Magistratura democratica
Magistratura e società

Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al “processo mediatico”

di Dorella Quarto
dottoressa di ricerca in “Diritti, Economie e Culture del Mediterraneo” nell’Università di Bari Aldo Moro e avvocata

Recensione al volume a cura di Nicola Triggiani edito da Cacucci (2022)

1. Il libro, inserito nella Collana «Giustizia penale della post-modernità», affronta, in chiave interdisciplinare, il complesso tema dei rapporti tra processo penale ed informazione. Volutamente si può parlare di «rapporti», al plurale, in quanto il volume ha il pregio di raccogliere ventitré contributi, sapientemente legati insieme dal filo rosso con il quale il Curatore ne intesse la trama. 

Alla Prefazione di Adolfo Scalfati, Ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Roma «Tor Vergata» e attuale Presidente dell’Associazione fra gli Studiosi del Processo Penale, il quale sottolinea  come siano molto cambiati i tempi «da quando Emile Zola, alla fine dell’800, riempiva le pagine dell’Aurore  lanciando un j’accuse contro gli impietosi tribunali parigini che condannarono iniquamente il capitano Alfred Dreyfus», segue una corposa Introduzione (intitolata «è la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente! …neppure con il soccorso della presunzione di innocenza») a firma del Curatore, Nicola Triggiani, Ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Bari «Aldo Moro», che ha il pregio di anticipare i profili di analisi compiutamente trattati nei vari saggi usQuesti wQdagli autori, per lo più docenti e studiosi di varie Università italiane (alcuni dei quali anche brillanti avvocati), ma anche magistrati e giornalisti. Si tratta di Marina Castellaneta, Danila Certosino, Marilena Colamussi, Lucia Iandolo, Francesco Perchinunno, Lorenzo Pulito, Guglielmo Siniscalchi e lo stesso Triggiani, che, oltre al saggio introduttivo, firma un altro contributo (tutti docenti nell’Università di Bari); Alessandro Diddi (Università della Calabria); Mariano Menna, Mena Minafra e Antonio Pagliano (Università della Campania «Luigi Vanvitelli»); Cristiana Valentini e Francesco Trapella (Università «Gabriele d’Annunzio» di Chieti-Pescara); Carlotta Conti (Università di Firenze); Lucio Camaldo (Università di Milano); Antonino Pulvirenti (Università LUMSA di Palermo); Mariangela Montagna e Leonardo Nullo (Università di Perugia); Maria Vittoria Dell’Anna (Università del Salento); Giulia Mantovani (Università di Torino); Martino Rosati (Consigliere della Corte di cassazione); Salvatore Cosentino (Sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Lecce); Renato Nitti (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani); Luigi Ferrarella (giornalista de «Il Corriere della Sera»). 

Il Curatore ha il merito di riuscire a consegnare al lettore un’opera armonica e, al contempo, caratterizzata da una pluralità di visioni. I singoli contributi, tutti di altissimo spessore scientifico e ricchezza argomentativa, appaiono delle monadi autosufficienti ed esaustive; tuttavia, è la lettura integrata, sinergica e multidisciplinare che permette di apprezzare a pieno l’architettura dell’opera e la compiutezza dell’analisi, di cui il Curatore, già nell’Introduzione, sapientemente, si fa portavoce.

Il volume si apre svelando la sua mission: partendo dal ben noto conflitto tra libertà di cronaca e valori costituzionali potenzialmente confliggenti, si pone l’ambizioso obiettivo di cercare un punto di equilibrio in un settore nevralgico per la democrazia. 

L’opera, particolarmente corposa (oltre 700 pagine), raggruppa i vari contributi in aree tematiche. La struttura, così articolata, manifesta appieno la sua natura interdisciplinare; al contempo, la suddivisione in macroaree ne facilita la comprensione, permettendo al lettore di individuare agilmente quello di cui ha bisogno. 

 

2. Nella Parte Prima del volume, dal titolo «Profili costituzionali e sovranazionali», è esaminata la normativa costituzionale ed europea, scenario all’interno del quale, alla luce degli insegnamenti della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è cercato di raggiungere il difficile bilanciamento tra valori e interessi contrapposti.   

