Magistratura democratica
Magistratura e società

Giustizia in piazza

di Glauco Giostra
ordinario di procedura penale, Università di Roma, La Sapienza. Già Coordinatore Comitato scientifico per gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale

La relazione tenuta al festival Parole di giustizia (Urbino, 21 ottobre 2022) 

Avevo accettato con sincero piacere e senza chiedere ulteriori precisazioni l’invito ad intervenire, perché Parole di Giustizia è una manifestazione culturale che ha suscitato in me grande interesse sin dalla prima edizione. Quando mi hanno comunicato che ero stato inserito nella sessione Giustizia in piazza, sono rimasto piacevolmente “spiazzato” dal titolo. Non è uno dei soliti titoli ingessati di noi giuristi ma un titolo icastico, una sorta di proiezione topografica di un problema delicatissimo che riguarda l’intera collettività. Un titolo capace di trasportare subito la mente a una piazza di Gerusalemme in cui quasi duemila anni fa si doveva pronunciare giustizia sul più celebre dilemma della storia occidentale: a chi restituire la libertà, a Gesù Cristo o a Barabba? Si attendeva che il Procuratore romano della Giudea rendesse il responso, come era nelle sue prerogative, con un atto di imperio. Ponzio Pilato, invece, per irresolutezza o per liberalità, optò per una soluzione democratica: rimettere al popolo la decisione. Seguì il notissimo «crucifige!» del popolo nei confronti di Gesù Cristo. Un esito che nei secoli ha risuonato come il più clamoroso esempio di ingiustizia. Eppure – ha fatto notare provocatoriamente Hans Kelsen – fu verdetto democratico. Dunque, o accettiamo il responso oppure ammettiamo che la democrazia non funziona. Di certo non è garanzia di giustizia. 

Un’alternativa, questa, che diviene meno stringente sino a dissolversi se consideriamo, più correttamente, che quella non era democrazia e non era giustizia. Due valori che in genere stanno e cadono insieme. 

Non era democrazia, bensì, come ammoniva Polibio già duecento anni prima di quel celeberrimo accadimento, oclocrazia, cioè predominio della massa, della gente: una forma degenerata di democrazia. Anche se bisogna riconoscere che a essere fuorviante è l’etimo della parola: comando del popolo (demos + kratos). Tanto che, molto opportunamente, il grande politologo statunitense Robert Alan Dahl, ha proposto, inascoltato, di sostituirla con poliarchia, per rendere più inequivocabilmente l’idea di un sistema fondato su una pluralità di poteri, che scaturiscono sì dal popolo, ma che si bilanciano, si connettono e si controllano.

Non era giustizia in senso proprio, bensì giustizia sommaria, linciaggio, lapidazione (come lo è sempre, in ogni altro contesto simile, anche a piazzale Loreto). La folla non persegue giustizia, ma cerca rassicurazione inseguendo le proprie cieche pulsioni punitive. Montaigne ammoniva che «quando gli uomini si riuniscono le teste si restringono». È dunque necessario arginare l’emotività, le suggestioni, l’urgenza di tacitare orrore e paura colpendo il presunto artefice del crimine. Una reazione istintiva che dobbiamo imparare a riconoscere e a disarmare. Avrei non poco imbarazzo a confessare cosa avrei voluto fare a caldo agli ignobili autori dei ripugnanti assassinii che hanno di recente insanguinato la nostra terra marchigiana.

