Seminario - Il contrasto ai soccorsi in mare: una prospettiva trasversale degli interessi in gioco e delle tutele possibili
Presiedono Giulia Crescini (avvocata ASGI) e Maria Acierno (Presidente I Sez. Civile della Corte di Cassazione)
Sessione La libertà di associazione delle ONG dei soccorsi in mare e il possibile sindacato giurisdizionale
Antonello Ciervo (Unitelma Sapienza)
La criminalizzazione delle ONG che operano salvataggi in mare tra “Decreto legge sicurezza” e tutela multilivello della libertà di associazione
1. La criminalizzazione delle ONG che svolgono salvataggi di migranti in mare vede nella conversione del c.d. “Decreto legge sicurezza” (n. 48/2025, convertito nella legge n. 80 senza alcuna modifica testuale), un nuovo capitolo legislativo che rischia di aggravare ulteriormente il quadro sanzionatorio vigente: in particolare, all’articolo 29, primo comma («Disposizioni per la tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della Guardia di Finanza e modifiche agli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione») si stabilisce che le previsioni contenute negli articoli 5 e 6 della legge n. 1409/1956 – attualmente applicabili alle ipotesi di vigilanza marittima finalizzata alla repressione del contrabbando di tabacchi – sono estese anche ai casi in cui le unità navali della Guardia di Finanza vengano impiegate nell’esercizio delle funzioni istituzionali attribuite dalla normativa vigente. In altri termini, la norma estende l’ambito applicativo dei poteri di polizia attribuiti alla Guardia di Finanza, originariamente limitati alla repressione del contrabbando di tabacchi, a tutte le funzioni che il Corpo è chiamato a svolgere in alto mare: in particolare, ai sensi del Decreto legislativo n. 177/2016, la Guardia di Finanza esercita in via esclusiva le funzioni di polizia in mare con riferimento alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica nell’ambito del mare territoriale, anche ai fini delle attività di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare. In questo modo, quindi, con l’entrata in vigore della novella, qualora la nave di una ONG impegnata in un salvataggio in mare opponga resistenza ad una nave della Guardia di Finanza nell’esercizio delle proprie funzioni, al Capitano potranno essere contestati i reati di cui agli articoli 1099 e 1100 del Codice della navigazione. La novella è stata pensata, a mio avviso, per criminalizzare situazioni come quelle che si sono verificate nel corso del salvataggio posto in essere dalla Capitana della “Sea Watch 3” Carola Rackete, conclusosi rocambolescamente il 2 luglio 2019: in quel caso, infatti, in sede di convalida dell’arresto, con il primo capo d’imputazione il PM contestò alla Capitana della nave proprio l’articolo 1100 del Codice della navigazione. La Corte di Cassazione, tuttavia, stabilì che la Guardia di Finanza non aveva esercitato funzioni di polizia e non poteva dunque essere qualificata come nave da guerra. In particolare, con la sentenza n. 6626/2020, la III sezione penale osservò come le navi della Guardia di finanza siano certamente navi militari, «ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra. Sono altresì navi da guerra solo in presenza degli ulteriori requisiti: qualora "appartengano alle Forze armate", qualora "portino i segni distintivi esteriori delle navi militari", qualora "siano poste sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente", e qualora il loro equipaggio "sia sottoposto alle regole della disciplina militare". Il codice dell’Ordinamento militare approvato nel 2010, con il decreto legislativo n. 66 […] ha abrogato l’art. 133 del r.d. n. 1415 del 1938 che forniva una definizione di nave da guerra parzialmente diversa. E’ quest’ultima norma, oggi abrogata, […] che, dalla mancata iscrizione al naviglio da guerra, fa derivare l'esclusione della qualifica di nave da guerra per la motovedetta della Guardia di finanza. Tale riferimento risulta peraltro incongruo, alia luce della successione di leggi nel tempo sopra richiamata» (così pp. 13-14 della sentenza citata). Pertanto, è possibile sostenere che proprio per criminalizzare salvataggi in mare come quello posto in essere da Carola Rackete – a cui non fu possibile contestare il reato di cui all’art. 1100 del Codice della navigazione -, il “Decreto legge sicurezza” prevede oggi l’estensione della norma citata alle unità navali della Guardia di Finanza. Da ciò ne consegue, per l’appunto, alla luce di quanto ricostruito dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 6626/2020 e in ragione della novella sopravvenuta che:
a) l’articolo 1099 («Rifiuto di obbedienza a nave da guerra») nel testo attualmente vigente prevede che il Comandante della nave, che nei casi previsti nell’articolo 200 del Codice della navigazione non obbedisce all’ordine di una nave da guerra dello Stato, sia punito con la reclusione fino a due anni. Nel rinviare all’articolo 200 del Codice dell’ordinamento militare, inoltre, l’art. 29 del “Decreto legge sicurezza” consente alle autorità competenti di svolgere funzioni di polizia comprendenti, tra l’altro, la facoltà per il personale della Guardia di finanza di salire a bordo della nave in attesa dell’indicazione del POS, successivamente quindi alla realizzazione del salvataggio in mare, oltre che l’ispezione della documentazione di viaggio in possesso del Capitano. Ma soprattutto, con riferimento a quanto evidenziato in precedenza,
b) l’articolo 1100 del Codice della Navigazione («Resistenza o violenza contro nave da guerra») oggi rinvia all’articolo 239 del Codice dell’ordinamento militare che, a sua volta, equipara le unità navali della Guardia di Finanza operanti in mare alle navi da guerra, punendo così con la reclusione da tre a dieci anni il Comandante o l’ufficiale che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale. Tra l’altro, il terzo comma dell’articolo 239 specifica che la nave da guerra costituisce parte del territorio dello Stato italiano.
Se quindi nel 2020 la Corte di Cassazione stabilì che non era possibile contestare il reato di cui all’articolo 1100 del Codice della navigazione a Carola Rackete, oggi invece, proprio grazie all’entrata in vigore del “Decreto legge sicurezza”, attraverso un’estensione impropria delle competenze delle navi della Guardia di finanza originariamente riferite alla repressione del contrabbando di tabacchi, si giunge ad applicare tali disposizioni anche alle operazioni di salvataggio in mare poste in essere dalle ONG. Siamo passati, insomma, da una norma la cui ratio era quella di reprimere il racket del contrabbando di tabacchi, ad una norma anti-Rackete, un gioco di parole questo che forse potrà suscitare qualche ilarità, ma che dimostra come siamo senz’altro di fronte ad una normativa pensata appositamente per criminalizzare le ONG e che fa emergere l’impostazione autoritaria sottesa al “Decreto legge sicurezza” che tratta le associazioni impegnate nel salvataggio in mare dei migranti alla stregua di organizzazioni criminali.
2. Entrando nel merito delle questioni oggetto dell’incontro di studi odierno, ossia il modo in cui le misure sanzionatorie di natura civile e amministrativa interferiscono con l’effettivo esercizio della libertà di associazione delle ONG impegnate nei salvataggi in mare, quanto meno a partire dal Decreto legge n. 1/2023 (c.d. “Decreto Piantedosi”) e s.m.i., a me pare che l’articolo 18 della Costituzione dimostra di essere quasi un’arma spuntata. Questa norma, infatti, come è noto, si “limita” a stabilire che è vietata la costituzione di associazioni che perseguono fini vietati dalle leggi penali (primo comma), oltre al divieto di associazioni segrete – ma su questo punto sarà necessario tornare in seguito - e di quelle che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (secondo comma). Si tratta di una scelta improntata alla più ampia libertà possibile e che risente evidentemente di una serie di ragioni storiche, strettamente connesse alla volontà del Costituente di gettarsi alle spalle le norme liberticide che in materia erano state varate dal regime fascista. Questa massima libertà riconosciuta alle associazioni, tuttavia, comporta una sorta di paradosso costituzionale: un impianto normativo così estremamente ampio e “libertario”, infatti, non sembra offrire oggi strumenti di garanzia specifici che consentano di affrontare le questioni giuridiche che si pongono nel presente, anche se ovviamente non è preclusa la possibilità di adire un giudice al fine di far accertare e dichiarare la lesione di tale diritto.
