Seminario - Il contrasto ai soccorsi in mare: una prospettiva trasversale degli interessi in gioco e delle tutele possibili
Presiedono Giulia Crescini (avvocata ASGI) e Maria Acierno (Presidente I Sez. Civile della Corte di Cassazione)
Sessione I danni subiti dalle ONG e la loro risarcibilità in sede giudiziaria
Giulia Crescini
Grazie mille ai nostri relatori. Invito ora a prendere posto al tavolo l’Avvocato Luca Saltalamacchia e la Dottoressa Antonella Di Florio. Prima di cedere loro la parola e presentare brevemente i rispettivi interventi, vorrei richiamare l’attenzione, in continuità con quanto emerso dai contributi dei due relatori precedenti, sull’idea che anima complessivamente questo momento di riflessione.
L’obiettivo è quello di affrontare, da un punto di vista sistematico, una serie di sanzioni, interventi legislativi e prassi che mirano, anch’essi in modo sistematico, a ostacolare le attività di soccorso. Ciò che osserviamo, come operatori del diritto, come associazioni e come organizzazioni non governative, è infatti un insieme di misure che, dal momento iniziale del soccorso fino alla sua conclusione — e per ciascun soccorso successivo — tendono a limitare fortemente l’operato delle ONG, e quindi, in ultima analisi, l’attività di soccorso stessa.
Tale intervento sistematico investe ogni singolo segmento dell’azione di soccorso. Vorrei fornirvi rapidamente alcuni esempi, per chiarire perché stiamo cercando di elaborare un approccio che consideri il fenomeno nella sua interezza, e non soltanto nella sua frammentarietà, ossia caso per caso.
Anzitutto, come è stato già sottolineato da uno dei relatori, quando una nave effettua un’operazione di soccorso viene frequentemente indirizzata verso un porto distante. Questo comporta circa cinque giorni di navigazione tra andata e ritorno, durante i quali è necessario mantenere l’ordine a bordo anche in presenza di centinaia di persone, spesso in condizioni di fortissimo stress fisico ed emotivo. L’eventuale mancata evacuazione urgente attraverso il cosiddetto MedEvac (Medical Evacuation) non implica che queste persone siano in buone condizioni: potrebbero infatti trovarsi in stato di salute, anche psicologica, estremamente compromesso.
Le persone soccorse devono essere identificate, poiché al momento dello sbarco le forze di polizia richiedono numerose informazioni. Le ONG si trovano quindi a dover fornire dati che talvolta non sono neppure certe di aver compreso correttamente. Se, ad esempio, una persona viene inizialmente identificata con un determinato nome e successivamente dichiara un’identità diversa, quali conseguenze si verificano al momento dello sbarco? Chi si segnala come vulnerabile, e chi no? Come è possibile ricostruire correttamente l’intero evento?
Va inoltre considerato che queste ONG, una volta giunte in porti molto distanti, rischiano di essere sottoposte a misure di fermo. A volte il motivo è la mancata comunicazione con le autorità libiche, che però non era concretamente possibile effettuare. Di conseguenza, si fa ricorso a un legale per impugnare il provvedimento. Nel frattempo, l’imbarcazione riparte, riceve una notifica di sanzione, la sanzione viene impugnata; arriva un nuovo fermo, e anche questo viene impugnato.
Attualmente pendono decine di procedimenti davanti ai tribunali italiani, molti dei quali privi di una definizione. Ciò comporta per le ONG, e per chi le assiste, la necessità continua di intervenire, senza possibilità di lasciare intentati i rimedi legali, ma a fronte di questo dispendio continuo di risorse economiche, energie emotive e capacità progettuale, viene meno la possibilità di elaborare strumenti adeguati a fronteggiare la situazione in modo organico e strutturato.
Si pongono allora questioni rilevanti: la libertà di associazione, i danni subiti dalle ONG, la possibilità di configurare una discriminazione collettiva. Tutto ciò accade perché non possiamo rassegnarci di fronte a un sistema che, attraverso un continuo sovrapporsi di norme, finisce per sfiancarci. Le ONG vengono gravate da adempimenti burocratici di fatto impossibili, come l’obbligo di contattare le autorità libiche. E questo sistema estenuante coinvolge non solo le organizzazioni e la loro difesa, ma, a mio avviso — e credo non sia necessario sottolinearlo — anche la magistratura stessa, costretta a pronunciarsi su decine e decine di casi senza poter cogliere la complessità del quadro generale.
Ecco quindi il senso degli interventi previsti nella mattinata odierna.
Luca Saltalamacchia (avvocato ASGI)
Ringrazio gli organizzatori per l’invito e per avermi dato la possibilità di intervenire su alcune delle azioni legali che abbiamo intrapreso. L’intervento del Consigliere Natale mi offre un importante spunto introduttivo, poiché oggi ci soffermeremo su due casi specifici: il caso Iuventa e quello che, con una certa ironia, definiremo Porti lontani. I presupposti di fondo sono stati già ampiamente esaminati: è in atto un processo di criminalizzazione, e alcune ONG hanno deciso di reagire a tale prassi mediante l’avvio di azioni risarcitorie.
