anche a Roma. Questo perché, nel contesto attuale, l’Italia resta l’unico Stato in grado di offrire un luogo di sbarco effettivamente sicuro, con la sola eccezione di Malta, che però si rifiuta sistematicamente di prendere parte alle operazioni.
In questa fase, l’attenzione si sposta su un altro fronte: quello di rendere sempre più difficile la difesa della posizione giuridica delle navi private che svolgono attività di soccorso, anche attraverso tentativi di sottrarre al sindacato giurisdizionale la legittimità di alcuni atti o comportamenti che vengono posti in essere per limitare l'attività del soccorso in mare.
Abbiamo una prima fase caratterizzata da una forte informalità, durante la quale il Ministero dell’Interno acquisisce progressivamente un ruolo sempre più centrale. Fino a quel momento, in realtà, il Ministero dell’Interno non aveva avuto un ruolo predominante nell’ambito del soccorso in mare: il suo coinvolgimento riguardava principalmente le attività successive allo sbarco, come l’identificazione, l’accoglienza e le procedure amministrative connesse. Per quanto riguarda, invece, aspetti come l’ingresso nelle acque territoriali, l’approdo nei porti o il coordinamento delle operazioni di soccorso, questi erano nella competenza esclusiva del Ministero dei Trasporti e della Guardia Costiera.
Questo comincia a cambiare. Ricordiamo, ad esempio, il caso della Diciotti e gli episodi di stand-off, cioè quelle situazioni in cui una nave umanitaria aveva già soccorso naufraghi ma non le veniva consentito lo sbarco, e in alcuni casi nemmeno l’ingresso nelle acque territoriali italiane.
Questa prassi, nota come “politica dei porti chiusi”, si va progressivamente formalizzando nel corso del 2018 e del 2019. In particolare, a partire da marzo 2019, il Ministero dell’Interno inizia a emanare direttive rivolte alle autorità responsabili del controllo delle frontiere – Guardia Costiera, Guardia di Finanza, ecc. – chiedendo esplicitamente di impedire l’ingresso in porto alle navi che hanno effettuato soccorsi. Queste direttive si fondano su una serie di argomentazioni che rappresentano, di fatto, la prosecuzione del discorso politico e istituzionale avviato nel 2017.
Segue un estratto della direttiva emanata nei confronti della comandante della nave Sea-Watch 3, Carola Rackete. Siamo nel giugno 2019; successivamente entrerà in vigore il cosiddetto decreto sicurezza bis, mentre le persone si trovano ancora a bordo della nave. In questa direttiva si legge: «considerato che le strategie criminali dei trafficanti di migranti, pur in difetto di concertazione o collusione, sfruttano l’anzidetta attività in mare svolta da imbarcazioni private; […] considerato, inoltre, che la suddetta attività può determinare rischi di ingresso sul territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, in quanto trattasi nella totalità di cittadini stranieri privi di documenti di identità […] rilevato che[…] risulta che la nave Sea Watch 3, a seguito di intervento effettuato ieri in area SAR libica, ha preso a bordo 52 migranti e che, dopo aver chiesto e ottenuto la concessione di un POS alla Libia (Paese più vicino al punto di trasbordo), ha disatteso tale richiesta preannunciando la volontà di una diversa destinazione;» dispone nei confronti della comandante e della sua imbarcazione un divieto di ingresso e di transito nelle acque territoriali italiane. Cosa che infatti, come ricorderete, avviene.
Su queste direttive pendono alcuni giudizi davanti al giudice amministrativo; alcuni si sono già conclusi, in particolare con dichiarazioni di improcedibilità, poiché gli atti impugnati avevano nel frattempo esaurito i propri effetti. Si tratta, ad esempio, di atti come quello emesso nel caso Rackete, che è stato disatteso e sul quale la Corte di Cassazione si è espressa in modo molto chiaro. Nonostante ciò, ci troviamo di fronte a una difficoltà strutturale nell’intaccare prassi o atti amministrativi, perché spesso i fatti risalgono a diversi anni fa, e i giudizi amministrativi hanno tempi molto lunghi.