La questione, infatti, con riferimento all’attività delle ONG che fanno salvataggi in mare, non è quella di verificare se di fatto tali associazioni siano state gradualmente criminalizzate in ragione di una serie di obblighi, divieti e sanzioni introdotti nella legislazione ordinaria, quanto l’opposto, ossia di accertare se tali ostacoli alle modalità ordinarie di esercizio della loro libertà di associazione, abbia di fatto esautorato la possibilità per tali organizzazioni di perseguire i propri (leciti) scopi sociali. La questione giuridica che si pone, allora, è di verificare se attraverso una serie di limiti, ostacoli, obblighi, divieti e sanzioni all’attività sociale dell’ONG, di natura civilistica o amministrativa, il legislatore ne abbia di fatto esautorato la libertà associativa. Anche per questo motivo appare utile considerare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti, per brevità, Corte EDU) la quale ha avuto modo di considerare tali possibili violazioni con riferimento a normative statali che di fatto hanno esautorato lo spazio di agibilità legale e democratico delle ONG. Nel nostro caso inoltre, si tratta di verificare se l’articolo 18 della Costituzione possa essere interpretato in combinato disposto con l’articolo 117, primo comma della Carta, alla luce dell’articolo 11, secondo paragrafo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che vieta l’interferenza illegittima dello Stato attraverso la propria normativa che risulti sproporzionata rispetto all’esercizio della libertà associativa, soprattutto quando quest’ultima sia rivolta al perseguimento di un fine sociale lecito. Tale interferenza può essere legittima soltanto se, in una società democratica, essa risulti necessaria alla tutela di beni giuridici di interesse generale, quali l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica, fermo restando il rispetto del principio di legalità e di proporzionalità delle misure limitative e/o sanzionatorie volte al perseguimento dell’interesse generale. Come è noto, l’articolo 11 CEDU fa esplicito riferimento alle sole associazioni sindacali, ma la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha progressivamente ampliato l’ambito applicativo della norma, includendovi anche i partiti politici e, più di recente, proprio le ONG: ed è questa evoluzione ermeneutica dell’art. 11 CEDU che potrebbe essere valorizzata nel nostro caso. Il tema della possibile limitazione della libertà di associazione delle ONG in relazione alle attività di soccorso in mare, infatti, deve essere considerato alla luce dell’efficacia dissuasiva che le cosiddette “condizionalità” presenti nell’ordinamento giuridico - ossia quegli obblighi, divieti, prescrizioni e relative sanzioni di natura civile e amministrativa, più raramente penale – producono in concreto. Tali misure, pur non criminalizzando formalmente l’attività svolta dalle organizzazioni, incidono in modo significativo sulle modalità concrete di perseguimento dello scopo associativo che - si ribadisce - rimane lecito, ma che risulta di più difficile realizzazione: si pensi, soltanto per fare un esempio, alla prassi del Ministero dell’interno che “concede” il POS alle navi ONG, indicando porti distanti molti giorni di navigazione dal luogo in cui si è realizzato il salvataggio, creando così un sovraccarico in termini di lavoro, tragitto e tenuta psico-fisica dell’equipaggio della nave e dei migranti salvati – oltre che un aggravio delle spese di mantenimento in mare dell’imbarcazione.
3. La giurisprudenza della Corte EDU relativa all’applicazione dell’articolo 11 della Convenzione rispetto alle ONG vede come Stati convenuti non solo Paesi di democrazia matura del Consiglio d’Europa, ma anche Stati che appartenevano fino a pochi decenni fa al blocco del cosiddetto “socialismo reale” e che oggi sono identificati come politicamente vicini alla Federazione russa (si pensi soltanto al “gruppo di Visegrad”). Si tratta di Stati in cui vigevano regimi politici non liberali ed in cui la società civile non esisteva, se non in misura embrionale, assai spesso repressa con modalità legali ed in cui non esisteva di fatto un pluralismo politico e sindacale. Il risultato è stato che l’azione dei pubblici poteri – e talvolta, in maniera ancor più esplicita, la normativa interna di questi Stati – si caratterizzava per una interferenza sproporzionata da parte degli apparati di sicurezza sulle modalità di esercizio della libertà associativa, con un effetto dissuasivo rispetto al perseguimento di scopi sociali pur leciti. In questa prospettiva, la Corte EDU ha avuto modo di stabilire che la garanzia di cui all’art. 11 della Convenzione non comprendesse soltanto la facoltà di creare o di sciogliere un’associazione (Gorzelik e altri contro Polonia e Tebieti Mühafize Cemiyeti e Israfilov contro Azerbaijan), ma includeva anche la possibilità, per la medesima associazione, di svolgere effettivamente le proprie attività istituzionali senza interferenze pubbliche, il che implicava che essa potesse proseguire le proprie attività a fronte di un’ingerenza statale non giustificata dal perseguimento o dalla tutela di un interesse generale. Dalla giurisprudenza della Corte EDU, quindi, emerge come pur potendo essere giustificate legislazioni che rendano significativamente più difficile il funzionamento delle associazioni - rafforzando i requisiti relativi alla loro registrazione, limitando la loro capacità di ricevere risorse finanziarie, assoggettandole ad obblighi dichiarativi e di pubblicità tali da darne un’immagine negativa, o esponendole al rischio dello scioglimento ex lege -, tali misure tuttavia devono essere proporzionate nel senso che non possono esautorare l’effettivo esercizio della libertà di associazione. Anche per queste ragioni, a fronte di uno scrutinio di proporzionalità molto stretto da parte dei giudici di Strasburgo e tenendo altresì conto del margine di apprezzamento statale di cui al secondo paragrafo, negli ultimi anni la Corte EDU ha spesso accertato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione con riferimento al rispetto della vita privata dei singoli associati. Infatti, tali violazioni vengono spesso accertate in relazione a ingerenze nell’ambito domiciliare (rectius, domicilio e/o sede legale) delle ONG, a fronte di ispezioni poste in essere dall’autorità amministrativa o di pubblica sicurezza e che risultano sproporzionate rispetto al mandato ispettivo originariamente conferito all’autorità procedente, di norma quella giudiziaria. Talvolta insieme alla violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte accerta anche violazione dell’articolo 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione che, come è noto, tutela la proprietà privata: l’accertamento della violazione di una di queste due disposizioni di solito finisce per assorbire l’accertamento anche della violazione dell’articolo 11 della Convenzione. Ciò, ad esempio, è quanto si è verificato nel caso Grande Oriente d’Italia contro Italia che rappresenta un precedente giurisprudenziale di grande interesse per quanto ci riguarda; la vicenda è nota: il Grande Oriente d’Italia si era rifiutato di consegnare l’elenco dei propri iscritti ad una Commissione parlamentare d’inchiesta istituita ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione. La Commissione allora, esercitando i poteri propri della magistratura inquirente, diede mandato alla polizia giudiziaria di effettuare un accesso presso la sede legale dell’associazione al fine di acquisire la documentazione richiesta e mai ottenuta: tuttavia, nel corso dell’operazione vennero sequestrati anche documenti e materiali che risultavano del tutto inconferenti rispetto a quelli che avrebbero dovuto essere acquisiti, sulla base del mandato originario dalla Commissione parlamentare alla polizia giudiziaria. Il Grande Oriente d’Italia ha così lamentato davanti alla Corte EDU una duplice violazione: da un lato, quella della vita privata dei propri iscritti (articolo 8 CEDU); dall’altro, della libertà associativa del Grande Oriente in quanto tale (articolo 11 CEDU), nella misura in cui era stata compromessa l’autonomia e la riservatezza dell’associazione, non perseguendo essa fini illeciti o “segreti”. La Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso, accertando però soltanto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione ed osservando che, pur trattandosi di un’ispezione disposta da un organo costituzionale, le modalità con cui la polizia giudiziaria si era introdotta nella sede dell’associazione e la mole significativa di documenti acquisiti agli atti, del tutto sproporzionata rispetto alla portata del mandato ricevuto, avevano conseguentemente violato il diritto alla riservatezza degli iscritti al Grande Oriente, oltre che un’ingerenza non giustificata nella vita privata e associativa dei propri soci. Tuttavia, in ragione dell’ampia portata applicativa dell’articolo 8, la violazione dell'articolo 11 CEDU venne dichiarata assorbita dalla Corte: al riguardo, merita qui ricordare l’opinione dissenziente del giudice Serghides, secondo il quale con questa decisione rischia di consolidarsi un indirizzo giurisprudenziale che potrebbe svuotare di contenuto normativo l’articolo 11 della Convenzione, laddove in presenza di associazioni la cui libertà dovrebbe essere specificamente tutelata, si omette una valutazione autonoma da parte della Corte del succitato parametro convenzionale. Tale opinione dissenziente deve in qualche modo essere collegata ad una sentenza della Corte pubblicata un paio di anni prima e che riguardava per l’appunto l’accertamento (autonomo, non connesso cioè ad altri parametri CEDU) della violazione dell’art. 11 della Convenzione rispetto ad una ONG: si tratta della sentenza della V sezione della Corte, XXX contro Azerbaijan, pubblicata nel mese di dicembre 2021 e che è molto importante ai fini della nostra analisi, perché per la prima volta la Corte EDU ha equiparato la libertà associativa