Una condizione necessaria, ancorché non sufficiente perché si possa parlare di giustizia è quindi l’interposizione, tra il popolo e l’applicazione della legge, di soggetti professionalmente deputati a renderla. Una garanzia che resta però di facciata, se questi “ministri della giustizia” non fossero indipendenti. Quando il giudice è la longa manus del potere, la giustizia è prosecuzione dello scontro politico dietro la maschera del diritto. Il giudice funzionario non offre alcun valore aggiunto, se non quello dell’ipocrisia di uno Stato che si preoccupa di rivestire con i panni della giustizia la repressione del dissenso. Emblematico, pur nel suo carattere estremo, un episodio nella Francia postrivoluzionaria raccontato da Georges Lenôtre ripreso da Salvatore Satta. «I giudici si apprestano a interrogare alcuni soldati svizzeri, arrestati il 10 agosto, che dalle carceri sono stati condotti per rendere testimonianza contro il loro capo. Verso le quattro e trenta il rumore si fa più vicino insistente, sembra quasi salire dallo stesso palazzo (…) un'orda di sanculotti, eccitati da qualche mestatore, aveva forzato i cancelli, e armata di scuri, di pugnali, di picche, trascinava quanti prigionieri trovava in mezzo al cortile, davanti a un improvvisato tribunale del popolo, e ne faceva orribile scempio. D'improvviso, tra la folla imbestialita corre la voce che gli svizzeri del re sono nella sala delle udienze. Con urla immani balzano su per le scale, attraversano stanze e vestiboli, venerabili per antichi ricordi, e appaiono sulla soglia, i cenci e le armi grondanti di sangue. Lo spavento è tale, che gli svizzeri si gettano a terra, strisciando sotto le panche per sfuggire alla caccia. L'accusato Bachmann, solo, poiché sicuro di morire, che sia per fatto dei giudici o per fatto di questi assassini, discende dalla poltrona ove da trentasei ore è seduto, e si presenta alla sbarra come per dire: uccidetemi. Avvenne un fatto mirabile. Il presidente Lavau ferma d'un gesto gli invasori: con poche energiche parole intima di rispettare la legge e l'accusato che è sotto la sua spada. Si vedono allora i massacratori, in silenzio, ripiegare docilmente verso la porta. Hanno compreso che l'opera che essi compiono là in basso, le maniche rivoltate e la picca tra le mani, questi borghesi mantello nero e cappello a piuma la perfezionano sui loro seggi». 

Quando il potere politico può disporre della magistratura, è operazione sin troppo agevole sospingere nell’illegalità gli oppositori, per poi vestire degli ipocriti panni del diritto la loro bruta eliminazione politica o fisica. Rimane sempre attuale la celebre aria di Gerard, mentre si accinge ad accusare ingiustamente Andrea Chenier: «Nemico della patria? È vecchia fola che beatamente ancor la beve il popolo».

Del resto, ancor oggi, sia pure in ben altro contesto storico-culturale, l’indipendenza della magistratura è ritenuta contrassegno indefettibile dei valori della giustizia e della democrazia.

Nella grave censura del Parlamento europeo all’Ungheria di Orban si condannano le insistite riforme volte a «pregiudicare il principio dell’indipendenza della magistratura, tutelato dalla Costituzione» e a «consentire ai rami legislativo ed esecutivo di interferire nell’amministrazione della giustizia», al punto che l’Ungheria non può più essere considerata una democrazia, bensì «un’autocrazia elettorale». Cionondimeno il neo Presidente della Camera dei deputati, l’on. Fontana, ha motivato con un unico argomento e con molti decibel il suo convinto appoggio al Presidente Orban: «è stato democraticamente eletto». Ma, a parte che anche Hitler e Mussolini lo sono stati, non basta l’investitura dell’elettorato per rendere democratico il regime istaurato, se poi i detentori del potere e le loro azioni non si lasciano giudicare. 

In base alla nostra esemplare Costituzione la giustizia è amministrata – non dal popolo, bensì in nome del popolo – da giudici soggetti soltanto alla legge. Una legge che appunto scaturisce dal popolo, per il tramite dei suoi rappresentanti, e che regola lo ius dicere, disciplinandone le forme e i limiti.

Le forme, cioè il metodo, l’itinerario cognitivo meno imperfetto per avvicinarsi alla verità. Ma anche i limiti, sì, perché una collettività culturalmente progredita non vuole una verità ottenuta con metodi da cui la civiltà – per dirla con il grande Cordero – esca umiliata. Non occorre pensare alla tortura, quale strumento per estorcere una confessione, che speriamo ormai di potere relegare al passato. Tanti altri veicoli di conoscenza ben potrebbero procacciare contenuti di verità (si pensi alle intercettazioni tra difensore e imputato, all’obbligo di testimoniare del medico o del sacerdote, all’obbligo di deporre contro coniuge o figlio), ma a un prezzo eticamente troppo alto.

Si aggiunga che un Paese civile rinuncia a “veicoli” di conoscenza poco affidabili (documenti anonimi, voci correnti, testimonianza per sentito dire senza individuazione della fonte, risposte a domande suggestive). Dietro questa opzione apparentemente soltanto tecnica, vi è una scelta politico-culturale in grado di qualificare una moderna democrazia. Ogni dialisi probatoria vòlta a selezionare gli atti idonei a fondare un giudicato è l’esito di una implicita, fondamentale ponderazione: la collettività dimostra di mettere in conto che, rinunciando a qualche elemento di conoscenza, non si riesca a condannare un colpevole, per mancanza o insufficienza di prove, ma ha ritenuto questa prospettiva minusvalente rispetto al rischio, che si correrebbe dando bulimicamente ingresso a ogni elemento indiziante comunque raccolto, di condannare un innocente. 