La Iuventa è una motonave di 33 metri, costruita nel 1962, appartenente a un’organizzazione non governativa tedesca, la Jugend Rettet. Nel 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani ha disposto il sequestro dell’imbarcazione, nonostante la ONG non fosse parte del procedimento penale, né alcun suo organo fosse mai stato formalmente indagato.
L’imbarcazione fu successivamente affidata in custodia al Comandante della Capitaneria di Porto di Trapani. Avverso il provvedimento di sequestro – che, come illustrato dall’Avvocato Gennari, suscitò ampio clamore – la ONG, soggetto terzo rispetto al procedimento, ha presentato diverse istanze e ricorsi finalizzati alla restituzione della nave, tutti puntualmente rigettati.
A fronte di tali rigetti, l’organizzazione ha quindi ritenuto opportuno interfacciarsi sia con la Capitaneria di Porto, cui era stata affidata la custodia dell’imbarcazione, sia con l’autorità giudiziaria, al fine di ottenere almeno interventi manutentivi volti a evitare un depauperamento eccessivo del bene sequestrato.
"Nel corso del procedimento giudiziario sono emersi numerosi elementi di particolare rilievo. In primo luogo, si è accertato che l’intera impostazione accusatoria, fondata su dossier e testimonianze rese da due agenti di polizia, si è rivelata clamorosamente infondata. I due agenti in questione sono stati successivamente espulsi dalle forze di polizia.
Nonostante la evidente fragilità dell’impianto accusatorio, il procedimento è comunque proseguito. Nel frattempo, nell’arco dei sette anni trascorsi, la Capitaneria di Porto – attraverso i diversi comandanti che si sono succeduti nella funzione di custode giudiziario – ha completamente omesso di eseguire le attività necessarie alla manutenzione ordinaria del bene sequestrato.
A fronte di tale inerzia, la ONG proprietaria della motonave ha presentato varie istanze volte a ottenere informazioni e autorizzazioni per poter monitorare lo stato dell’imbarcazione. In occasione di una delle ispezioni autorizzate dall’autorità giudiziaria (avvenuta in data 26/10/22), l’organizzazione ha potuto accertare due fatti particolarmente gravi: innanzitutto, tantissimi casi di furto di beni presenti a bordo, e in secondo luogo, l’occupazione dell’imbarcazione da parte di soggetti terzi che vi avevano stabilito la propria dimora. Il tutto è avvenuto sotto la responsabilità e la vigilanza della Capitaneria di Porto.
A seguito della sentenza di non luogo a procedere, emessa nell’aprile 2024, l’associazione ha finalmente potuto rientrare in possesso dell’imbarcazione, la quale, tuttavia, è stata restituita in condizioni tali da non essere nemmeno più in grado di galleggiare. La nave risulta infatti gravemente compromessa, a causa della totale assenza di interventi manutentivi da parte del custode giudiziario.
Alla luce di ciò, è stata attivata una procedura risarcitoria mediante lo strumento dell’Accertamento Tecnico Preventivo (ATP) con funzione conciliativa. Il relativo procedimento è attualmente pendente dinanzi al Tribunale di Palermo. Siamo nella fase conclusiva dell’istruttoria tecnica, in attesa del deposito della perizia, che dovrebbe avvenire a breve.
Nel corso della presente procedura conciliativa si sono registrati momenti di forte contrapposizione con l’Avvocatura dello Stato e con la Capitaneria di Porto di Trapani, i cui rappresentanti hanno assunto nei confronti del collegio difensivo un atteggiamento marcatamente ostile e denigratorio. Il trattamento riservatoci è apparso del tutto sproporzionato, come se avessimo assunto la difesa di soggetti coinvolti in attività illecite di estrema gravità, quali il traffico di armi, poi condannati. Questo è, purtroppo, l’approccio con cui le controparti istituzionali si sono relazionate nei nostri confronti
Per quale motivo abbiamo ritenuto di poter agire in questo modo? La risposta è evidente: l’organizzazione non governativa Jugend Rettet – che, peraltro, disponeva esclusivamente di questa imbarcazione per lo svolgimento delle proprie finalità statutarie – è stata di fatto privata della possibilità di utilizzarla, a causa di un procedimento penale che si è infine concluso con un nulla di fatto.
Nel contesto di tale procedimento era stato nominato un custode giudiziario, il quale avrebbe dovuto attivarsi per la conservazione del bene, nell’interesse non solo dell’autorità giudiziaria, ma anche della parte proprietaria, che ha poi riottenuto il bene al termine del procedimento. Tale dovere di custodia, tuttavia, è stato completamente disatteso.
Alla luce di ciò, riteniamo che sussistano pienamente i presupposti previsti dall’art. 2043 del codice civile, trattandosi di un danno ingiusto causato da fatto illecito. Per questo motivo abbiamo attivato la procedura di accertamento tecnico preventivo, con finalità conciliativa, nella speranza di ottenere una proposta risarcitoria congrua. In difetto, saremo pronti a promuovere un’azione giudiziaria a condizione di pena.