di cui godono i partiti politici ed i sindacati a quella di una ONG. Nel caso in questione i ricorrenti erano rappresentanti di una ONG impegnata nel monitoraggio dello svolgimento delle elezioni politiche nello Stato convenuto: la controversia verteva su una serie di interferenze da parte delle autorità pubbliche azere, volte ad ostacolare l’attività associativa. In particolare, la normativa statale prevedeva l’obbligo di iscrizione delle ONG in un apposito registro pubblico controllato dal governo, con necessaria approvazione da parte dell’autorità giudiziaria. Il Ministero della Giustizia azero però, al fine di impedire la registrazione ufficiale dell’associazione, trasmise istruzioni alla polizia affinché sottraesse il fascicolo relativo alla domanda di iscrizione dagli uffici competenti nel corso dell’istruttoria dinanzi all’autorità giudiziaria: la Corte ha ritenuto che tale condotta integrasse una violazione dell’articolo 11 della Convenzione, in quanto ostacolava in modo grave e strutturale l’esercizio della libertà associativa dell’ONG. Con questa pronuncia, come detto, la Corte ha affermato – per la prima volta in modo esplicito – che le garanzie previste dall’articolo 11 CEDU debbano essere estese non soltanto ai sindacati e ai partiti politici ma anche alle ONG, soprattutto se esse svolgono un’attività volta a promuovere e a controllare il pluralismo politico ed il corretto funzionamento di una società democratica. Certo, in quel particolare contesto sociale e politico, in un contesto cioè di una democrazia non del tutto matura e improntata a fragili regole democratiche di natura liberale, una ONG che svolge attività di monitoraggio sulla regolarità delle elezioni svolge chiaramente una funzione di rafforzamento della vita politica e democratica e forse è proprio questo elemento particolare di contesto che ha spinto la Corte EDU a dare un’interpretazione estensiva all’art. 11 CEDU. Il punto, allora, è di comprendere se tale apertura giurisprudenziale possa essere estesa anche a ONG che non operano nel settore del controllo politico-elettorale ovvero della trasparenza politico-costituzionale in contesti democratici non particolarmente solidi, ma che invece si dedicano ad attività di salvataggio in mare in Paesi di democrazia consolidata. Pur con tutte le differenze di contesto, la pronuncia citata costituisce dunque un primo e rilevante precedente da tenere in considerazione. Al riguardo merita di essere segnalata, sempre in questa ottica, anche la recente pronuncia SIA Rix Shipping contro Lettonia: in questo caso, una società armatrice aveva subito un’ispezione da parte della Guardia di finanza lettone, a seguito di presunte violazioni della normativa nazionale in materia di concorrenza. Pur non avendo la Corte di Strasburgo accertato, in questa sentenza, una violazione dell’articolo 11 CEDU, ha comunque ribadito che le violazioni delle modalità di esercizio della libertà di associazione – e, più in generale, la legittimità dell’ingerenza da parte delle autorità di polizia -, devono sempre essere valutate alla luce del contenuto e dei limiti del mandato ottenuto dalla magistratura che autorizza l’accesso al domicilio legale dell’associazione medesima. Tale principio rafforza ulteriormente l’idea secondo cui la libertà associativa, anche quando non direttamente violata, rimane in ogni caso sottoposta a un necessario controllo di stretta proporzionalità e legalità rispetto alle modalità di esercizio del potere ispettivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. Nel caso SIA Rix Shipping contro Lettonia, del resto, pur non essendo stata accertata una violazione dell’articolo 11 CEDU, la Corte di Strasburgo ha affermato che eventuali interferenze nelle modalità di esercizio della libertà di associazione – in particolare, nei rapporti tra l’associazione e le autorità governative e di polizia – devono sempre essere valutate alla luce del mandato conferito dall’autorità giudiziaria per l’accesso al domicilio legale dell’associazione.
4. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (d’ora in avanti, per brevità, CGUE) potrebbe in qualche modo indicarci una strada per valutare l’interferenza negativa che una legislazione nazionale può produrre rispetto alle modalità di perseguimento dei fini sociali da parte di una ONG. Il riferimento è qui alla sentenza della CGUE sulla legge ungherese del 2018 che imponeva a tutte le associazioni operanti in territorio magiaro e che ricevevano donazioni in denaro dall’estero di iscriversi in un registro speciale e di dichiarare pubblicamente, anche a fini fiscali, la provenienza dei finanziamenti ricevuti (C-78/18 del 18 giugno 2020). La Commissione europea, al riguardo, aveva avviato nei confronti del Governo ungherese una procedura di inadempimento, proponendo quindi ricorso dinanzi alla Grande Sezione della Corte la quale, restando fedele al suo approccio giurisprudenziale orientato alla tutela del mercato e delle libertà economiche, ha innanzitutto accertato la violazione della libertà di circolazione dei capitali, rilevando come tale normativa producesse un effetto dissuasivo, un vero e proprio ostacolo alle donazioni transfrontaliere, ad esempio da parte dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione a favore delle ONG operanti in Ungheria. Ma, in aggiunta, la CGUE ha accertato anche una violazione dell’articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. “Carta di Nizza”), che tutela la libertà di associazione. Sono due gli aspetti di particolare rilievo che emergono dalla lettura di questa importante decisione: il primo si riferisce alla constatazione – implicita, ma sostanziale – che l’articolo 12 della “Carta di Nizza” sia del tutto privo di un contenuto normativo proprio e sufficientemente definito, tanto è vero che, nel tentativo di attribuire efficacia precettiva e un contenuto sostanziale a tale norma, la CGUE ha fatto pedissequo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, recependone principi, criteri e limiti applicativi. Come si legge ai §§. 110-111 della sentenza, infatti, «Per quanto riguarda, in primo luogo, il diritto alla libertà di associazione, esso è sancito dall’articolo 12, paragrafo 1, della Carta, ai sensi del quale ogni persona ha diritto alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico. Tale diritto corrisponde a quello garantito all’articolo 11, paragrafo 1, della CEDU: devono quindi essergli riconosciuti lo stesso significato e la stessa portata di quest’ultimo, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta». Il secondo profilo rilevante, invece, riguarda la valutazione di merito svolta dalla Corte di Lussemburgo con riferimento alla normativa ungherese che, si precisa, non introduceva sanzioni penali, ma soltanto obblighi amministrativi e tributari che interferivano profondamente con il libero esercizio dell’attività associativa. Al riguardo, la CGUE ha rilevato come «gli obblighi di dichiarazione e di pubblicità che le disposizioni in questione hanno istituito sono tali da limitare la capacità delle associazioni e delle fondazioni di cui trattasi di ricevere sostegno finanziario proveniente da altri Stati […] Ciò premesso, gli obblighi sistematici in questione […] possono avere un effetto dissuasivo sulla partecipazione di donanti residenti in altri Stati membri o in paesi terzi al finanziamento delle organizzazioni della società civile rientranti nell’ambito di applicazione della legge sulla trasparenza e, in tal modo, ostacolare le attività di tali organizzazioni e il conseguimento degli obiettivi da esse perseguiti. Inoltre, essi sono tali da creare, in Ungheria, un clima di sfiducia generalizzata nei confronti delle associazioni e delle fondazioni in questione nonché di stigmatizzarle» (così ai §§. 117-118 della sentenza). La Corte ha dunque rilevato un effetto dissuasivo della legge ungherese che si concretizzava in limitazioni, oneri e modalità specifiche di dichiarazione e di pubblicità, sul piano finanziario e tributario, che avevano determinato un’interferenza sproporzionata delle modalità operative dell’associazione, con un effetto finale volto ad ostacolare in concreto il perseguimento degli scopi sociali delle ONG. In conclusione, quindi, è possibile sostenere, se si vuole in maniera anche un po' provocatoria, che tutte le strade portano a Budapest. Se intendiamo realmente affrontare le modalità attraverso cui le ONG vengono, di fatto, criminalizzate, il modello da tenere sotto controllo è proprio questo e rientra non in una logica, come è stato evidenziato da autorevole dottrina, di “ossessione securitaria” che indubbiamente sussiste, quanto piuttosto in un disegno legislativo e politico – sarei tentato di dire di politica del diritto - consapevole e pianificato, volto a limitare la libertà di associazione in concreto delle ONG, attraverso misure di natura civilistica ed amministrativa che ne ostacolano il raggiungimento dei fini sociali. Per restare in Italia, allora, le ONG che operano salvataggi di migranti in mare potrebbero introdurre davanti alla giurisdizione ordinaria un’azione di accertamento dell’effettivo e concreto esercizio della propria libertà di associazione, come garantita dall’articolo 18 e dall’articolo 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo parametro integrato alla luce degli articoli 8 e 11 della CEDU, nonché dell’articolo 12 della “Carta di Nizza”, così come interpretati rispettivamente dalla Corte di Strasburgo e dalla CGUE. In questo modo, pertanto, sarebbe possibile per le ONG chiedere ai giudici ordinari, in concreto, se la normativa che regola i salvataggi in mare, con tutti i divieti, gli obblighi e le sanzioni, interferisca e/o incida a tal punto sull’esercizio delle modalità concrete di estrinsecazione della loro libertà associativa all’interno, da porsi in contrasto con le norme costituzionali ed euro-unitarie che garantiscono l’effettivo esercizio della libertà di associazione in una prospettiva quindi multilivello.