La collettività tratteggia dunque il percorso cognitivo in grado di condurre alla migliore delle giustizie possibili, non certo alla Giustizia ornata di maiuscola. E di ciò deve essere consapevole per primo il magistrato che la amministra. Efficacemente  Antoine Garapon ricorda come, in una democrazia, essere un buon giudice esige «la permanente elaborazione del lutto di una giustizia perfetta».

Non è una giustizia perfetta, certo, quella che si riesce a rendere per via giurisdizionale, ma questo è importante non dimenticare mai: come per la democrazia, tutte le alternative sono peggiori. Sovente, drammaticamente peggiori. E non penso soltanto alle forme primitive di giustizia in piazza, ma anche a quelle finzioni giudiziarie con cui gli “uomini dal mantello nero”, di cui abbiamo parlato, fingono di pronunciare il diritto, mentre in realtà sono soltanto ventriloqui del potere. Il mondo non è stato mai, né lo è certo oggi, avaro di esempi al riguardo. Ne offre molti di drammatica attualità: dall’Egitto alla Russia, dall’Iran alla Cina, e via dolorosamente elencando. Quasi sempre, là dove la giustizia è divenuta una farsa, la democrazia è già degenerata in una “autocrazia elettorale”. Quasi sempre, ma non sempre: anche una democrazia di solide basi liberali, come quella degli Stati Uniti, ha avuto ed ha ancora Guantanamo. 

Pur criticandone le manchevolezze e l’inevitabile fallacia, difendiamo dunque strenuamente la giustizia affidata dal popolo a uomini indipendenti, ai quali è stato previamente prescritto il modus procedendi. Rimane ancora il metodo di gran lunga meno imperfetto con cui assolvere un compito molto al di sopra delle umane possibilità quale è quello di giudicare.

Considerazioni queste, oso sperare, almeno in astratto largamente condivise. Ma poi “noi popolo” pretendiamo giustizia subito. La ricorrente invocazione “vogliamo giustizia” ha un chiaro sottotesto: “vogliamo un colpevole”. Del resto, quando con soddisfatto sollievo, si proclama che “giustizia è fatta” ci si riferisce sempre a una sentenza di condanna. Atteggiamenti che non possono certo essere attribuiti a endemici e feroci istinti vendicativi, bensì al bisogno di rassicurazione, al desiderio di dare un nome al pericolo e alla paura per esorcizzarli. Quasi duemilacinquecento anni fa, nelle Vespe, Aristofane personificò questo sentire sociale nella figura di Filocleone, che aveva la passione di condannare, in qualità di “giudice popolare”. In tribunale sedeva sempre al primo banco e – poiché nelle tavolette incerate i giudici ateniesi solevano segnare con una lunga linea la condanna – «quando rincasava pareva un calabrone o un’ape tanta era la cera che aveva sotto le unghie». Se non alla celebrazione del processo, vi è almeno il rassicurante bisogno di assistere all’esecuzione della condanna. E purtroppo non è necessario riandare con la mente alle tricoteuses assiepate sotto alle ghigliottine francesi di settecentesca memoria, e neppure attraversare l’Atlantico per incontrare un popolo chiamato a guardare attraverso propri rappresentanti come viene eseguita la pena di morte in suo nome. Nel nostro piccolo abbiamo dovuto assistere ad un Ministro della giustizia e a un Ministro dell’interno che hanno accolto con esibito compiacimento l’arrivo di un criminale consegnato alle autorità italiane per eseguirne la condanna. Anche queste sono forme di “giustizia in piazza”.

Torniamo ai processi. Oggi essendo venuta meno la possibilità della partecipazione diretta ai riti della giustizia, ma non certo l’ansia di conoscenza e di consegna sollecita di un colpevole, i media – a cominciare dalla televisione, per finire con i più moderni strumenti di socialità digitale – hanno sostituito alla piazza fisica una piazza mediatica, molto, molto più capiente. 

La forte domanda ha sollecitato l’offerta, e così, davanti al tribunale dell’opinione pubblica, vengono allestite grossolane mimesi del processo penale. Tutto sembra trasparente ed evidente. E giusto. Sembrano dissolversi le incolmabili differenze tra giustizia istituzionale e giustizia mediatica. Eppure, ve ne sono di incolmabili: la prima seleziona gli elementi su cui fondare la decisione; la seconda raccoglie in modo bulimico ogni dato di conoscenza che arrivi a un microfono o a una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande vietate, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. La logica dell’una è una logica accusatoria; quella dell’altra, inquisitoria. Nella prima, ci sono criteri di valutazione, frutto della secolare sedimentazione delle regole di esperienza; nella seconda, invece, valgono le sensazioni, la telegenìa, l’emotività. Il processo giurisdizionale obbedisce alla logica del probabile (res dubiae), il processo mediatico a quella dell’intuizione e dell’apparenza. Nel primo, il cittadino è consegnato al giudizio dei soggetti istituzionalmente deputati ad amministrare giustizia; nel secondo, alla esecrazione della “folla” mediatica.