A nostro avviso, ci troviamo di fronte a un evento dannoso chiaramente accertato, fondato su un fatto storico oggettivo, e a una condotta illecita. Esistevano obblighi giuridici specifici in capo al custode giudiziario, obblighi che sono stati disattesi in maniera significativa. Tali mancanze sono state peraltro rilevate anche dall’autorità giudiziaria, in particolare dallo stesso Giudice per le indagini preliminari (GIP).
Pertanto, riteniamo sussistere in modo evidente una responsabilità imputabile alla pubblica amministrazione – nella fattispecie alla Capitaneria di Porto – con conseguente obbligo risarcitorio.
Va sottolineato che il procedimento attualmente in corso ha natura risarcitoria, ma potrebbe costituire il presupposto per l’instaurazione di un secondo giudizio, di portata più ampia. Come già evidenziato, la Iuventa rappresentava l’unica imbarcazione a disposizione dell’associazione Jugend Rettet, che, a seguito del sequestro, si è vista nell’impossibilità di proseguire le proprie attività istituzionali. L’impatto della misura penale – che si è poi conclusa con un provvedimento di non luogo a procedere – è stato, sotto questo profilo, profondamente lesivo e sostanzialmente irreparabile.
Anche qualora si volesse ritenere la fattispecie più complessa sotto il profilo giuridico, a nostro giudizio vi sono comunque i presupposti per promuovere un’ulteriore azione risarcitoria. In questo secondo caso, il danno lamentato non sarebbe limitato alla perdita economica connessa al deterioramento materiale dell’imbarcazione, ma consisterebbe in una lesione ben più profonda: la compromissione del diritto dell’associazione a non subire indebite interferenze esterne e a poter perseguire liberamente i propri scopi statutari, come è stato ampiamente discusso anche nel corso della sessione odierna.
Il secondo caso di cui intendo parlarvi mi è stato introdotto dalla relazione del Consigliere Natale. Si tratta del caso che, per convenzione, abbiamo denominato Porti Lontani.
In concreto, per conto di tre associazioni tedesche – SOS Humanity, Sea-Eye e Mission Lifeline – abbiamo promosso un giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, la cui udienza di rimessione in decisione è fissata per il 12 dicembre 2025.
Ritengo opportuno premettere che l’impianto di questo giudizio è stato costruito sulla base dell’articolo 2043 del codice civile; tuttavia, le domande attualmente proposte non contengono alcuna richiesta di natura economica. Non si esclude, in un momento successivo, la possibilità di promuovere un distinto giudizio volto a ottenere il risarcimento del danno patrimoniale.
Per ora, le domande sottoposte al Tribunale sono le seguenti:
- In primo luogo, si chiede di accertare e dichiarare l’illiceità della prassi consistente nell’assegnare sistematicamente, alle organizzazioni ricorrenti, porti di sbarco irragionevolmente lontani per lo sbarco delle persone soccorse in mare. Si tratta, pertanto, di una domanda di accertamento, perfettamente in linea con quanto già illustrato in precedenza.
- In secondo luogo, si domanda di accertare e dichiarare, per l’effetto, la responsabilità delle pubbliche amministrazioni convenute. Abbiamo, infatti, citato in giudizio diversi ministeri coinvolti nella suddetta prassi di assegnazione dei porti lontani.
- In terzo luogo, si chiede che venga ordinato alle pubbliche amministrazioni e ai ministeri convenuti di cessare immediatamente tale condotta lesiva, ovvero l’assegnazione sistematica di porti di sbarco irragionevolmente lontani, condannandoli altresì a non reiterare pro futuro condotte analoghe.
Ad oggi, non esiste una domanda di risarcimento economico avente a oggetto la pratica dell’assegnazione dei porti lontani. Eppure, il presente giudizio si configura come risarcitorio, in quanto, come anticipato, l’intero impianto giuridico delle domande è ricavato sull’articolo 2043 del codice civile.
Lo abbiamo fatto applicando l’articolo 2043 del codice civile in via preventiva, prassi che la giurisprudenza riconosce ormai da tempo. In particolare, si fa riferimento a una nota sentenza della Corte Costituzionale del 1987, la quale ha attribuito, alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione – successiva alla formulazione dell’articolo 2043 – una nuova valenza a tale disposizione.
L’articolo 2043, infatti, può essere oggi invocato non soltanto a seguito della verificazione di un danno, quindi ex post, con una funzione essenzialmente sanzionatoria, ma anche ex ante, laddove si intenda prevenire la commissione di un illecito in presenza di beni giuridici ritenuti particolarmente rilevanti, quali i diritti fondamentali.
Questa rilettura consente, pertanto, di configurare l’intero impianto risarcitorio come potenzialmente attivabile anche in via preventiva.
Abbiamo dunque ritenuto, per il momento, di non avanzare anche una richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, ma è chiaro che la reazione che le ONG hanno avuto al dover subire questa odiosissima pratica di assegnazione dei porti lontani tra le misure che le associazioni hanno utilizzato c'è anche appunto questo giudizio. Rimane ora da vedere quale sarà l’esito della vicenda.