Maria Acierno
La ringrazio per l’intervento, davvero stimolante e, oggettivamente, anche in parte provocatorio. Prima di cedere la parola al collega Natale, desidero formulare soltanto un’osservazione, probabilmente influenzata dalla mia età, sensibilmente più avanzata rispetto a quella del relatore. Ho trovato molto interessante l’impostazione proposta e condivido la maggior parte delle considerazioni espresse, tralascio la parte più provocatoria.
Mi permetto tuttavia di dissentire, pur garbatamente, rispetto alla considerazione circa la parziale inutilità o la natura meramente prescrittiva dell’articolo 18 della Costituzione, e a maggior ragione dell’articolo 12 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Il ruolo che la prima di queste norme ha storicamente svolto nella nostra democrazia è stato enorme; si può dire che, forse, senza di essa oggi non saremmo qui. Sinceramente, non mi sento di svalutarla: al contrario, continuo a sentirmi profondamente tutelata da quella disposizione.
Non credo sia necessario aggiungere molto altro, ma rispetto all’articolo 12 della Carta dei Diritti Fondamentali dissento ancora di più, perché ritengo che proprio l’espansione massima che l’articolo esprime non preveda una conformazione della libertà a norme, all’ordine pubblico, alla morale o alle leggi. L’articolo 18 richiama la legge penale; l’articolo 11 della CEDU è quello che contiene più limitazioni e restrizioni, ed è comprensibile, perché nella necessità di mediazione che ha caratterizzato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i paletti dovevano essere più numerosi rispetto a quelli della Costituzione. Nella Carta dei Diritti, invece, non c'è nessun paletto.
Volevo aggiungere soltanto un ulteriore spunto di riflessione. Lo ha evidenziato la prima l’Avv. Gennari e lo ha ribadito anche l’Avv. Crescini: esiste un problema di frizione nel rapporto con le Carte. E dunque, se tale frizione si manifesta già a livello legislativo e governativo – giusta o sbagliata che sia – io continuo a difendere le Carte e le regole in esse contenute. Secondo me, vi è oggi un rapporto di frizione – e il professor Ciervo lo ha ben sottolineato – con una tendenza verso una lettura originalista delle Carte. Qualcuno sostiene infatti che le Carte siano superate, che appartengano a un’epoca in cui il rischio per la democrazia era reale; mentre oggi quel rischio non c’è più, dunque le Carte sono vuote, puramente prescrittive; e quindi dobbiamo essere più specifici, più puntuali. Ecco, occorre prestare molta attenzione a questa tendenza, perché si tratta, in realtà, di un tentativo di svalutare la portata cogente, precettiva, vincolante dei diritti contenuti nelle Carte.
Diritti che, invece, rappresentano il reticolo precettivo invalicabile al quale deve conformarsi l’attività del legislatore ordinario, nell’ambito del diritto positivo.
Diversamente, si rischia quel capovolgimento a cui talvolta abbiamo l’impressione di assistere: cioè che il diritto interno venga utilizzato con lo scopo precipuo di limitare l’applicazione delle Carte. Le Carte vanno difese, e va ribadito con forza che una lettura originalista è, in realtà, contraria allo spirito stesso delle Carte, delle Costituzioni e delle Convenzioni sui diritti umani. Una concezione originalista, semplicemente, non è ammissibile: lo ha affermato la Corte costituzionale in più occasioni e in modo inequivocabile. La Costituzione e le Carte si conformano all’evoluzione della civiltà giuridica, sociale e culturale, e costituiscono le uniche forme di prescrizione normativa dotate di tale duttilità.
Ma è proprio questa duttilità che consente al giudice – e la Corte costituzionale ce lo ha espressamente richiesto – di adottare un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. Interpretazione che, come sappiamo, in questo momento può talvolta suscitare turbamento, preoccupazione, o persino indurre l’adozione di interventi legislativi affrettati, e forse anche ultra vires, rispetto agli scopi originariamente perseguiti. Ritengo, pertanto, che proprio questo tema meriterebbe di essere oggetto di un ulteriore seminario, poiché si impone una riflessione più ampia sulla funzione – a mio avviso centrale e determinante – che dobbiamo continuare ad attribuire alle Carte, funzione che la giurisprudenza, in effetti, continua a mettere in evidenza.
Volevo portare questo forte spunto di riflessione, perché – badate – la lettura originalista è stata storicamente utilizzata per svalutare e limitare l’affermazione e l’attuazione dei diritti fondamentali.
Questo è accaduto, ad esempio, anche con riferimento alle famiglie omogenitoriali, rispetto alle quali si è affermato: “Eh, ma nell’articolo 30 si parla del matrimonio…”.
È un refrain che personalmente non condivido – e so bene che non è affatto la posizione dell’avvocato – perché, in sostanza, si finisce per dire: non ci assumiamo neppure questa funzione, neppure questo rischio, di adeguare i principi ed i diritti stabiliti nelle Carte all’attualità.
A mio avviso, le Carte sono vive, attualissime, e rappresentano proprio lo strumento di cui abbiamo bisogno, sia in sede interpretativa, sia per l’attività di riflessione e per il vaglio di costituzionalità, di coerenza col diritto unionale, con il diritto della Convenzione europea e, più in generale, con il sistema dei diritti umani.
Andrea Natale (giudice del Tribunale di Torino)
1. Confesso sin da subito la difficoltà che ho incontrato nell’approcciare questo tema (i soccorsi in mare, osservati dall’angolo visuale della libertà di associazione delle ONG che se ne occupano). Istintivamente, pensando ai soccorsi in alto mare, la mia attenzione si è sempre rivolta alle persone soccorse, piuttosto che alla libertà di associazione. Il fatto stesso che oggi ci troviamo a dover discutere questo aspetto rappresenta, a mio avviso, un segno dei tempi e un motivo di seria preoccupazione.
Desidero partire da una constatazione che ritengo rappresentativa delle vostre preoccupazioni, così come delle mie.
Si tratta di un’osservazione tratta da un rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali – la cosiddetta FRA – che, traducendo liberamente, afferma quanto segue: «i procedimenti penali e le misure amministrative adottate nei confronti delle imbarcazioni impiegate nelle operazioni di soccorso, come ad esempio il blocco nei porti per presunte irregolarità tecniche, producono un effetto dissuasivo (chilling effect) e finiscono per intimidire gli attori della società civile coinvolti[1]».
Si tratta dunque di una fotografia che non è stata scattata da osservatori militanti o da presunti agitatori, bensì dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali.
Nel medesimo rapporto, pubblicato nel 2024, l’Agenzia ricorda anche come gli attori della società civile – entrati in campo dopo la sospensione dell’operazione Mare nostrum – abbiano contribuito, dal 2014 al 2024, al salvataggio di un numero significativo di persone. Nello stesso periodo, secondo le stime, 29.800 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo.
Il concetto di chilling effect è fondamentale in questa sede.
2. Antonello Ciervo ci ha illustrato quale sia il perimetro entro il quale è possibile, in determinati casi, interferire con la libertà di associazione, che, ove non vi siano ingerenze legittime e proporzionate, deve considerarsi un’attività pienamente libera.
È sufficiente, a tal fine, consultare la guida predisposta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sull’interpretazione dell’articolo 11 della Convenzione, per individuare le misure che vengono ritenute costituire un’ingerenza nell’esercizio della libertà di associazione. Tra queste, si annoverano: l’avvio di procedimenti penali nei confronti di esponenti di una determinata associazione; i sequestri e le confische di beni riconducibili all’associazione stessa; le ispezioni, che possono anch’esse configurare un’ingerenza nella libertà associativa[2].
Occorre tuttavia precisare che queste misure configurano un’ingerenza incompatibile con le previsioni dell’articolo 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quando risultano: (i) prive di base legale, (ii) non sono necessarie in una società democratica o (iii) non rispettano il principio di proporzionalità. Questo – in sintesi – è ciò che stabilisce l’articolo 11 della Convenzione, su cui è stata chiamata ad esercitarsi in più occasioni la giurisprudenza della Corte Edu.
Già il fatto di trovarsi a ragionare in termini di “necessità in una società democratica” e di “proporzionalità” delle ingerenze in relazione ad una attività – il salvataggio di vite umane – spiega anche il motivo del mio iniziale imbarazzo nel predisporre questa relazione; ma ve n’è un altro: ragionare attorno alla “proporzionalità” delle singole ingerenze ha una conseguenza: l’impossibilità di fornire una risposta univoca, capace di definire, in termini di “sistema”, il perimetro della libertà di associazione che deve essere considerato impermeabile alle ingerenze statuali.
E il problema è esattamente questo: se ragioniamo in termini di proporzionalità, è difficile offrire una risposta che sia valida in ogni caso, che possa affermare in modo assoluto che l’esercizio della libertà di associazione da parte delle ONG impegnate nel soccorso in mare rientri sempre in un ambito tutelato e non possa essere limitato se non in circostanze specifiche.