Deve premettersi che nel nostro Paese, dall’inchiesta «Tangentopoli» del 1992 in poi, si è man mano acuita la tensione tra autorità giudiziaria – la quale rivendica la propria primazia nella gestione degli affari di giustizia –, i mezzi di informazione, spesso motivati da chiare esigenze commerciali, ed i soggetti a vario titolo coinvolti nelle vicende giudiziarie, alla ricerca della giustizia vera. 

Sempre più spesso il processo mediatico si scontra con le garanzie del giusto processo e della riservatezza delle persone coinvolte, quali diritti fondamentali ed inviolabili della persona. Pertanto, l’analisi del problema non può prescindere dallo studio del substrato costituzionale del fenomeno; il contrasto e la tensione si creano perché la Costituzione, nell’enunciazione dei diritti fondamentali dell’uomo, annovera sia il diritto all’informazione che altri valori (regolare amministrazione della giustizia, presunzione di non colpevolezza, diritto di difesa, riservatezza), lasciando all’interprete l’arduo compito di equilibrare l’ago della bilancia.  

Il processo penale è il luogo in cui l’intervento della libera informazione riesce a svolgere una funzione correttiva e garantista sulle prevaricazioni del potere politico. Una giustizia segreta è incompatibile con l’ordinamento democratico. La pubblicità mediata sull’attività giudiziaria rappresenta inoltre una garanzia per la stessa magistratura, uno strumento di garanzia dell’indipendenza e dell’imparzialità: il giudice, consapevole dell’attenzione che l’opinione pubblica riversa sul proprio operato, si guarderà bene dal cadere vittima di debolezze e condizionamenti. 

A riguardo, sono illuminanti le parole della Corte EDU nel noto caso Sunday Times c. Regno Unito, secondo la quale «l’autorità giudiziaria non può operare nel vuoto, in quanto la stampa ha il diritto-dovere di comunicare informazioni e idee sulle questioni di cui conoscono i tribunali».

Certamente, nell’ambito del più ampio diritto alla manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21 Cost. è possibile ricomprendere il diritto di cronaca e di critica giudiziaria, quali forme dell’attività informativa aventi ad oggetto notizie ed atti afferenti a procedimenti penali. 

La libertà di manifestare apertamente il proprio pensiero (seppur non senza limiti) trova ampio riconoscimento anche nelle fonti sovranazionali. Tra queste si annoverano l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché l’art. 19 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici. In modo particolare, quest’ultima disposizione offre lo spunto per l’analisi della tensione tra i vari diritti coinvolti: infatti, dopo aver riconosciuto in capo ad ogni individuo il diritto alla libertà di espressione, stabilisce che l’esercizio di tale libertà comporta doveri e responsabilità speciali. Pertanto, tale diritto dovrà essere necessariamente sottoposto a talune tassative restrizioni; su tutte, il rispetto dei diritti o della reputazione altrui, la salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità e della moralità pubblica. 

Da quanto premesso è facile desumere che la tensione tra diritti confliggenti è inevitabile: ogni restrizione al diritto di cronaca deve trovare giustificazione nella tutela di altri interessi, di pari rilievo, oggetto di tutela costituzionale. 

Come si evince dalle sempre attuali parole della Consulta nella storica pronuncia del 10 marzo 1966, n. 18, il primo interesse con il quale il diritto di cronaca entra in conflitto è proprio quello al regolare funzionamento della giustizia, da intendere come interesse al buon esito delle indagini (c.d. efficacia dell’attività investigativa), cui si affianca l’interesse alla corretta formazione del convincimento del giudice in prospettiva dibattimentale.

In argomento, risultano particolarmente interessanti le osservazioni di Lorenzo Pulito, il quale, nel contributo dal titolo «Media e processo penale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo», richiama il concetto di diritto a un procès équitable; quest’ultimo è assicurato – anche attraverso il principio di imparzialità del giudice e la presunzione di innocenza – dall’art. 6 C.e.d.u., che ammette, quale eccezione al principio generale di pubblicità delle udienze, la possibilità di vietare la partecipazione della stampa, oltre che del pubblico, durante tutto o parte del processo, per la salvaguardia della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale, per la tutela dei minorenni o la protezione della vita privata delle parti in causa, oppure «nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».

L’autore invita a riflettere sulla problematica della «fuga di notizie». In una società democratica, la libertà di informare e quella della collettività di essere informata è funzionale al controllo delle istituzioni, compreso il potere giudiziario. 