Giulia Crescini ha precedentemente fatto riferimento all’impatto concreto che tali scelte comportano. Vorrei, a questo proposito, offrirvi un esempio significativo. Tra il 2 e il 3 febbraio 2023, la nave Sea-Eye ha effettuato un’operazione di soccorso in acque internazionali, a sud della Sicilia, recuperando circa 107 persone – naufraghi, prima ancora che migranti. A seguito di tale intervento, è stato assegnato alla nave, come porto di sbarco, quello di Pesaro, situato a circa 1000 chilometri di distanza. Secondo le stime effettuate in quel momento, il tempo necessario per raggiungere tale destinazione era di circa sei giorni di navigazione. Nel frattempo, l’equipaggio della Sea-Eye aveva tempestivamente comunicato alle autorità competenti la presenza a bordo di persone in condizioni di salute gravemente compromesse. Una di esse, infatti, è successivamente deceduta mentre si trovava ancora sull’imbarcazione. È dunque evidente che, quando parliamo della scelta sistematica dello Stato italiano di assegnare porti di sbarco quanto più lontani possibile, ci riferiamo a una misura che, in concreto, ostacola in maniera rilevante il perseguimento degli scopi statutari delle ONG impegnate in attività di ricerca e soccorso.
Mi avvio a concludere cercando di porre l’attenzione su quello che potremmo definire l’“elefante nella stanza”.
Nell’ambito di questi contenziosi – e, più in generale, ogniqualvolta si tenta di adire l’autorità giudiziaria per ottenere l’accertamento della responsabilità dello Stato, soprattutto se questa deriva da condotte e quindi da una serie di scelte – si riscontra frequentemente una linea difensiva da parte delle amministrazioni statali, fondata sull’invocazione del principio di insindacabilità delle scelte discrezionali della pubblica amministrazione.
Ad esempio, nel contenzioso relativo al caso Porti Lontani, la difesa dell’Avvocatura dello Stato ha posto l’accento sul fatto che la designazione del porto di sbarco costituisce un processo decisionale complesso, nel quale intervengono valutazioni non sempre accessibili al pubblico e, certamente, non nella disponibilità dell’ONG interessata. Si tratterebbe, secondo tale impostazione, di decisioni caratterizzate da un’elevata discrezionalità tecnica, che richiederebbero una visione d’insieme circa gli assetti della pubblica sicurezza. In sostanza, dietro una formulazione ricca di terminologia tecnica e istituzionale, si cela la resistenza dello Stato ad accettare che scelte amministrative che incidono direttamente su diritti fondamentali possano essere sottoposte al vaglio dell’autorità giudiziaria.
Questo modo di intendere e applicare il principio della separazione dei poteri – che, com’è noto, è un tema estremamente delicato e complesso, sul quale non intendo entrare nel merito tecnico, non avendone le competenze specifiche – rappresenta tuttavia un ostacolo che incontro costantemente, sia nei ricorsi che seguo insieme ad ASGI per la tutela dei diritti delle persone migranti, sia in altri contenziosi strategici, come quelli in materia climatica o relativi all’esportazione di armamenti.
In tutti questi ambiti, la difesa dello Stato si fonda sovente sull’assunto secondo cui il principio della separazione dei poteri costituirebbe un baluardo a tutela dell’assoluta insindacabilità delle scelte dell’esecutivo. Tale difesa si accompagna frequentemente a una narrazione secondo cui il potere politico, essendo democraticamente eletto, sarebbe legittimato ad agire in piena autonomia, nel rispetto del mandato conferito dalla maggioranza. Tuttavia, la nostra visione del principio di separazione dei poteri è profondamente diversa.
Concludo, senza entrare nel merito, ma desiderando condividere una riflessione proposta da una Corte importante – più volte richiamata anche oggi – ovvero la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Mi riferisco a un passaggio argomentativo sviluppato in una sentenza che non riguarda direttamente la materia migratoria, ma quella climatica: il caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Svizzera, deciso nell’aprile 2024. In quel procedimento, la Svizzera era chiamata a rispondere della propria politica climatica, ritenuta del tutto disallineata rispetto agli obblighi derivanti dall’Accordo di Parigi, e a verificarne la compatibilità con le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Lo Stato convenuto ha sollevato, tra le eccezioni preliminari, l’argomento secondo cui la politica climatica rientrerebbe nell’ambito della separazione dei poteri, trattandosi di una materia che richiede un’ampia discrezionalità da parte dell’autorità politica. La Corte EDU ha tuttavia adottato un orientamento differente, affermando con chiarezza che la democrazia non può essere ridotta alla mera volontà della maggioranza degli elettori e dei loro rappresentanti, prescindendo dai requisiti propri dello Stato di diritto.
Proseguendo il ragionamento che ha condotto al rigetto dell’eccezione sollevata dalla Svizzera, la Corte ha precisato che il principio di separazione dei poteri non deve essere inteso come un limite all’intervento del potere giudiziario, ma, al contrario, come un presidio che garantisce il controllo giurisdizionale, soprattutto quando sono in gioco diritti fondamentali. In tali circostanze, secondo la Corte, è essenziale che vi sia un’autorità terza e indipendente che verifichi se il decisore politico abbia agito nel rispetto dei limiti imposti dallo Stato di diritto.
Antonella Di Florio (già giudice della Corte di Cassazione)
Premessa
Le ONG (Organizzazioni Non Governative) sono associazioni private che svolgono ruoli di assistenza e solidarietà.