Purtroppo, una simile affermazione non può essere fatta a priori, salvo non voler seguire – e personalmente ritengo che sia una suggestione di straordinario interesse – l’ipotesi avanzata da Antonello Ciervo: quella dell’azione di accertamento, perché l’esperienza degli ultimi anni ci dice che, spesso, le ONG che effettuano i salvataggi in mare si sono oggettivamente trovate dinanzi a una pluralità di ostacoli di natura legale o amministrativa – veri e propri offendicula giuridici – che hanno inciso (e continuano ad incidere) sull’esercizio della libertà di associazione da parte delle ONG.
3. Ora. Come detto, non è possibile definire a priori– con una definizione definitiva e valida in ogni circostanza – ciò che costituisce un’interferenza – ovvero un’ingerenza sproporzionata – nell’esercizio della libertà di associazione.
Tuttavia, possiamo certamente avviare una riflessione di tipo casistico, e in questo senso qualche considerazione può essere fatta.
Ho già ricordato che la stessa guida predisposta dagli uffici della Corte Edu sull’interpretazione dell’art. 11 Conv. Edu ha evidenziato che i sequestri, le confische e i procedimenti penali promossi nei confronti degli esponenti di un’associazione possono costituire forme di ingerenza nell’esercizio di quella libertà fondamentale.
Ma ho anche rilevato che le ispezioni – in determinate condizioni – possono anch’esse configurare un’ingerenza nell’esercizio della libertà di associazione.
4. In questo contesto, richiamo il caso Sea-Watch 4 e 5 e la relativa sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 1° agosto 2022, che ci offre alcuni spunti significativi[3].
Si tratta di una pronuncia dal carattere, potremmo dire, compromissorio, in quanto, da un lato, riconosce tutela alle buone ragioni delle ONG, affermando che non possono essere imposte a tali organizzazioni, in relazione alle navi impiegate, certificazioni ulteriori rispetto a quelle già rilasciate dallo Stato di bandiera. Dall’altro lato, però, la Corte riconosce alle autorità dello Stato ospitante – o dello Stato portuale – la facoltà di effettuare ispezioni, nell’ottica della tutela dell’ambiente e della sicurezza delle persone imbarcate[4].
Dunque, pur essendo una sentenza che opera un certo bilanciamento tra interessi contrapposti, essa contiene un’affermazione di principio chiara e rilevante: non è consentito richiedere alle navi delle ONG requisiti amministrativi o certificazioni aggiuntive rispetto a quanto già previsto e riconosciuto dallo Stato di bandiera.
Questa decisione, quindi, pone un limite e al tempo stesso offre un’indicazione di principio utile per orientare l’interpretazione e l’applicazione delle normative in materia: nessun trattamento deteriore (rispetto a situazioni paragonabili) è ipotizzabile in ragione del semplice fatto che l’attività esercitata è quella del soccorso in mare.
Un’ulteriore indicazione, sempre in relazione alla valutazione della proporzionalità delle attività ispettive e delle indagini amministrative, ci proviene dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione civile, in particolare nell’ambito dell’interpretazione dell’articolo 13 della legge n. 689 del 1981.
Mi riferisco, in particolare, alla sentenza n. 6361 del 2005, il cui orientamento è stato ribadito nel 2021 in altro contesto. Si tratta di una pronuncia che pone un limite alla potestà ispettiva delle autorità amministrative, anche nei confronti delle associazioni, laddove l’attività ispettiva si svolga in un luogo qualificabile come «privata dimora»[5].
Secondo la Corte, la nozione di «privata dimora», rilevante ai fini dell’art. 13 della legge 689/1981 e quindi ai fini della delimitazione dei poteri di ispezione degli organi preposti all’accertamento degli illeciti amministrativi, coincide con quella rilevante ai sensi del reato di violazione di domicilio.
Pertanto, la nozione di privata dimora non si esaurisce nella sola abitazione, ma include qualsiasi luogo destinato, anche solo transitoriamente, all’espletamento della vita privata o dell’attività lavorativa. Si tratta, dunque, di qualunque luogo – anche diverso dall’abitazione in senso stretto – in cui una persona si trattenga, in modo contingente e provvisorio, per compiere atti della propria vita privata.
Questa interpretazione dell’art. 13 della legge n. 689/1981 può costituire un limite giuridico all’attività ispettiva amministrativa, e, dunque, potrebbe assumere rilievo anche con riferimento alle ispezioni effettuate presso le sedi delle ONG, o – ma il tema qui è forse più complesso – persino a bordo delle imbarcazioni dalle stesse utilizzate[6].
Dunque, parliamo di un limite all’attività ispettiva e, dunque, di un limite legale ad una ingerenza nell’attività dell’associazione.
Ma vorrei aggiungere qualcosa di più: si può ulteriormente riflettere sul perimetro dei poteri ispettivi e di perquisizione nei confronti delle ONG (e della protezione da ingerenze sproporzionate), anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. È poco più di una suggestione. Ma forse si può fare qualche ragionamento a partire da alcune affermazioni fatte dalla Corte Edu in una sentenza – per certi versi controversa, ma significativa – quale quella nel caso Brazzi c. Italia[7].
In tale pronuncia, la Corte EDU ha censurato l’ordinamento italiano per l’assenza di un rimedio giurisdizionale volto a valutare la legittimità di una perquisizione potenzialmente illegittima, effettuata nell’ambito di un procedimento penale [si legge al punto 48 della sentenza: «nessun giudice ha esaminato la legittimità e la necessità del mandato di perquisizione del domicilio del ricorrente emesso dal procuratore. Pertanto, in assenza di tale esame e, se del caso, di una accertata irregolarità, l’interessato non ha potuto chiedere una riparazione adeguata del danno presumibilmente subito»; al punto 50 della sentenza se ne ricavano le implicazioni in punto legalità convenzionale: «La Corte ritiene pertanto che, in assenza di un controllo giurisdizionale preventivo o di un controllo effettivo a posteriori della misura istruttoria impugnata, le garanzie procedurali previste dalla legislazione italiana non siano state sufficienti ad evitare il rischio di abuso di potere da parte delle autorità incaricate dell’indagine penale»].
La Corte Edu, dunque, in quel caso ha stigmatizzato il fatto che il diritto interno non avesse offerto al ricorrente garanzie sufficienti per proteggersi da eventuali abusi o arbitrarietà, né prima né dopo l’esecuzione della perquisizione.
Di conseguenza, ha ritenuto che il ricorrente non avesse beneficiato di un controllo effettivo, come invece è richiesto dallo Stato di diritto in una società democratica.
Questo precedente suggerisce dunque di guardare al fenomeno delle attività ispettive cui sono sottoposte le ONG che effettuano soccorsi in mare anche da questa prospettiva, ragionando in termini di limiti e garanzie anche rispetto all’attività ispettiva amministrativa; soprattutto quando essa rischia di degenerare in forme sproporzionate (e dunque potenzialmente arbitrarie) o prive di adeguato controllo giurisdizionale.
In tal senso, il riferimento al caso Brazzi può allora costituire un ulteriore elemento utile per delimitare e contenere l’esercizio del potere ispettivo, in coerenza con i principi di legalità, proporzionalità e controllo effettivo; limiti che – ci ricorda la Corte Edu – sono fondamentali in un ordinamento democratico.
Questo era un primo profilo che intendevo evidenziare.
5. Ci tengo ora, nei pochi minuti che credo mi restino a disposizione, a richiamare un ulteriore aspetto che, però, ritengo di particolare rilievo. Le autorità di governo e le ONG svolgono la loro attività operando su piani diversi e parlano linguaggi differenti: le prime (le autorità di governo) si muovono nell’ambito della tutela e del controllo delle frontiere, mentre le seconde (le ONG) operano nel quadro del soccorso in mare, ispirandosi a logiche umanitarie e di protezione della vita. Questi due approcci, inevitabilmente, entrano non di rado in frizione, e lo fanno in modo evidente e concreto.
Ne abbiamo una plastica dimostrazione nella vicenda del POS (Place of Safety), ossia del luogo sicuro di sbarco: cosa sia esattamente un POS, quando possa essere individuato, in che termini possa o debba essere assegnato, sono tutte questioni che riflettono la tensione tra queste due logiche tra loro in frizione.
Partiamo da un dato fondamentale: il soccorso in mare costituisce un dovere giuridico.
Ce lo ricorda, in maniera autorevole, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel caso “Diciotti”[8], ma lo affermano numerose Corti nazionali e sovranazionali, nonché una pluralità di disposizioni normative, che non si limitano al diritto del mare o al diritto consuetudinario, ma si estendono anche al diritto dell’Unione Europea.
Ricordo innanzitutto che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) è stata ratificata anche dall’Unione Europea in quanto soggetto giuridico autonomo. Pertanto, tale Convenzione costituisce parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione, come ha ribadito la Corte di Giustizia nel caso Sea-Watch 4 e 5, già precedentemente richiamato[9]. La Convenzione UNCLOS stabilisce, in via di principio, che il soccorso in mare è un obbligo giuridico, e che tale obbligo incombe su ogni naviglio, pubblico o privato, a condizione che l’adempimento non metta a rischio la sicurezza dell’equipaggio o dell’imbarcazione stessa.