Questo tema si ripresenta oggi in relazione ai fermi amministrativi: anche in questi casi, la durata del provvedimento è spesso incompatibile con i tempi del giudizio, inclusa la fase cautelare. Qui si tratta di giudizi civili, ma la dinamica è simile e rientra in una linea di difesa che le amministrazioni stanno seguendo in diversi procedimenti.
Inizialmente – come accaduto nel caso Diciotti, impostazione poi ritenuta illegittima dalla Corte di Cassazione – si sosteneva che tutti gli atti relativi all’ingresso di navi che avevano effettuato soccorsi rientrassero nella categoria degli atti politici o di alta amministrazione, e dunque fossero sottratti al sindacato giurisdizionale.
Dopo questa fase, e proprio durante il caso Rackete, entra in vigore il decreto sicurezza bis, che introduce sanzioni amministrative molto pesanti in caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali.
A partire da quel momento, il divieto può essere emanato congiuntamente dai Ministeri dell’Interno, della Difesa e dei Trasporti. Il decreto prevede, tra l’altro, sanzioni pecuniarie molto elevate – inizialmente comprese tra 150.000 e un milione di euro – nonché la possibilità di disporre la confisca della nave in caso di reiterazione della violazione, anche qualora questa si configuri nell’ambito dello stesso episodio. Infatti, sono state effettivamente emesse sanzioni multiple riferite a un unico intervento di soccorso.
Soltanto uno di questi decreti è riuscito a essere sospeso: quello emesso nei confronti della nave Open Arms, sospeso dal TAR del Lazio. In quel caso, il tribunale ha riconosciuto la sussistenza del fumus boni iuris, rilevando un eccesso di potere per travisamento dei fatti e una violazione delle norme di diritto internazionale in materia di soccorso in mare.
Dopodiché – e su questo passo rapidamente – si apre una fase che, probabilmente, è stata una delle meno comprese anche dagli addetti ai lavori: quella dei fermi amministrativi basati, questa volta, su una direttiva europea, sul cosiddetto Port State Control.
Non mi soffermo troppo sul dettaglio tecnico, perché si tratta di una materia particolarmente complessa, ma è importante evidenziare che questa fase ha avuto un forte impatto sull’operatività delle navi di soccorso umanitario. Quasi tutte le imbarcazioni impegnate in attività di search and rescue sono state, in quel periodo, sottoposte a ispezioni sistematiche e, in molti casi, a provvedimenti di detenzione. Questi provvedimenti si fondavano su una lettura delle norme di diritto marittimo e della navigazione in contrasto con i principi che normalmente si applicano in questo ambito. A questa fase si aggiunge poi l’utilizzo dell’obbligo di quarantena, poiché siamo nel periodo 2020-2021, applicato in modo anomalo: un po’ fuori contesto e in modo difforme rispetto agli obblighi previsti per le navi commerciali ordinarie.
Arriviamo così alla fase attuale. Oggi non siamo più di fronte a una narrazione centrata sul “ti tengo fuori” o sulla politica dei porti chiusi. L’approccio, piuttosto, è: “va bene, però questa materia deve essere disciplinata”.
La disciplina prevista è quella introdotta dal cosiddetto Decreto Piantedosi, entrato in vigore all’inizio del 2023, che interviene sull’impianto normativo di un altro decreto, il quale a sua volta aveva sostituito il Decreto Sicurezza bis. Questo passaggio evidenzia chiaramente che, così come in tutta la materia dell’immigrazione, vi sia stato un intervento continuo da parte del legislatore.
In sostanza, mentre il Decreto Lamorgese del 2020 aveva cercato di ricondurre questa tematica nell’ambito del diritto penale – notoriamente più garantista rispetto al diritto amministrativo – con il Decreto Piantedosi si torna a una gestione fondata principalmente su strumenti e sanzioni di tipo amministrativo.