Sono, pertanto, soggetti giuridici che possono promuovere o essere convenuti in azioni di responsabilità civile extracontrattuale.
Nell’ambito dell’attività di soccorso in mare, le ONG hanno svolto una funzione preminente, anche se, dopo un periodo in cui sono state destinatarie di una politica inclusiva, hanno subìto un progressivo processo di generale criminalizzazione.
Nel 2014, dopo la fine dell’operazione governativa Mare Nostrum che durò circa un anno e che non venne prorogata perché ritenuta troppo costosa e responsabile dell’aumento del numero delle partenze e degli sbarchi dei migranti, i naufragi iniziarono ad aumentare e le imbarcazioni delle ONG, costituite in vari paesi d’Europa, assunsero un ruolo sempre più rilevante: tanto che vennero più o meno stabilmente inserite nel sistema complessivo dei soccorsi in mare gestito dalle nostre autorità navali (civili e militari).
Nella seconda metà del 2016 quasi il 40% delle operazioni di soccorso venne condotto dalle Ong stesse, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana.
Nei primi mesi del 2017, però, il clima nei confronti dei soccorritori iniziò rapidamente a cambiare in quanto venne avanzato il sospetto, soprattutto da parte di Frontex (l’Agenzia Europea che si occupa della gestione delle frontiere esterne dell’Unione), che l’attività delle ONG costituisse uno strumento per aumentare le partenze e gli sbarchi in Italia.
Al fine di effettuare un più pressante controllo sulla loro attività, venne addirittura approvato il Codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare (codice successivamente trasfuso nel DL n.1/23 convertito nella L. n. 15/23) alla cui sottoscrizione venne subordinata la loro possibilità di collaborare con le autorità italiane nella gestione dei soccorsi[1].
In ragione di tale progressivo atteggiamento di esclusione, le ONG sono state protagoniste – sia come imputati, sia come denuncianti e parti offese – di numerosi processi legati ad episodi di soccorso in mare.
I casi sinora più noti e rilevanti sono:
1) il processo contro il comandante e l’equipaggio della nave Iuventa, imputati per favoreggiamento all’ingresso clandestino degli immigrati, a seguito del quale l’imbarcazione è stata oggetto di sequestro per ben sette anni: nell’aprile del 2024, il GIP presso il Tribunale di Trapani, su conforme richiesta del P.M., ha emesso sentenza di non luogo a procedere per insussistenza dei fatti e degli illeciti amministrativi contestati. La sentenza è ormai passata in giudicato ma la nave, rimasta per lunghissimo tempo in stato di abbandono e incuria, ha riportato gravissimi danni per i quali pende un A.T.P. dinanzi al Tribunale di Trapani anche per la quantificazione delle somme oggetto della richiesta risarcitoria nei confronti dello Stato Italiano;
2) il processo avviato dalla Procura della Repubblica di Palermo contro il Ministro degli Interni per sequestro di persona ed omissioni di atti di ufficio in quanto era stato impedito, per numerosi giorni, lo sbarco in Italia di 147 migranti salvati nel Mar Mediterraneo dalla nave della ONG spagnola Open Arms che, costituendosi parte civile, ha avanzato una richiesta risarcitoria di € 1000.000: è noto che il processo di primo grado si è concluso il 20.12.2024 con sentenza di assoluzione del Ministro, ma le motivazioni sono state depositate in data 18.6.2025, ragione per cui la decisione non è definitiva essendo ancora pendenti i termini per eventuale impugnazione;
3) il processo avviato dinanzi al Tribunale di Bologna a seguito di denuncia dell’organizzazione tedesca ONG MV Louise Michel contro organi di informazione conclusosi, da ciò che risulta da notizie di stampa, con la condanna di un giornalista del Quotidiano Nazionale per diffusione di notizie false, riguardanti la comandante Pia Klempt[2].
4) Il processo avviato dinanzi al Tribunale di Ragusa nei confronti della Mediterranean Saving Humans e, in particolare, del comandante e dell’equipaggio della MV Mare Ionio, rinviati a giudizio dal GUP, pochi giorni fa, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
A fronte di tali dati storici, l’oggetto di queste brevi riflessioni parte dalla qualificazione delle ONG come soggetti giuridici e dalla conseguente trasponibilità nei loro confronti, ove ne ricorrano i presupposti, dei principi in materia di risarcimento del danno: principi che hanno vissuto una lunga e proficua evoluzione e che sono stati ribaditi, nell’ambito del soccorso in mare, dalla recentissima ordinanza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (Cass. SSUU 6 marzo 2025 n. 5992) che verrà di seguito esaminata.
Le ONG come soggetti di diritto
Quanto alla soggettività delle ONG, va precisato che molte di esse hanno sede in paesi diversi dall’Italia e che, quelle italiane, possono essere associazioni riconosciute o non riconosciute, spesso riconducibili alle Associazioni di Promozione Sociale (APS) per le quali la L. n. 383/2000 prevede, all'art. 6 comma 2, l’iscrizione nei registri da essa previsti e la responsabilità patrimoniale sussidiaria degli associati rispetto a quella del patrimonio dell'associazione.