6. Ora, che cosa significa, in concreto, quanto detto finora?
Significa che, ad esempio, quando un MRCC (Maritime Rescue Coordination Centre) ordina a una nave di una ONG di obbedire alle istruzioni dell’autorità SAR libica, e l’ONG si rifiuta di eseguire tale ordine, ci si deve interrogare sulla legittimità del rifiuto opposto dagli operatori che effettuano il soccorso in mare. Su questo punto, l’Avv. Gennari ha già richiamato alcune decisioni giurisprudenziali nelle quali le Corti di merito hanno riconosciuto la legittimità del rifiuto di riconoscere la sicurezza dell’area SAR libica[10].
Un riferimento particolarmente rilevante proviene anche dalla Corte di Cassazione, nel noto caso Vos Thalassa. Pur non trattandosi di un procedimento penale a carico di ONG, ma piuttosto di alcuni migranti richiedenti asilo, accusati di violenza privata nei confronti del comandante della nave, la Corte ha affrontato una questione cruciale: i migranti si erano opposti con forza al rischio di essere riconsegnati alla Libia. Ebbene, la Corte di Cassazione ha affermato che tale reazione era finalizzata a evitare un respingimento verso un Paese – la Libia – che non può essere considerato un luogo sicuro (POS), ai sensi del diritto internazionale e delle convenzioni in materia di diritti umani[11].
Questo orientamento giurisprudenziale – che in più occasioni e in diverse sedi, di merito e di legittimità, ha riconosciuto l’impossibilità di ritenere la Libia un “posto sicuro” – rafforza la posizione di chi, anche tra le ONG, contesta la legittimità di un ordine di coordinamento SAR proveniente da un’autorità che non garantisce le condizioni minime di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali per le persone soccorse.
Ma per affermare, in modo giuridicamente fondato, che la Libia non rappresenta un luogo sicuro, non è sufficiente appellarsi a una conoscenza generale della situazione nel Paese – per quanto essa sia notoria –: occorre individuare un preciso aggancio normativo che possa offrire copertura giuridica a chi, operando in mare, decide di non obbedire all'ordine delle autorità SAR libiche, ad esempio quando le autorità di coordinamento intimano ai comandanti della nave che opera il soccorso di dirigersi, per esempio, verso il porto di Misurata.
E questo è un punto essenziale; anche perché molte delle sanzioni amministrative attualmente applicate si fondano proprio su tale rifiuto. In altre parole, molte contestazioni di illecito amministrativo si fondano proprio sulla presunta illegittimità insita nell’aver disatteso un ordine di coordinamento SAR che le autorità reputano legittimo.
Ora, io ritengo che una base normativa idonea a fondare la legittimità del rifiuto possa essere individuata non solo nell’articolo 98 della Convenzione UNCLOS, e nella Convenzione SAR (Convenzione di Amburgo), che definiscono i parametri di ciò che può considerarsi un place of safety; ma anche, e forse con particolare rilievo, in un atto normativo dell’Unione Europea. Mi riferisco al Regolamento (UE) n. 656/2014 che disciplina le norme relative alla sorveglianza delle frontiere marittime esterne, nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia dell'Unione Europea che si occupa della gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'UE[12].
È vero che questo regolamento disciplina il comportamento delle autorità pubbliche degli Stati membri nel contesto della sorveglianza delle frontiere marittime esterne, tuttavia, contiene un principio di rilevanza generale, che ha una portata normativa chiara e vincolante, in quanto si tratta di un regolamento dell’Unione Europea, quindi dotato di effetto diretto negli ordinamenti nazionali. Questo principio è nitidamente scolpito nell’art. 4 del regolamento: «Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto ad entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un Paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto a pena di morte, tortura o altri trattamenti inumani o degradanti».
Tutto ciò, a ben vedere, offre una copertura normativa all’operato di coloro che – nel contesto delle operazioni di soccorso – affermano: “io all’autorità SAR libica non posso prestare ascolto”.
E ritengo che, se tale quadro normativo giustifica il rifiuto di cooperare con le autorità libiche, esso possa anche costituire un fondamento giuridico ragionevole per disapplicare le sanzioni amministrative che vengono comminate proprio sulla base del mancato rispetto di un ordine proveniente da quella stessa autorità SAR o che impongono di coordinarsi con essa, prestandole obbedienza e collaborazione.
In particolare, si potrebbe sostenere la violazione diretta dell’articolo 4 del Regolamento (UE) n. 656/2014, che – come già ricordato – impone il rispetto del principio di non respingimento e vieta qualsiasi condotta che comporti la consegna di persone a un Paese in cui sussistano rischi gravi per i diritti fondamentali.
A ciò si aggiunga, forse più semplicemente, anche il riferimento all’articolo 4 della legge n. 689 del 1981, che – già sul piano del diritto italiano – consente di escludere l’illiceità amministrativa del comportamento in presenza di una causa di giustificazione.
In casi in cui viene in rilievo – come contestata condotta illecita – la mancata collaborazione con le autorità libiche, si potrebbe configurare una “scriminante” amministrativa, basata sulla necessità di evitare un pregiudizio grave e attuale per i diritti fondamentali delle persone soccorse, tale da legittimare il comportamento dell’ONG e ritenere giustificata la condotta contestata come illecito amministrativo.
7. Tra i possibili fattori di ostacolo all’esercizio della attività associativa da parte delle ONG vi è, poi, il tema della assegnazione dei POS da parte delle autorità preposte.
In taluni casi ci si è trovati a ragionare sulle conseguenze che determina il rifiuto di assegnare il luogo sicuro di sbarco (POS).
Richiamo brevemente, dandola per letta, la nota sentenza sul caso Diciotti; in quella decisione, la Corte di Cassazione ha chiarito nitidamente che non è in discussione l’an dell’assegnazione del POS, cioè l’obbligo di assegnarlo, potendo, al più, venire in rilievo il quomodo, ossia le modalità e le condizioni con cui questo obbligo viene assolto dalle autorità amministrative.
E tuttavia, proprio il quomodo è questione tutt’altro che secondaria. Perché, ad esempio, se una nave si trova sotto costa a Lampedusa e le viene assegnato come POS La Spezia, ciò ha un impatto significativo sull’attività dell’associazione che gestisce il soccorso. Per un numero consistente di giorni, quella stessa nave si troverà a fronteggiare il disagio conseguente alla presenza di naufraghi a bordo. Per un numero consistente di giorni, la ONG dovrà fronteggiare i costi legati al lungo viaggio alla volta di La Spezia. Per un numero consistente di giorni, l’ONG non potrà operare i soccorsi in mare, venendo di fatto impedita – o fortemente ostacolata – nel perseguimento del proprio oggetto sociale.
È vero che non esistono, ad oggi, disposizioni normative di univoca interpretazione su questo punto, ma alcune considerazioni è possibile formularle.
Anzitutto, emerge una problematica relativa al sindacato giurisdizionale sull’assegnazione del POS.
Ho avuto modo di esaminare alcune pronunce del Consiglio di Stato, che hanno tentato di esercitare un controllo giurisdizionale, anche attraverso lo strumento dell’accesso agli atti, sulla procedura amministrativa relativa alla designazione del POS. Tuttavia, tali tentativi si sono spesso scontrati con un atteggiamento di chiusura da parte dell’autorità amministrativa, che oppone il diniego di accesso. Alla domanda sul perché sia stato assegnato il POS a La Spezia, la risposta è spesso che non è possibile rivelarlo, per ragioni di sicurezza nazionale, di rapporti internazionali, persino in riferimento alla NATO[13].
Tuttavia, si stanno registrando evoluzioni significative. Il Consiglio di Stato ha iniziato ad affermare che non è ragionevole considerare l’assegnazione del POS come una “black box” della Repubblica, impenetrabile e sottratta a ogni forma di controllo. In questo senso, la giurisprudenza ha operato una distinzione tra due segmenti della procedura amministrativa: il primo segmento riguarda la gestione della pubblica sicurezza, la tutela delle frontiere e la sicurezza nazionale, ambiti che, secondo il Consiglio di Stato, continuano a giustificare una certa riservatezza; mentre il secondo segmento, invece, è quello ostensibile, che attiene alle valutazioni tecnico-marittime operate – ad esempio – dalla Capitaneria di Porto, in ordine all’idoneità di un luogo rispetto a un altro quale POS[14].
Tuttavia, va detto che tutto ciò incide relativamente, nel senso che non risolve realmente il problema di fondo.
A mio avviso, ci troviamo di fronte a una questione seria, che potrebbe anche prestarsi a essere oggetto di un’iniziativa giudiziaria strutturata, perché – se è vero che il POS non deve necessariamente coincidere con il porto geograficamente più vicino – è altrettanto vero che deve essere un porto “ragionevolmente” vicino.