Si tratta di una disciplina – attualmente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale in alcune sue parti – che prevede una serie di condotte sanzionabili. Tali condotte, per come la norma è stata formulata - a nostro avviso in termini molto generici - e per come è stata successivamente interpretata dalle amministrazioni, possono dar luogo a sanzioni amministrative, tra cui multe e fermi, nei confronti delle navi che hanno effettuato soccorsi, qualora le autorità ritengano che tali operazioni non si siano state svolte secondo le condizioni stabilite dal decreto.
Anche in questo caso ci troviamo nuovamente di fronte al problema della sindacabilità degli atti della pubblica amministrazione. I fermi amministrativi, che finora hanno avuto una durata tendenziale di 20 giorni – estesa in alcuni casi fino a 60 giorni, in applicazione del meccanismo della reiterazione che aggrava la sanzione accessoria del fermo – sono relativamente brevi sul piano formale, ma risultano significativamente lunghi se osservati dalla prospettiva dell’operatività delle navi di soccorso.
Questo aspetto assume particolare rilevanza se consideriamo che la moltiplicazione delle sanzioni amministrative si intreccia con una prassi – di cui parleranno altri colleghi e colleghe – relativa all’assegnazione di porti di sbarco molto distanti.
L’effetto combinato tra questa prassi e l’applicazione del decreto determina, in concreto, un notevole rallentamento dell’attività di soccorso.
Questo decreto e la sua applicazione più che addirittura il decreto in sé, proprio per come viene applicato, mettono le organizzazioni davanti a dei dilemmi che richiamano quelli tipici delle politiche volte a criminalizzare l’attività umanitaria. Si tratta di dilemmi che contrappongono, da un lato, il rispetto di principi e diritti sanciti dal diritto internazionale e dalle convenzioni – come abbiamo visto anche se solo brevemente – e, dall’altro, il rischio di incorrere in sanzioni amministrative.
Faccio due esempi.
Uno di questi dilemmi è quello del soccorso multiplo. L’ONG ha l’obbligo di recarsi senza ritardo nel porto assegnato, nel più breve tempo possibile. Ma se, durante la navigazione, riceve notizia di un altro caso di distress, cosa deve fare? È un problema che si ripropone costantemente. Questo avviene nonostante il mancato intervento in una situazione di pericolo possa configurare, a sua volta, un reato o comunque una violazione sanzionata dal diritto internazionale, almeno per quanto riguarda l’attività degli Stati.
L’altra questione riguarda la Libia, e in parte anche la Tunisia. Molto spesso le navi vengono sanzionate per non aver cooperato sufficientemente con l’autorità libica, un’autorità che, come sappiamo, è spesso violenta, anche durante le operazioni in mare. Un’autorità che, in ogni caso, riconduce sistematicamente – non risultano eccezioni – le persone soccorse o intercettate in Libia, dove sono sottoposte a trattamenti disumani e degradanti, rischiano la vita e, soprattutto oggi, rischiano persecuzioni. Ma per cosa vengono sanzionate, concretamente, le navi umanitarie? Per non aver inviato una mail al centro di coordinamento libico per richiedere un porto di sbarco; per non aver ottenuto un’”autorizzazione” a fornire assistenza a persone in pericolo all’interno dell’area SAR libica; o ancora, per non aver interrotto le operazioni di soccorso. E tutto ciò nonostante la giurisprudenza sia molto chiara nel sanzionare comportamenti che abbiano come effetto il ritorno forzato delle persone in un contesto come quello libico.
Ci troviamo ora in un punto di intersezione tra due dinamiche: da un lato, il tentativo di ridurre, limitare o forse in definitiva bloccare l’attività umanitaria in mare; dall’altro, le politiche di esternalizzazione, che comportano un sostegno, una legittimazione e un finanziamento significativi alle autorità libiche.
E questo succede - e per questo noi ci interroghiamo su quali possano essere le prospettive, gli strumenti e i profili giuridici che ci aiutino a districare questa situazione - nonostante abbiamo ormai a disposizione una giurisprudenza piuttosto solida, che ci dice diverse cose – e che, pur semplificando (chiedo fin da ora scusa) - secondo me trasmette un messaggio abbastanza chiaro.