Nelle controversie civili, instaurate per lo più a seguito dei processi penali, sono state legittimamente avanzate nei confronti dello Stato, pretese risarcitorie che, sulla base dei principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, iniziano a trovare spazio di accoglimento.
L’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sopra richiamata ha cassato con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto la domanda dei migranti che, a bordo della nave Ugo Diciotti, salvata dal naufragio dalla Guardia Costiera, erano stati destinatari di un rifiuto allo sbarco nel porto di Catania ed erano rimasti “bloccati” a bordo della imbarcazione per circa 10 giorni.
Poiché i principi enunciati nell’ordinanza sono consolidati e generali in materia di azione risarcitoria, essi possono certamente essere estesi anche alle ragioni eventualmente avanzate da soggetti collettivi come le ONG, ovviamente in presenza dei relativi presupposti.
A tal fine, un attento esame della pronuncia risulta particolarmente utile.
Cass SSUU 5992/2025. Il percorso motivazionale della questione relativa al difetto di giurisdizione
La domanda risarcitoria, avanzata dal gruppo di migranti, si fondava sulla illegittima restrizione della loro libertà personale avvenuta, a bordo della nave, dal 16/08/2018 al 25/08/2018: nei primi quattro giorni a causa del mancato consenso all’attracco nei porti italiani; nei successivi sei giorni, una volta autorizzato l’attracco della nave nel porto di Catania, a causa del mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma.
La domanda era stata rigettata dalla Corte d’Appello di Roma, che aveva comunque riformato l’ordinanza di primo grado con la quale il Tribunale aveva dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, ritenendo che il rifiuto allo sbarco doveva considerarsi un atto politico, in quanto tale insindacabile.
Su tale questione preliminare ( oggetto del ricorso incidentale di legittimità) che ha determinato la remissione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 cpc, la pronuncia, con esemplare chiarezza, ha confermato i principi già predicati dalla Corte territoriale, ribadendo il loro carattere universale e la rilevanza della fissazione dei confini fra l’attività politica e la tutela dei diritti fondamentali nella materia dei soccorsi in mare.
E’ stato ribadito, al riguardo, che:
a. deve escludersi che la condotta del Ministero possa essere qualificata come atto politico e che ricorra il difetto di giurisdizione ordinaria;
b. il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass. Sez. U. 02/05/2019, n. 11588);
c. è sottratto, quindi, al controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502).
Alla luce di queste premesse la Corte ha affermato che va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare, protratto per dieci giorni, possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale, in quanto non rappresenta un atto libero nel fine: si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco; e proprio per questo si innesta su una regolamentazione che, a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini.
In conclusione, le motivazioni politiche eventualmente sussistenti alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo.
Tali affermazioni accendono un faro sulle modifiche in materia di sbarchi contenute nel Dl n. 1/23 convertito nella L. n. 15/23 che ha introdotto in una fonte primaria il «Codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare», che era stato coniato nel 2017 in forma di soft low; e ribadiscono la rilevanza delle convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare, le cui modalità devono mettere al primo posto il salvataggio delle vite umane e l’approdo nel porto vicino più sicuro.
La Corte ha conclusivamente ritenuto che la condotta della Pubblica Amministrazione che priva l’individuo della libertà personale per ben dieci giorni, costringendolo negli angusti limiti spaziali di una nave militare, realizza una detenzione arbitraria a fronte della quale non è minimamente configurabile l’esercizio del potere amministrativo: non vi è dunque difetto assoluto di giurisdizione, e nemmeno relativo, in favore cioè del giudice amministrativo, in quanto l’oggetto della domanda attiene alla violazione della libertà personale e trova pertanto una diretta tutela costituzionale nell’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge[3].
Pertanto, in materia di diritti fondamentali della persona, non esiste possibilità di bilanciamento rispetto ad un interesse pubblico: rilievo particolare assume, al riguardo, l’art. 5 par. 1 lett. f) CEDU il quale ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione.
La Corte di Cassazione ha aggiunto, però, che, in tale prospettiva, - escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell’ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione - non può nemmeno ipotizzarsi che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio; e conclude ritenendo che, dunque, era insostenibile l’affermazione della Corte d’Appello circa l’insussistenza di elementi sufficienti per affermare la colpa delle amministrazioni resistenti.
Il percorso motivazionale sulla questione di merito. La chiarezza della normativa internazionale sui soccorsi in mare
La Corte d’Appello di Roma, dopo aver affermato la propria giurisdizione, aveva respinto la domanda, ritenendo sia l’insussistenza della colpa per l’opinabilità del quadro normativo relativo alla doverosa indicazione del POS (Place of Safety), sia per l’assenza di allegazione e prova del danno subito dai migranti.
Secondo la Corte di Cassazione, invece, la ricostruzione della normativa in materia di soccorso in mare non lascia spazio ad alcuna incertezza sulla interpretazione delle norme vigenti in materia che, dunque, non consentono di definire “opinabile” la legislazione di riferimento.
I principi affermati nel quadro all’interno del quale occorre collocare la vicenda ai fini della predetta valutazione sono, infatti, di piana interpretazione e rispondono a disposizioni consolidate secondo le quali:
- l’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere di tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o di una o più persone in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità;
- come tale, esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare; le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell’autorità politica, poiché assumono, in base al principio "pacta sunt servanda", un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna.