Si esamina, prioritariamente, il rapporto tra l’art. 10 e l’art. 6 della Convenzione, in relazione al quale la Corte ha definito uno standard di tutela finalizzato ad evitare il rischio che la libertà di espressione renda iniquo il processo. Si passa, poi, in rassegna l’art. 8 della Convenzione, il cui obiettivo è proteggere l’individuo contro arbitrarie interferenze da parte delle pubbliche autorità: la disposizione non impone loro semplicemente di astenersi dal compierle, ma comporta per lo Stato obblighi positivi inerenti l’effettivo rispetto della vita privata, quali l’adozione di misure necessarie per assicurare effettiva protezione al diritto alla riservatezza. Tali obblighi sono sia di natura preventiva che procedurale: in chiave preventiva, ciascuno Stato deve organizzare il proprio apparato amministrativo in modo da evitare che avvengano fughe di notizie, mentre – in chiave riparatoria, nel caso in cui si verifichi tale denegato avvenimento – deve eseguire un’inchiesta effettiva per individuarne i responsabili ed, eventualmente, punirli con una sanzione sufficientemente dissuasiva. 

Oltre alla fuga di notizie, anche la pubblicazione delle immagini e dei nominativi dei soggetti a vario titolo coinvolti in procedimenti penali, così come dei contenuti di conversazioni intercettate, possono ledere la sfera della vita privata, oltre che la presunzione di non colpevolezza. Particolarmente lesiva di quest’ultima appare la pubblicazione dell’immagine dell’indagato o dell’imputato in manette, in quanto, presentandolo nella veste pubblica di colpevole, induce la platea a maturare anticipatamente uno stigmatizzante giudizio di colpevolezza.

Si richiamano sul punto le regole poste dalle note sentenze Axel Springer c. Germania e Von Hannnover c. Germania (n. 2), che contengono un «decalogo» europeo in materia di limiti della libertà di stampa, riportando il ragionamento della Corte, ovvero il costante riferimento al «giornalismo responsabile» laddove si impone di valutare, nell’ambito del suo giudizio sulla compatibilità convenzionale delle restrizioni alla libertà di stampa, anche i profili deontologici della condotta del giornalista colpito dalla misura. 

 

3. I tempi del processo sono scanditi dalle diverse fasi processuali ed ogni frammento del procedimento è importante per la ricostruzione della verità. Ad indagini approfondite seguirà un dibattimento minuzioso; solo l’istruttoria dibattimentale potrà fondare nel giudice quel pieno convincimento idoneo ad assicurare una decisione giusta e ponderata. 

Ma l’opinione pubblica «deve» sapere e non è possibile attendere che il processo giunga al termine. Ed allora ci si accontenta della verità disponibile in quel dato momento. Il nuovo processo conterrà così al suo interno tante verità: la verità dell’informazione di garanzia, la verità dell’interrogatorio, la verità dell’intercettazione o della custodia cautelare. Non c’è tempo per attendere la verità processuale né, tantomeno, per auspicare il raggiungimento della verità materiale. Questo è quanto basta per placare le attese collettive. 

Anziché attendere che la giustizia faccia il suo corso, spesso i media si sostituiscono nella ricostruzione dei fatti di causa, nell’attività investigativa, nella selezione dei dati (a loro dire rilevanti), sui quali il giudice, poi, dovrebbe fondare la sua decisione.

Inevitabilmente, il baricentro si sposta così sulla fase delle indagini preliminari, in quanto il termometro dell’attenzione è caldo solo all’inizio del procedimento.  

Sempre più diffuso è il ricorso all’istituto del fermo di indiziato di reato. È come se gli organi inquirenti fossero tenuti a dimostrare all’opinione pubblica che qualcosa si muove, rassicurando gli spettatori che «il mostro di turno è stato fermato»; per il processo ci sarà tempo. È come se le indagini dovessero essere al passo con i ritmi dell’informazione e, anzi, la dovessero a volte battere sul tempo per non vedere vanificato il proprio lavoro; il pericolo è quello di un’anticipata valutazione degli elementi a carico dell’indagato, come se fossero giudizi conclusivi di responsabilità. 