Ci dicono, ad esempio, la Corte europea dei diritti dell’uomo e il Tribunale civile di Roma che trasferire naufraghi in fuga dalla Libia su una motovedetta libica dopo averli soccorsi costituisce una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare dell’articolo 3 e dell’articolo 4 del Protocollo n. 4, configurando un respingimento collettivo.
Ci dice la Corte di Cassazione, nel caso Asso 28, che non valutare la sicurezza del porto di sbarco e non attivarsi per cercare il coordinamento con le autorità competenti configura, per il comandante di una nave privata, il reato di abbandono arbitrario di passeggeri.
Ci dice il Tribunale ordinario penale di Roma, nel caso Libra, che non intervenire in soccorso di un’imbarcazione in pericolo – almeno per quanto riguarda le autorità statali – costituisce un reato. E aggiunge che, in ogni caso, tale omissione rappresenta una violazione del diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda il Patto sui diritti civili e politici del 1967, come affermato anche dal Comitato ONU per i diritti umani.
Ci dice il Tribunale ordinario civile di Roma, in diverse pronunce, che coordinare o comunque contribuire alla realizzazione di un respingimento verso la Libia – come nei casi delle navi mercantili Vos Triton e Asso 29 – comporta la responsabilità civile sia delle autorità coinvolte sia dei soggetti privati, per i danni subiti dalle persone successivamente respinte.
Ci dicono il Tribunale di Ragusa e il Tribunale di Trapani, come abbiamo già ricordato, che prestare assistenza a imbarcazioni in pericolo nel Mediterraneo significa agire per evitare un duplice pericolo: da un lato il naufragio, dall’altro il respingimento verso contesti in cui le persone rischiano gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Ci dice anche la Corte di Cassazione, ancora una volta nel caso Diciotti, che lo sbarco deve avvenire in un luogo realmente sicuro e in tempi ragionevoli, e che tale garanzia deve essere sempre assicurata.
Ancora, nel caso Rackete, la Cassazione ha affermato che l’inottemperanza a un ordine a ciò contrario può costituire un atto legittimo, quando è compiuto in adempimento di un dovere previsto dal diritto internazionale.
Ulteriormente, ci dice la giurisprudenza che rifiutarsi di condurre naufraghi in Libia – e, in alcuni casi, anche in Tunisia o a Malta – è una condotta conforme ai principi del diritto internazionale. Questo è quanto emerge da tutta la giurisprudenza penale maturata, in particolare, nel periodo 2017-2018.
Infine, ci dicono, ad esempio, il Tribunale di Crotone e il Tribunale di Vibo Valentia, nell’ambito di procedimenti legati ai fermi, che rifiutarsi di ottemperare all'ordine dell'autorità libica può essere corretto, poiché questa non può essere considerata a tutti gli effetti un'autorità SAR, perché ha comportamenti notoriamente violenti e poi perché non può offrire un luogo di sbarco effettivamente sicuro per le persone.
Maria Acierno
Prenderò pochissimo tempo, poiché il numero degli interventi è davvero considerevole e, per come è stato avviato il dibattito, altrettanto rilevante ne è il contenuto. Mi limiterò a due brevi considerazioni in merito a quanto finora esposto, per poi cedere immediatamente la parola ai relatori.
Nel tentativo di operare un raffronto con la giurisprudenza civile, posso affermare che essa – e in particolare quella della Corte di Cassazione, poi seguita anche dalla giurisprudenza di merito – si discosta sensibilmente da quanto illustrato dalla relatrice che mi ha preceduto.
Si è infatti affermato che il giudice amministrativo dichiara l’improcedibilità e, conseguentemente, non si pronuncia in ordine alla legalità o alla legittimità di determinati atti o comportamenti - in particolare ad atti, dal momento che il giudice amministrativo ha come oggetto precipuo della sua giurisdizione proprio gli atti amministrativi - in quanto tali atti hanno esaurito i propri effetti.