Nel rimandare alla illustrazione delle varie convenzioni internazionali contenuta nella motivazione dell’ordinanza, non è inutile ricordare che in essa è stato affermato che, ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata da unità navali della Guardia Costiera italiana, la normativa interna di attuazione della disciplina internazionale – segnatamente, la direttiva della Guardia Costiera SOP 009/15 – prevede che la richiesta di assegnazione del Place Of Safety (POS) debba essere presentata da MRCC Roma al Centro nazionale di coordinamento (NCC) e successivamente inoltrata al Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione del Ministero dell’Interno cui spetta, in concreto, l'effettiva designazione di esso; e che l'indicazione del POS costituisce un atto amministrativo endo-procedimentale dovuto, privo di discrezionalità nell’an.
Infatti, in capo agli Stati residua solo un margine di "discrezionalità tecnica" sul “quomodo”, ai fini dell’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate.
Ferma restando la doverosità dell'indicazione del luogo sicuro in cui concludere l'evento SAR dichiarato, i ritardi nella designazione di esso potrebbero, pertanto, essere giustificati solo alla luce della necessità di individuarne uno adeguato alle esigenze che, caso per caso, si presentano: infatti, sono da ritenere estranee, a tale ambito, le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori.
In sintesi:
1) il principio fondante la superiore normativa internazionale è che nelle operazioni di soccorso deve prevalere la massima rapidità nell’esecuzione del salvataggio sul dato formale della sussistenza di giurisdizione dello Stato competente;
2) l’errore non può ritenersi scusabile, vista la chiarezza della normativa esaminata.
Accertata, dunque, la sussistenza della colpa in capo allo Stato Italiano, la Corte di cassazione ha inquadrato le ragioni del ricorrente ( unico del gruppo di migranti ad aver impugnato in sede di legittimità la sentenza di rigetto della Corte d’Appello) nella pretesa risarcitoria legata al danno morale/esistenziale conseguente alla privazione della libertà personale per un tempo di quasi dieci giorni, ed ha affermato che, nel caso del danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili della persona, quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano, nella doppia dimensione del danno relazionale e del danno morale comprensivo di tutte le forme di sofferenza.
Il percorso motivazionale sull’allegazione e le prove in materia di risarcimento del danno
La Corte di Cassazione ha premesso che, nel caso di specie, ricorrono tutti i presupposti riconosciuti dalla consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della stessa Corte di legittimità in materia di danno morale/esistenziale.
Al riguardo, non può ignorarsi che i primi arresti sulla fattispecie – da ricondurre all’art. 2059 c.c - risultano allo stato insuperati.
In questa sede è utile richiamare, in relazione al caso concreto, Corte Cost. n. 233/2003, secondo cui l'art. 2059 del codice civile deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito ad una astratta fattispecie di reato - stante il principio di parità delle giurisdizioni, definitivamente consacrato nell'art. 75 del codice di procedura penale - è risarcibile anche nell'ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell'autore del fatto risulti da una presunzione di legge.
La Corte Costituzionale, in motivazione, ha precisato che l’indirizzo interpretativo precedente - che circoscriveva l’area dell’art. 2059 ai soli fatti penalmente rilevanti – era entrato in crisi per effetto della richiamata evoluzione sull'area di risarcibilità del danno non patrimoniale[4], ed ha richiamato anche i coevi arresti della Corte di cassazione (Corte di cassazione sez. III, 8828/2003 ed 8827/2003) secondo cui «il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 cod. pen., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle sue previsioni, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale».
Principio, quest’ultimo, ribadito dalla più recente sentenza della Corte di Cassazione (Corte Cass. III sez. civile n. 6444/2023 ) secondo cui «in tema di danno non patrimoniale discendente da lesione della salute, se è vero che all'accertamento di un danno biologico non può conseguire in via automatica il riconoscimento del danno morale (trattandosi di distinte voci di pregiudizio della cui effettiva compresenza nel caso concreto il danneggiato è tenuto a fornire rigorosa prova), la lesione dell'integrità psico-fisica può rilevare, sul piano presuntivo, ai fini della dimostrazione di un coesistente danno morale».
Al riguardo, l’ordinanza in esame afferma che in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, escludendo la sussistenza di danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari in quanto non oggetto di contestazione.
In buona sostanza è assolutamente presumibile che il mancato sbarco imposto ai migranti per la durata di 10 giorni dopo un viaggio in condizioni di stress abbia come conseguenza un pregiudizio esistenziale che, ai fini risarcitori, dovrà essere equitativamente determinato, trattandosi di un danno non patrimoniale.
Deve aggiungersi, sul punto, una breve considerazione in materia di determinazione equitativa del danno, questione che riguarderà il giudizio di rinvio: appare percorribile la strada segnata, normativamente, dall’art. 315 cpp in materia di ingiusta detenzione che potrebbe rappresentare un criterio applicabile in via analogica rispetto alla lesione subita. La norma prevede, infatti, una quantificazione massima[5] che potrebbe essere riproporzionata in relazione al numero di giorni di illecita restrizione a bordo della nave, dovendosi tuttavia, tener conto, nel riproporzionamento ed in via equitativa, anche delle condizioni specifiche in cui si trovava il migrante a seguito del salvataggio in mare (distress nei primi giorni, incertezza e disperazione in quelli successivi).