8. A quest’ultimo proposito, mi è venuto in mente un profilo di rilievo; e mi è venuto in mente a partire da una tragica vicenda, richiamata poco fa in uno dei precedenti interventi: la vicenda dei boat people con le persone in fuga dal Vietnam. Mi è venuto in mente adesso, per un “fatto familiare”.
Mio padre era un marittimo e navigava a bordo di una petroliera di proprietà di una multinazionale. La nave di mio padre si trovava a percorrere alcune rotte nei mari dell’estremo oriente, proprio negli anni delle fughe dal Vietnam; una volta la sua nave incappò in un boat people e l’equipaggio – adempiendo al dovere di soccorso in mare - imbarcò un buon numero di queste persone; le operazioni di soccorso portarono via tempo; così come portò via tempo la modifica della rotta, per condurre i naufraghi in un porto sicuro. Ciò agli occhi della multinazionale allungò a dismisura il viaggio e provocò un ritardo nella consegna del carico.
La compagnia – da quell’esperienza in poi – cambiò le rotte delle proprie navi, e, in quel modo, evitò il rischio di dover imbarcare altri boat people. Mio padre non passò più per quel tratto di mare e, di naufraghi vietnamiti, non ne vide più, se non in quell’unica occasione.
La multi-nazionale conosceva il valore del “tempo-nave”. Ed era in grado di calcolare i costi di quell’operazione di soccorso.
Ed è questa, forse, la ragione per cui le linee guida dell’International Maritime Organization, al punto 6.3, stabiliscono che una nave che ha effettuato un’operazione di soccorso non dovrebbe essere soggetta a ritardi ingiustificati, a oneri finanziari o ad altre difficoltà a seguito dell’assistenza prestata a persone in mare; in altri termini, non dovrebbe rappresentare un costo. Per tale motivo, gli Stati costieri dovrebbero provvedere a sbarcare le persone soccorse dal naviglio nel più breve tempo possibile. Si tratta della linea guida 6.3 della Risoluzione MSC.167(78) del 2004[15].
Si tratta, inoltre, di una disposizione che risponde a un criterio di ragionevolezza e risulta coerente con quanto previsto anche dalla Convenzione di Amburgo e dalla Convenzione SAR, le quali forniscono indicazioni analoghe. Essa persegue l’obiettivo non solo di facilitare le operazioni di soccorso in mare, ma anche quello di “non disincentivarle”. È una linea guida che (certamente) è pensata per le navi commerciali. Ma è una linea guida che deve applicarsi anche alle navi delle ONG che svolgono le operazioni di soccorso in mare.
L’assegnazione di un POS incredibilmente lontano è una prassi non conforme a tale linea guida.
9. Passo, infine, all’ultimo tema che desidero affrontare: tutte le ingerenze che derivano dall'applicazione concreta delle sanzioni – mi riferisco, in particolare, all’articolo 1, comma 2, del decreto-legge n. 130 del 2020, più volte modificato, anche recentemente – devono essere valutate alla luce del principio di proporzionalità. È, lo ammetto, un’osservazione ovvia.
Tuttavia, in quali ambiti sanzionatori viene, concretamente, in rilievo il principio di proporzionalità? Mi limito a sintetizzarlo al massimo grado, fornendo poi due riferimenti giurisprudenziali.
Anzitutto, vi rientrano: la misura della sanzione pecuniaria, il fermo amministrativo e la confisca. Tali misure rivestono natura sanzionatoria? Evidentemente sì.
Aggiungo un inciso, a proposito del tema del fermo amministrativo e della confisca. Su questi aspetti, il legislatore è recentemente intervenuto introducendo un ulteriore elemento che denota come i “reali” destinatari dell’arsenale sanzionatorio siano le ONG e non la persona fisica eventualmente autrice di un illecito amministrativo. Alludo all’intervento operato sul testo dell’art. 1, co. 2-sexies, d.l. n. 130/2020. Come è noto, quella disposizione prevedeva un regime sanzionatorio deteriore nel caso in cui l’autore dell’illecito amministrativo avesse reiterato precedenti violazioni. Ora, sul concetto di reiterazione è intervenuto il legislatore che – in sede di conversione del d.l. n. 145/2024 – ha apportato modifiche al decreto legge e, per quanto qui di interesse, ha modificato anche il testo dell’art. 1, co. 2-sexies, d.l. n. 130/2020[16].
Il regime sanzionatorio deteriore che si applica in caso di reiterazione dell’illecito amministrativo si fonda oggi su un nuovo concetto di “reiterazione”: «si ha reiterazione nel caso di nuova violazione commessa con l'utilizzo della medesima nave, contestata anche soltanto a uno degli autori o degli obbligati in solido nei cui confronti, nel quinquennio precedente, sia stata accertata, con provvedimento esecutivo, una precedente violazione delle disposizioni del presente comma, salvo che il medesimo autore od obbligato in solido provi che la condotta illecita è avvenuta contro la sua volontà, manifestata attraverso comportamenti idonei specificamente volti a impedirne il compimento» [art. 1, co. 2-sexies, sesto periodo, d.l. n. 130/2020]. La modifica, chirurgica, persegue il chiaro intento di sanzionare non gli autori delle violazioni, ma direttamente le ONG. Queste, da obbligate in solido, vengono (di fatto) considerate dal legislatore come i reali autori dell’illecito. Si tratta di uno spostamento non da poco, che conferma come il tema dell’intervento a me assegnato, benché non semplice da ricondurre a sistema, colga una linea di tendenza del sistema normativo che assume via via una fisionomia molto chiara.
Chiuso l’inciso sul nuovo concetto di «reiterazione» e sullo spostamento di fuoco del mirino sanzionatorio, torno a ragionare del principio di proporzionalità.
Dunque: il principio di proporzionalità rappresenta il parametro di riferimento, il criterio logico-giuridico alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale delle misure sanzionatorie. E vedremo cosa deciderà la Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi sul tema proprio in questi giorni – della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Brindisi[17].
Qui è forse utile dare un paio di indicazioni, con inevitabile schematismo. L’elaborazione giurisprudenziale in materia di necessaria proporzionalità delle sanzioni (penali e quelle che, pur amministrative, hanno natura “sostanzialmente penale”, alla luce degli Engel’s criteria) è oramai copiosa.
È di qualche utilità un richiamo particolare alla recente sentenza n. 7 del 2025 della Corte costituzionale; in quel caso – proprio in materia di misure ablative – la Consulta ha indicato i criteri guida e le coordinate interpretative da seguire per stabilire se una determinata misura, in quanto sanzionatoria, possa ritenersi conforme al principio di proporzionalità oppure, al contrario, debba essere considerata sproporzionata. Non posso soffermarmi sul tema, ma raccomando la lettura della sentenza.
Concludo con un’ultima osservazione in materia di proporzionalità. Qualora si rinvenisse – ipotesi che, a mio avviso, appare alquanto improbabile – una normativa dell’Unione Europea che imponga agli Stati membri anche l’armonizzazione dell’apparato sanzionatorio in relazione alle operazioni di soccorso in mare e alle violazioni delle relative disposizioni, verrebbe allora in rilievo un ulteriore parametro di valutazione: il principio di proporzionalità, ai sensi dell’articolo 47, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Lo segnalo perché – laddove l’UE abbia esercitato le proprie competenze in una determinata materia, armonizzandone anche i profili sanzionatori – l’art. 47 § 3 CDFUE può assumere un rilievo cruciale nei ragionamenti cui sono chiamati i giuristi pratici. Tale parametro è stato infatti riconosciuto dalla Corte di Giustizia come idoneo a produrre effetti diretti, nel caso in cui esista una normativa di diritto derivato che disciplini anche l’apparato sanzionatorio. In tal senso si è espressa la sentenza NE, causa C‑205/20, pronunciata l’8 marzo 2022 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha riconosciuto all’articolo 47, paragrafo 3, della Carta un effetto diretto, attribuendo al giudice nazionale il potere di disapplicare le norme sanzionatorie in contrasto con detto principio.
Tuttavia, è bene precisare che tale effetto diretto può operare esclusivamente nei casi in cui sussista una normativa di diritto derivato che dimostri un intervento dell’Unione sul tema specifico. La Carta, infatti, non estende le competenze dell’Unione Europea. Ne consegue che soltanto laddove l’Unione abbia esercitato una competenza nella materia – ad esempio, adottando norme sanzionatorie in tema di soccorso in mare – si potrà discutere dell’effetto diretto dell’articolo 47, paragrafo 3. In assenza di tale presupposto, tale effetto non potrà essere riconosciuto. Anche qua non posso soffermarmi oltre, limitandomi a segnalare la sentenza della CGUE, raccomandandone la lettura.
Evidenzio, tuttavia, che la Corte costituzionale (nella già citata sentenza n. 7 del 2025) ha in qualche modo problematizzato l’approccio della Corte di giustizia in tema di effetto diretto del principio di proporzionalità, evidenziando che – in materia penale – vige un principio di stretta legalità che suggerisce la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale. Ma si tratta di un tema complesso che ci porterebbe troppo lontano. Mi limito dunque a segnalarlo come spunto di approfondimento.