La giurisprudenza civile si pone in termini del tutto opposti. Fino ad oggi, tutte le nostre decisioni in materia di legittimità dei trattenimenti sono state adottate nell’ambito del sistema delle impugnazioni, anche con riferimento a provvedimenti che avevano ormai esaurito i propri effetti. Pertanto, la Corte di Cassazione civile ha sempre espresso un orientamento contrario rispetto a quello del giudice amministrativo, affermando che l’interesse alla decisione permane. Non si tratta esclusivamente di un interesse morale – pur essendo anche tale – ma di un interesse giuridicamente rilevante di natura risarcitoria, connesso al danno non patrimoniale derivante dalla protratta e ingiusta privazione della libertà personale.
A ciò si aggiungono ulteriori conseguenze, che potremmo definire collaterali che accentuano l’interesse a ricorrere, anche dopo la cessazione dell’efficacia del provvedimento restrittivo della libertà personale. Tali situazioni si verificano spesso nei casi in cui l’annullamento del provvedimento di trattenimento sia accompagnato da una valutazione di illegittimità anche dell’atto presupposto, ossia del provvedimento di espulsione. In sostanza, uno straniero, inizialmente in condizione di irregolarità, può acquisire uno status di regolarità a seguito dell’annullamento di un provvedimento – anche relativo al trattenimento – laddove tale annullamento si fondi sull’illegittimità dell’atto presupposto.
Mi domando, pertanto, se anche nell’ambito della giurisdizione amministrativa non possa essere formulata una valutazione circa l’illegittimità di tali atti o comportamenti. Oppure – pur rendendomi conto che potrebbe apparire come un esercizio meramente accademico, ma che tale in realtà non è – se dal non liquet sostanziale del giudice amministrativo non si possa poi approdare a una fase di interlocuzione con la giurisdizione civile, la quale adotta, invece, un criterio molto più ampio e inclusivo nella qualificazione dell’interesse ad agire. In ambito civile, infatti, è assai difficile sostenere che tale interesse sia assente.
Dico ciò perché l’Avvocatura dello Stato ha spesso sollevato, nei nostri procedimenti, l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse, eccezione che abbiamo sempre superato facendo riferimento alle numerose massime reperibili in qualsiasi raccolta di giurisprudenza civile.
Aggiungo ancora due brevi considerazioni per completare il discorso sviluppato in precedenza. La giurisprudenza civile si è occupata, prevalentemente, della fase immediatamente successiva a quella descritta in modo così puntuale dalla prima relatrice. Tuttavia, ha espresso, a mio avviso, una considerazione significativa e strettamente connessa a quanto appena illustrato, riguardante in particolare la fase del soccorso in mare.
La giurisprudenza ha affermato in maniera pacifica, con numerose pronunce, che il soggetto soccorso in mare e successivamente sottoposto a rilievi dattiloscopici non può essere inquadrato nella fattispecie dell'espulsione per ingresso illegale, inteso come ingresso avvenuto mediante sottrazione ai controlli di frontiera. È stato ripetutamente chiarito che, in tali casi, non si verifica alcuna sottrazione ai controlli: il cittadino straniero, infatti, non ha attraversato clandestinamente un valico, ma è stato soccorso in mare, condotto presso un hotspot e lì sottoposto a rilievi identificativi. Egli non ha posto in essere alcuna condotta attiva di elusione; l’intera procedura è stata gestita dalle autorità. Di conseguenza, non può ritenersi integrata la fattispecie normativa dell’ingresso illegale mediante sottrazione ai controlli di frontiera. La contestazione, pertanto, non rispecchia la realtà fattuale del comportamento tenuto dal cittadino straniero. E’, pertanto, necessario che la contestazione dei fatti sia strettamente coerente con la qualificazione giuridica della condotta e con la sanzione conseguente. In questi casi, infatti, l’espulsione viene annullata.