In tema di efficacia delle indagini e «genuinità probatoria», si pensi al caso Meredith Kercher, il c.d. «delitto di Perugia»: in spregio ai principi che caratterizzano ed ispirano il modello accusatorio, in una sorta di cortocircuito, l’accelerazione mediatica crea accelerazione anche nel modo di condurre le indagini. Il processo è costretto a compiere un passo all’indietro, per non restare indietro. Infatti, come si legge nelle motivazioni della sentenza di assoluzione rese dalla quinta sezione della Cassazione nel marzo del 2015, il processo per l’uccisione di Meredith Kercher «ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose défaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività d’indagine». Ad avviso della Corte, se non ci fossero state tali colpevoli omissioni, si sarebbe sin da subito consentito di delineare un quadro indiziario, se non di certezza, quanto meno di tranquilla affidabilità nella colpevolezza o diversamente nell’estraneità ai fatti contestati. Si legge inoltre che «l’inusitato clamore mediatico del delitto Kercher» non ha certamente «giovato alla ricerca della verità, provocando un’improvvisa accelerazione delle indagini nella spasmodica ricerca di colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale». 

La velocità dell’informazione ha di certo creato una distorsione nel rapporto tra giustizia reale e giustizia percepita.

Quanto detto, si collega ai temi affrontati nella Parte Seconda del volume, che ospita i saggi in materia di «Divieti di pubblicazione, libertà di stampa e interessi processuali». Si analizzano i divieti di pubblicazione previsti dall’art. 114, commi 1, 2, e 3 c.p.p. a tutela degli interessi processuali (segreto investigativo ed efficacia delle indagini, genuinità probatoria, «verginità cognitiva» del giudice del dibattimento), e altri strumenti a tutela dei medesimi interessi, come i limiti al segreto professionale del giornalista ex art. 200, comma 3, c.p.p. e la rimessione del processo ex art. 45 c.p.p. a seguito di violente e accese campagne mediatiche (sul punto, si pensi al «caso ILVA»: i giudici della prima sezione della Corte di Cassazione hanno respinto la richiesta di rimessione del processo sul disastro ambientale a Taranto presentata da Riva Fire, Ilva s.p.a., per conto del commissario governativo, e da altri 13 imputati coinvolti nella maxi inchiesta della procura ionica; secondo le difese, a Taranto non vi sarebbero state le condizioni per un giudizio «sereno ed equilibrato»). 

In particolare, Francesco Trapella, nel contributo dal titolo «La tutela del segreto investigativo», cerca di recuperare le coordinate del c.d. «segreto esterno». Il punto di partenza è dato dal secco diniego alla pubblicazione degli atti coperti dal segreto (art. 114, comma 1, c.p.p.); per tutti gli altri, viceversa, è sempre divulgabile il contenuto (art. 114, comma 7, c.p.p.).  

L’autore analizza le ulteriori parti della norma che governano i casi di pubblicità degli atti, distinguendo la fase processuale di riferimento o l’evenienza che si dia notizia del loro testo integrale, di una parte di esso o di un sunto. Così, eccettuata l’ordinanza cautelare, non sono pubblicabili, nemmeno parzialmente, gli atti desecretati finché non siano concluse le indagini o l’udienza preliminare (art. 114, comma 2, c.p.p.); non è neppure pubblicabile il contenuto delle intercettazioni non acquisite a mente degli artt. 268, 415-bis e 454 c.p.p. (art. 114, comma 2-bis, c.p.p.). 

Per la fase dibattimentale si distingue tra i materiali del fascicolo per il dibattimento e quelli contenuti nel fascicolo del pubblico ministero: mentre i primi sono immediatamente divulgabili – a seguito della sentenza costituzionale n. 59/1995 – gli altri possono essere pubblicati solo dopo la sentenza di appello; è sempre ammessa, poi, la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni (art. 114, comma 3, c.p.p.). 

Gli altri commi regolano le ipotesi di dibattimento a porte chiuse (art. 114, comma 4, c.p.p.) o di possibile diffusione di notizie processuali offensive del buon costume o potenzialmente lesive di interessi collettivi (art. 114, comma 5, c.p.p.); da ultimo, i commi 6 e 6-bis dell’art. 114 c.p.p. mirano, rispettivamente, ad evitare che siano divulgate generalità od immagini di minorenni testimoni, persone offese o danneggiate ovvero immagini di persone in vinculis sottoposte a mezzi coercitivi.  