Il dilagare di questa forma di giustizia “fai da te” imbastita soprattutto negli studi televisivi rischia, nel lungo periodo, di corrodere la base di uno dei pilastri dell’ordinamento democratico: la fiducia della collettività nella giustizia amministrata in suo nome. Una fiducia persino più importante, da un punto di vista sociale, del metodo usato e dei risultati ottenuti nel rendere giustizia.

Il discorso investe la stessa ratio essendi della giurisdizione. Qualunque consorzio umano – inesorabilmente stretto tra la necessità di giudicare e punire i comportamenti ch’esso ritiene incompatibili con la sua sopravvivenza e l’impossibilità di conoscere la verità – da sempre individua i soggetti e le procedure che, nel contesto storico-culturale dato, sono percepiti come il modo migliore per approssimarsi alla verità e per ius dicere. Attività, quest’ultima, che appunto altro non designa se non quell’itinerario cognitivo che consente a un soggetto artificialmente “terzo” di passare dalla res iudicanda alla res iudicata e alla collettività di accettare quest’ultima pro veritate. Ma se, soprattutto con il medium di maggior impatto, la televisione, si diffonde presso l’opinione pubblica la fallace idea che sia possibile rendere giustizia in un modo più rapido e più trasparente, rinunciando alle forme del procedimento giurisdizionale, percepite come inutili pastoie, l’insistita somministrazione sul palcoscenico catodico di verità d’asporto finirà inesorabilmente per minare la fiducia nella giustizia istituzionale, aprendo pericolose faglie sociali conseguenti alla perdita di questo fondamentale fattore aggregante. 

Vi è di più. Il processo celebrato nella piazza mediatica, in genere preceduto da un grande clamore al momento del fatto di cronaca nera e accompagnato da una informazione giudiziaria martellante e amplificatrice, finisce spesso per esercitare una suggestione sui protagonisti del processo giudiziario, con il concreto rischio di adulterarne la condotta, come emblematici pronunciamenti della Corte di Cassazione non hanno mancato di stigmatizzare.

Intuibilmente ancor più insidioso dei condizionamenti sulle parti e sui testimoni, anche perché difficilmente accertabile, è la perniciosa influenza esercitata sui giudici. Una pressione che sarà tanto più forte quanto più sono allarmanti i crimini su cui debbono pronunciarsi; tanto meno resistibile quanto più insistente è l’eco mediatica generata.

Di certo si deve tentare di contenere il più possibile questi inaccettabili allestimenti che interpellano un improbabile “tribunale dell’opinione pubblica”, ma ormai bisogna rendersi conto che – per quanto siano strette le maglie normative – la liquida diffusività dei media non si lascia contenere più di tanto. E allora bisogna far affidamento sulle difese culturali dei giudicanti, promuovendone il rafforzamento. Forse sarebbe bene nella loro formazione, oltre allo studio del diritto, non disdegnare istruttivi richiami alle dure lezioni del passato. Affinché chi è chiamato a giudicare sia avvertito del rischio che la sua capacità di rendere giustizia diminuisca con il crescere della pressione sociale verso un determinato epilogo. Ammonitrici suonano per chi sa ascoltarle le parole di Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame: «Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste [cagioni] abbia dominato nel cuor di quei giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; mi aveva ricevuto una notizia desiderata e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, è diventata odio o puntiglio contro gli sventurati che cercavano di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un'aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degli innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine col non ascoltarle; il timore forza anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sotterra al timore, veramente nobile veramente sapiente, di commettere l'ingiustizia». 

Sempre alla impareggiabile penna del Manzoni dobbiamo il nitido tratteggio dello stato d’animo che dovrebbe invece accompagnare il giudice in camera di consiglio. Con le sue parole, che ogni giudice dovrebbe metabolizzare più di tante disposizioni codicistiche, concludo questo mio intervento, molto ringraziandovi per la paziente attenzione. «Felici quei giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancora nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il Paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perdere di vista il carattere proprio ed essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il Paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma che erano uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti».

15/11/2022
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