L'altro momento importante in cui la giurisprudenza civile si occupa della fase iniziale è quella del respingimento. Si occupava, perché adesso il respingimento, quantomeno immediato, è passato alla giurisdizione del giudice amministrativo. A mio avviso, tale passaggio è avvenuto in modo eccessivamente silenzioso. Ciò appare ancor più significativo se si considera l’impegno profuso, in passato, dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite nell’affermare che l’intera materia del respingimento, in quanto attinente a diritti umani fondamentali, dovesse rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario, ossia del giudice dei diritti. E invece, la materia è stata attribuita al giudice amministrativo. Ora, è vero che in alcuni ambiti il giudice amministrativo esercita una giurisdizione che si estende anche alla tutela dei diritti; tuttavia, nel caso specifico del respingimento non siamo nell’ambito della giurisdizione esclusiva. Ci troviamo, piuttosto, di fronte a una forma di regressione della situazione giuridica soggettiva del cittadino straniero all’ingresso non più titolare di diritti da bilanciare con l’interesse pubblico alla sicurezza dei confini ma di un interesse legittimo, che ritengo possa configurare un profilo di incostituzionalità ancor prima che di inadeguatezza sistematica. A meno che non si voglia sostenere che, in tale contesto, anche il giudice amministrativo debba essere considerato giudice dei diritti ma, in forma inedita, fuori dalla giurisdizione esclusiva. Ma, attenzione: in senso contrario, ogniqualvolta, in passato, ci si è rivolti al giudice amministrativo, quest’ultimo ha costantemente affermato – correttamente – che la questione non rientrava nella propria giurisdizione trattandosi di diritti umani fondamentali, e ha quindi rimandato la questione al giudice ordinario.
In ogni caso, fino a quando il giudice civile ha mantenuto la competenza in materia di respingimento – che a mio avviso, nonostante il quadro normativo confuso, conserva ancora per quanto riguarda i respingimenti differiti – la Corte di Cassazione ha ribadito in più occasioni la necessità di un controllo rigoroso sulla legittimità di tale tipologia di respingimento. Tale controllo si estende, in via consequenziale, anche ai provvedimenti di espulsione e di trattenimento che frequentemente seguono il respingimento differito.
È infatti raro che, a seguito di un respingimento differito, si arrivi direttamente a un allontanamento coattivo. Fortunatamente – se così si può dire – tale evenienza si verifica di rado, mancando spesso i presupposti concreti per un’esecuzione immediata. Si procede dunque, nella prassi, a un provvedimento sostanzialmente espulsivo, cui fa seguito, sovente, una misura di trattenimento.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la fase iniziale di presa in carico del soggetto – che sia stato soccorso in mare o fermato alla frontiera – richiede un controllo giurisdizionale particolarmente attento. Ciò vale soprattutto quando il soggetto non ha ancora posto in essere alcuna condotta illegale, come ad esempio la sottrazione ai controlli di frontiera.
Tale informazione non può essere rimessa alla mera volontà dell’interessato. Non è sufficiente, ad esempio, affermare che il soggetto non abbia manifestato intenzione di richiedere protezione internazionale. La prassi amministrativa, infatti, si limita spesso alla compilazione del cosiddetto “foglio notizie”, nel quale, accanto alle generalità, si trova una semplice indicazione – spesso mediante apposizione di una crocetta – che il soggetto è entrato nel territorio nazionale per motivi di lavoro.
Si sostiene quindi: “Gli è stato chiesto, e ha risposto che è venuto per lavoro.” Tuttavia, tale dichiarazione, nella sua estrema sintesi e rigidità formale, non è idonea ad assolvere all’onere – che è particolarmente rigoroso – di porre il soggetto straniero nella condizione effettiva di esercitare il proprio diritto a richiedere protezione internazionale.
Sono consapevole che si tratta, in un certo senso, di una goccia nel mare. Lo abbiamo anche scritto: chi arriva sino in Cassazione ha il diritto di veder riconosciuto che, in una fase precedente, avrebbe dovuto essere messo nella condizione di presentare domanda di protezione internazionale.