A queste premesse si collegano le osservazioni di Antonino Pulvirenti, il quale precisa che, se si prescinde dalla disciplina speciale recentemente dedicata alle intercettazioni, il sistema di divieti di pubblicazione di atti al quale dà vita l’art. 114 c.p.p. nelle fasi preliminari del procedimento penale risulta articolato in funzione di esigenze interne, quali la tutela delle indagini e la salvaguardia della virgin mind del giudice dibattimentale. Naturalmente, ciò non toglie che all’ombra delle preclusioni codicistiche possano di fatto trovare riparo anche interessi di natura extraprocessuale. L’argomento è particolarmente sensibile per la privacy, sottoposta a tensione soprattutto nel corso delle indagini, che rappresentano l’oggetto privilegiato dell’attenzione mediatica.

Nel bilanciamento, le caratteristiche di coloro che hanno subito una violazione della privacy in seguito alla pubblicazione indebita possono pesare significativamente a discapito della libertà di stampa, soprattutto là dove esse siano indice di vulnerabilità della persona. La minore età e la veste di vittima, tanto più se di tratta di reati di matrice sessuale, sono elementi di assoluto rilievo, al punto da far scemare i timori di censura legati al divieto di pubblicazione, nel bilanciamento in concreto con la libertà di stampa.

Pulvirenti entra poi nel vivo della trattazione, analizzando i punti di contatto tra «Campagne mediatiche e istanze di rimessione del processo»; l’autore afferma che, nel mondo contemporaneo, la capacità dei mass media di ampliare il proprio raggio di incidenza e di farlo con straordinaria tempestività e intensità sia, di pari passo con la «rivoluzione informatica», cresciuta in maniera esponenziale. L’avvento della comunicazione digitale ha ormai delocalizzato l’informazione, alla quale chiunque, tramite i nuovi canali tecnologici (siti web, messaggistica istantanea, broadcasting, blog, social network, video sharing, ecc.), può accedere se, quando e come vuole. Non solo. Molte di queste stesse tecnologie hanno modificato il rapporto tra l’informazione e il suo destinatario, il quale non fruisce più passivamente della notizia, ma può interagire con essa, integrandola e amplificandone la portata. Tutto ciò rende ormai alquanto improbabile, o forse impossibile, che la campagna mediatica abbia una diffusività limitata a un determinato territorio e che, quindi, la diversa allocazione fisica del processo possa consentire a questo di non subirne più gli effetti.

Dello stesso avviso Marilena Colamussi, che si occupa delle tutele poste a presidio della sopramenzionata «verginità cognitiva» del giudice del dibattimento.  L’autrice premette che, a complicare il difficile equilibrio tra giustizia penale e diritto all’informazione sono innanzitutto i canali di comunicazione di massa che viaggiano su binari spazio-temporali difficilmente governabili, gestiti da professionisti talvolta poco competenti e svincolati da presidi etici, oltre che deontologici. 

Le ricadute involgono il fronte processuale e quello extra-processuale. Sul primo versante, emerge il rischio di pregiudicare il corretto svolgimento dell’attività investigativa e di generare una profonda crisi di identità nei ruoli, nelle funzioni e nelle prerogative dei protagonisti della vicenda processuale. Sul terreno extra-processuale, l’opinione pubblica si conforma spesso alla cronaca giudiziaria, al come i canali di informazione rappresentano i fatti processuali, influenzandone inevitabilmente il giudizio di valore.

Dove inizia l’obbligo di segretezza dell’attività investigativa, per garantirne lo sviluppo, la completezza e l’efficienza, e dove termina, per tutelare la presunzione di non colpevolezza, il diritto di difesa, il libero convincimento del giudice, la garanzia del contraddittorio e la riservatezza della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato sono confini tracciati dall’art. 329 c.p.p., che va letto in combinato disposto con l’art. 114 c.p.p. 

La scelta del legislatore è guidata da interessi di natura prettamente processuale, culminanti nell’intento di preservare la «neutralità metodologica» nell’esercizio della funzione giudicante. È, infatti, il modello accusatorio che impone la suddivisione in fasi del processo, nonché l’acquisizione della prova mediante il metodo orale e nel contradditorio tra le parti, alla presenza di un giudice del dibattimento, terzo ed imparziale, che per rimanere tale deve essere all’oscuro delle risultanze probatorie relative alle fasi anteriori del procedimento.