10. Vorrei concludere con due ultime, amare, osservazioni.
L’attività delle ONG che effettuano soccorso in mare è un’attività animata da spirito di solidarietà umana. Forse non tutti la pensano così, ma a me sembra evidente.
Se questo è vero, registro una enorme distanza tra la Carta costituzionale e il “trattamento” che – nel discorso pubblico e persino da parte di figure istituzionali di primaria responsabilità – viene spesso riservato alle ONG.
Leggo, nell’art. 2 Cost. che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; e leggo, nell’art. 118, ultimo comma Cost. che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
Ecco. Anche con un’osservazione superficiale si può constatare che il trattamento riservato alle ONG non è propriamente indirizzato a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini (benché l’attività delle ONG sia chiaramente orientata a praticare la solidarietà tra esseri umani).
Ultima osservazione, che potrei definire, in un certo senso, il “pianto del coccodrillo”. Ci troviamo oggi a ragionare su rimedi – che, tuttavia, non sono sistemici – per consentire ad alcune associazioni di esercitare una libertà costituzionalmente garantita e consentire loro di svolgere un’attività solidaristica senza dovere subire ingerenze sproporzionate. Questo accade in assenza di un quadro normativo chiaro e definito. Eppure, proprio in mancanza di regole certe e univoche, dovrebbe essere la libertà – e non la chiusura – a prevalere.
Le autorità di governo, a parole, affermano di voler perseguire un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco; tuttavia, nei fatti, sembrano prevalere logiche di chiusura e di protezione delle frontiere, salvo poi recitare stancamente un rosario di dichiarazioni in memoria delle vittime delle “tragedie in mare”.
Ecco perché – richiamando in particolare la Raccomandazione n. 1365 del 2020 della Commissione europea – parlo di “pianto di coccodrillo”[18]. In quel documento, la Commissione invitava gli Stati membri a cooperare tra loro in relazione alle operazioni effettuate da navi private, o gestite da soggetti privati, impegnate in attività di ricerca e soccorso, con l’obiettivo di ridurre il numero delle vittime in mare, tutelare la sicurezza della navigazione e garantire una gestione efficace dei flussi migratori, nel rispetto degli obblighi giuridici pertinenti.
In quella raccomandazione la Commissione auspicava anche l’istituzione di tavoli tecnici e l’adozione di nuove normative.
Tuttavia, quella raccomandazione risale al 2020, e, a distanza di cinque anni, non si può certo dire che siano stati compiuti significativi passi avanti in quella direzione.
Anzi.
photo credits: Maud Veith/SOS Méditerranée
[1] FRA, Search and rescue operations and fundamental rights - June 2024 update, § 3; il rapporto è leggibile al seguente link https://fra.europa.eu/en/publication/2024/june-2024-update-ngo-ships-sar-activities
[2] European Court of human rights, Guide on Article 11 of the European Convention on Human Rights, scaricabile a questo link: https://ks.echr.coe.int/documents/d/echr-ks/guide_art_11_eng
[3] CGUE (Grande sezione), 1 agosto 2022, in cause C-14/21 e C-15/21, Sea Watch 4 e 5; la sentenza è leggibile a questo link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62021CJ0014
[4] Rilevano il carattere in qualche misura compromissorio della decisione Irini Papanicolopulu e Giulia Losi, La Sea Watch davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea: rapporti tra fonti, rapporti tra Stati e regolazione (indiretta) delle attività di soccorso in mare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1/2023, 235 e ss. Il contributo è leggibile a questo link https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/note-e-commenti/fascicolo-2023-1/1102-la-sea-watch-davanti-alla-corte-di-giustizia-dell-unione-europea-rapporti-tra-fonti-rapporti-tra-stati-e-regolazione-indiretta-delle-attivita-di-soccorso-in-mare/file
[5] Questa la massima: « La nozione di "privata dimora" rilevante, agli effetti dell'art. 13 l. n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti all'accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto, esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio (art. 614 cod. pen.), e dunque comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se - appunto - diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago. (Nella fattispecie, la Corte Cass. ha ritenuto che costituisse privata dimora la sede di un'associazione privata, e ha quindi considerato illegittima l'ispezione ivi eseguita degli accertatori)». (Cass. Sez. 1, 24/03/2005, n. 6361, Rv. 580829 - 01).
[6] Analogo principio di diritto – seppur non riferita ad un’ispezione presso una associazione – è stato ribadito da una più recente decisione: «La nozione di "privata dimora" rilevante, agli effetti dell'art. 13 l. n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti all'accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto, esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio (art. 614 c. p.) e, dunque, comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all'esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, vale a dire di atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva considerato illegittima la sanzione irrogata per attività rumorosa accertata all'interno di una casa di abitazione nella quale si svolgeva una festicciola con accompagnamento musicale)». (Cass. Sez. 2, 20/04/2021, n. 10369, Rv. 661090 - 01).
[7] Corte europea dei diritti dell’uomo (Prima Sezione), causa Brazzi c. Italia, Ricorso n. 57278/11, sentenza 27 settembre 2018, leggibile a questo link https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-187122%22]}
[8] Cass. Sez. U., 06/03/2025, n. 5992, Rv. 674046 – 03.
[9] CGUE (Grande sezione), 1 agosto 2022, in cause C-14/21 e C-15/21, Sea Watch 4 e 5, punto 94: «la convenzione sul diritto del mare è stata conclusa dall’Unione, cosicché essa vincola l’Unione e le sue disposizioni formano parte integrante dell’ordinamento giuridico di quest’ultima». La Corte di giustizia ha inoltre evidenziato che – sebbene l’Unione europea non sia parte della convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, nondimeno « da una giurisprudenza costante della Corte risulta che si può tener conto di tale convenzione, ai fini dell’interpretazione di disposizioni di diritto derivato dell’Unione che rientrano nel suo ambito di applicazione, nell’ipotesi in cui tutti gli Stati membri siano parti di detta convenzione» (CGUE, , 1 agosto 2022, cit. punto 90).
[10] E non mancano opinioni in dottrina nelle quali si manifestano dubbi sulla stessa possibilità di ritenere legittima l’esistenza di una zona SAR di competenza libica; cfr. F. Vassallo Paleologo, Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno, in Questione giustizia 2/2018, leggibile a questo link https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/gli-obblighi-disoccorso-inmare-neldiritto-sovranazionale-enell-ordinamento-interno_548.php
[11] «Il diritto al non-respingimento ("non refoulement") in un "luogo non sicuro" - enunciato dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra - costituisce principio internazionale consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di "ius cogens" in quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile - secondo l'interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo all'art. 3 della Convenzione EDU - non dai soli "rifugiati", ma da qualsiasi essere umano che possa essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all'integrità psicofisica. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato la condanna per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale degli imputati, migranti clandestini, che avevano reagito con minacce alla decisione del comandante della nave intervenuta a riportarli in Libia, quale luogo non sicuro, ritenendo integrata la scriminante della legittima difesa)» (Sez. 6, n. 15869 del 16/12/2021, dep. 2022, Tijani, Rv. 283189 - 01).
[12] Regolamento (UE) n. 656/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014 , recante norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea; leggibile a questo link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/ALL/?uri=celex:32014R0656
[13] Cons. Stato, V sezione, sentenza 18 marzo 2024, n. 2566; Cons. Stato, III sezione, sentenza 24 luglio 2024, n. 6706; Cons. Stato, III sezione, sentenza 25 febbraio 2025, n. 1615.
[14] Cons. Stato, III sezione, sentenza 24 luglio 2024, n. 6706, considerato in diritto n. 5: «nondimeno non si condivide la tesi pan-pubblicistica, che attrae indistintamente tutti gli atti e i documenti propedeutici all’assegnazione del POS nella sfera degli interessi pubblicistici sensibili (…) giungendo a delimitare un’area di azione amministrativa sostanzialmente inaccessibile e, conseguentemente, insindacabile ab imis»; di qui, il diritto di accesso quantomeno ai documenti e agli atti interni «di contenuto tecnico-nautico».
[15] Le linee guida sono leggibili al seguente link: https://wwwcdn.imo.org/localresources/en/KnowledgeCentre/IndexofIMOResolutions/MSCResolutions/MSC.167(78).pdf
[16] Cfr. Legge 9 dicembre 2024, n. 187, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n. 145 del 2024.
[17] Tribunale di Brindisi, ordinanza 10 ottobre 2024, Num.Reg.Ord. 205 del 2024. La questione è stata discussa all’udienza del 21 maggio 2025. Oggi non è ancora nota la decisione.
[18] Raccomandazione (ue) 2020/1365 della Commissione del 23 settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso; il documento è leggibile a questo link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32020H1365#:~:text=(1)%20Prestare%20assistenza%20a%20chiunque,Convenzione%20SOLAS%2C%201974)