Tuttavia, ciò ha un'importanza fondamentale, poiché rispetto a tali prassi – che, prima ancora di tradursi in atti formali, si configurano come radicalmente illegittime – la Corte di Cassazione civile ha pronunciato una sanzione giuridica precisa, disponendo l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato.
Ciò in quanto il vizio riscontrato è da ritenersi del tutto inemendabile: non vi è possibilità di sanarlo in una fase successiva del procedimento. Infatti, il soggetto straniero viene a conoscenza, dopo il respingimento differito, della possibilità di richiedere protezione internazionale, tant’è che la domanda viene poi effettivamente presentata. Se così non fosse, non ci troveremmo neppure ad esaminare il caso.
Tale evoluzione ha comportato anche un problema di adattamento da parte della giurisprudenza della Prima Sezione penale della Corte di Cassazione, la quale, in una fase iniziale, di fronte a queste fattispecie, ha pronunciato sentenze di annullamento con rinvio. Ritengo tuttavia che sia intervenuta una riflessione successiva su questo punto. Ed è comprensibile: quando una materia viene affrontata da una giurisdizione diversa rispetto a quella che, fino a poco tempo prima, era considerata competente in via esclusiva – e che richiedeva una specializzazione maturata nel tempo – è fisiologico che vi sia una fase di transizione. È dunque legittimo, e direi anche auspicabile, che si attraversi un momento di riflessione, di assestamento, di “metabolizzazione” degli orientamenti giurisprudenziali, prima che si giunga a una linea interpretativa condivisa e consolidata. A mio avviso, tale orientamento sta effettivamente evolvendo.
Questi sono, sul versante civile, gli aspetti giurisprudenziali che si avvicinano maggiormente ai temi di cui vi state occupando. Molto si sta muovendo, e sarà interessante osservare in quale direzione evolverà la giurisprudenza di legittimità, soprattutto con riferimento al delicato ambito dei procedimenti cautelari e dei provvedimenti d’urgenza adottati a fronte del rifiuto, da parte della pubblica amministrazione, di evadere determinate richieste. Emergono indicazioni più o meno implicite, provenienti – per quanto è dato comprendere – anche da chi dirige gli uffici competenti, attraverso circolari e provvedimenti interni, che sembrano orientati a fronteggiare, ritardare o eludere istanze, a non accogliere le richieste, a rinviare le risposte, a non riscontrare le comunicazioni inviate tramite PEC o e-mail. Questa prassi, ormai diffusa, sta determinando una crescita significativa della tutela cautelare, che si sta rivelando particolarmente ampia e articolata, proprio per contrastare tali condotte omissive o dilatorie da parte dell’amministrazione.
L'esame del contenuto dei provvedimenti cautelari non arriva in Cassazione perché c'è una giustizia granitica che dice che non sono provvedimenti definitivi (decisori lo sono senz’altro, ma non sono definitivi). Tuttavia, un precedente significativo è rappresentato dal caso della sospensione degli effetti esecutivi del rigetto delle domande di protezione da parte delle Commissioni territoriali. Anche questo è pacificamente qualificato come provvedimento cautelare, ma ha comunque trovato ingresso nel giudizio di legittimità attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale. In tale contesto, infatti, si è affermato che la natura cautelare del provvedimento non osta, di per sé, al rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. I presupposti rilevanti sono altri: la necessità della risoluzione della questione ai fini della decisione di merito, la complessità giuridica della materia, la gravità delle difficoltà interpretative e la possibilità che la questione si ripresenti in modo reiterato.
Questa breve panoramica intende offrire qualche spunto sulle possibilità attualmente esistenti – e su quelle potenzialmente sviluppabili – in tema di strumenti ulteriori di tutela giurisdizionale, oggetto del nostro confronto odierno. Ritengo che queste siano, al momento, alcune delle prospettive più rilevanti da considerare.
Detto ciò, cedo immediatamente la parola agli altri relatori, seguendo l’ordine indicato nel programma.