Conclusioni
I principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in punto di danno morale/esistenziale e di prova presuntiva di esso possono essere estesi anche a soggetti giuridici non individuali, come le ONG?
Il caso Iuventa – testé esaminato – è riferito soltanto al danno patrimoniale derivante dalla rovina dell’imbarcazione.
Ma non può escludersi che ricorrano altre situazioni in cui, oltre al danno patrimoniale, possano essere dedotti anche danni all’immagine di un’associazione non riconosciuta come la ONG che configurano ipotesi di danno non patrimoniale.
Ad esempio, sono riscontrabili analoghe conseguenze in caso di distress determinato da sbarchi in porti lontani, causati da una indicazione del POS troppo distante dal luogo di salvataggio, posto che il “porto sicuro”, in mancanza di prova contraria, è certamente quello “più vicino” in applicazione del principio, sopra richiamato, secondo il quale le operazioni di soccorso devono essere concluse, mediante lo sbarco, con la massima rapidità: aggiungere alla disperazione derivante dal viaggio in condizioni metereologiche proibitive, centinaia di miglia di navigazione solo per ragioni redistributive e/o dissuasive, rappresenta certamente un pregiudizio grave, dimostrabile in via presuntiva.
Concludendo, la normativa in materia di risarcimento danni – che, da sempre, prospetta interpretazioni evolutive funzionali al riconoscimento ed alla tutela dei diritti fondamentali - indica certamente una strada da seguire per riscattare i diritti delle ONG e per consentire che continuino ad essere rispettate per la insostituibile funzione che hanno svolto nell’ambito dei soccorsi in mare, collaborando con le insufficienti risorse governative nelle operazioni di salvataggio: è compito dei giudici fare luce sulle ombre che si sono posate sulla loro attività, ma sarebbe compito della politica evitare di strumentalizzare singoli episodi per criminalizzare l’impegno che è stato portato avanti con il sacrificio e la dedizione di molti volontari.
Questo contributo è tratto dalla relazione svolta, in data 6.6.2025, al seminario su I profili problematici della normativa e delle prassi in tema di contrasto al soccorso in mare di navi private, tenutosi a Roma e patrocinato da ASGI, Magistratura Democratica e la rivista Questione Giustizia. Solo in data 18.6.2025 è stata depositata dal Tribunale di Palermo la motivazione della sentenza contro il Ministro dell’Interno ed altri sul caso Open Arm di cui, pertanto, si dà atto (cfr. par. 1 n. 2).
[1] Per una compiuta ricostruzione dell’evoluzione dell’attività delle ONG nei soccorsi in mare cfr. Luca Masera, L’incriminazione dei soccorsi: dobbiamo rassegnarci al disumano?, in Questione Giustizia 2/2018.
[2] Diffamazione e falsità contro le Ong in mare. La prima vittoria in tribunale per la Louise Michel in Altraeconomia, https://altreconomia.it/diffamazione-e-falsita-contro-le-ong-in-mare-la-prima-vittoria-in-tribunale-per-la-louise-michel/
[3] E’ stato al riguardo affermato che entrambi i principi trovano tutela, oltre che sull’art. 13 Cost., anche nell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, nell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e successivamente, a livello internazionale in seno alle Nazioni Unite, nell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Da ultimo, l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il diritto «alla libertà e alla sicurezza» di «ogni individuo».
[4] Corte Cost. 11.7.2003 n. 233: «Da un lato, infatti, il legislatore ha introdotto ulteriori casi di risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, riguardo ai quali è del tutto inconferente qualsiasi riferimento ad esigenze di carattere repressivo (si pensi, ad esempio, alle azioni di responsabilità previste dall'art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117, per i danni derivanti da ingiusta privazione della libertà personale nell'esercizio di funzioni giudiziarie; dall'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, per i danni derivanti dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo). Dall'altro, la giurisprudenza - sia pure muovendosi nell'ambito di operatività dell'art. 2043 cod. civ., nel corso di un travagliato itinerario interpretativo nel quale questa Corte è ripetutamente intervenuta - ha da tempo individuato ulteriori ipotesi di danni sostanzialmente non patrimoniali, derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, risarcibili a prescindere dalla configurabilità di un reato (in primis il cosiddetto danno biologico). Il mutamento legislativo e giurisprudenziale venutosi in tal modo a realizzare ha fatto assumere all'art. 2059 cod. civ. una funzione non più sanzionatoria, ma soltanto tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. Su tale base, pertanto, anche il riferimento al <<reato>> contenuto nell'art. 185 cod. pen., in coerenza con la diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più, come si riteneva per il passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge».
[5] L’art. 315 cpp prevede un risarcimento massimo di € 516.456,90 euro per l’intero periodo previsto. L’importo dovrà essere riproporzionato in relazione al numero di giorni di ingiusta detenzione subita, tenendo conto che la durata massima della carcerazione preventiva, ex art. 303 cpp, è pari a sei anni.