In questo clima non vi è chi non riconosca come la diffusione di informazioni non corrette, o non riscontrabili sul piano documentale con le dovute cautele, nonché la pubblicazione del contenuto di atti (talora distorto dall’umore o dal pregiudizio dell’opinionista di turno) riguardanti procedimenti penali, di particolare rilevanza sociale, inevitabilmente condizioni l’opinione pubblica. Quest’ultima, a sua volta, come una «mina vagante» è potenzialmente in grado di turbare la serenità psicologica del giudice chiamato a decidere e, ancor prima, del magistrato inquirente, pressato dalla necessità di sfatare i risultati delle inchieste giornalistiche ignare delle garanzie processuali.

La sfera emozionale della decisione – che non può essere oggettivamente scissa da quella conoscitiva – incide in modo latente e risulta confinata dalle regole di valutazione della prova, che impongono al giudice di fondare il suo convincimento esclusivamente sulle prove legittimamente acquisite in sede dibattimentale (art. 526 c.p.p.). Questo implica che, in teoria, il giudice del dibattimento è tenuto a ignorare tutto il materiale probatorio custodito nel fascicolo del pubblico ministero, materiale del quale potrà legittimamente tener conto solo nel momento in cui lo stesso transiterà in sede dibattimentale, attraverso il filtro del contraddittorio tra le parti. 

Nella realtà applicativa i termini della questione si pongono diversamente, specie per i processi di particolare clamore mediatico. Accade, non di rado, che tante informazioni giungano al giudice anzitempo, attraverso le inchieste giornalistiche e la pubblicazione di atti o del contenuto di atti inizialmente coperti dal segreto, che, malgrado non siano utilizzabili formalmente, perché non acquisiti attraverso i canali ufficiali, finiscono per incidere sulla componente emozionale della formazione del convincimento del giudice, rischiando di condizionare l’esito della decisione. 

Il principio di pubblicità assume particolare valore con riferimento alle fasi destinate all’acquisizione probatoria e alla pronuncia della sentenza. Dal punto di vista morfologico, la pubblicità è interna o esterna; quest’ultima, a sua volta, può assumere carattere immediato o mediato. La pubblicità interna, più precisamente, rappresenta un’articolazione del diritto di difesa che permette alle parti processuali di conoscere compiutamente il materiale probatorio acquisito, potendo così esercitare i diritti difensivi ad essi inerenti. La pubblicità esterna, quale conoscibilità indiscriminata dello svolgimento del processo, potrà definirsi immediata, quando la collettività acquisisce conoscenza attraverso l’accesso diretto al fenomeno giudiziario (ad es. partecipando alle udienze in veste di spettatore), ovvero mediata, se filtrata dagli strumenti di informazione. 

L’informazione giudiziaria, quale forma di manifestazione del pensiero, deve bilanciarsi con la regolare amministrazione della giustizia e con i diritti riconosciuti alle parti del processo, in particolar modo con la tutela accordata all’imputato. 

L’interesse al regolare funzionamento della giustizia trova copertura costituzionale negli artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, Cost.

Il principio della pubblicità mediata, a sua volta, può essere inteso in una duplice accezione. Stando ad una prima analisi del fenomeno, parleremo di «informazione sul processo» riferendoci alla rappresentazione, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, del modo di amministrare la giustizia. Il fenomeno si inquadra nel diritto di cronaca giudiziaria, quale forma di controllo esercitata sugli organi che amministrano la giustizia. 

Il principio della pubblicità mediata può, però, subire un processo di distorsione che la porta fuori dai limiti e dagli schemi di copertura costituzionale: all’informazione sul processo si affianca il c.d. «processo mediatico» ossia il «processo celebrato sui mezzi di informazione». 

Si fanno così spazio due facce della stessa medaglia: il processo giurisdizionale raccontato dai media ed il «processo mediatico» celebrato dai media, parallelo (spesso anteposto) a quello giurisdizionale. Da un lato, il circolo virtuoso del rapporto giustizia-informazione che, in modo trasparente e garantista, racconta la verità delle aule di giustizia; dal lato opposto, un vero e proprio dark side che trasforma il circolo virtuoso processo-informazione in un vero e proprio circolo vizioso di violazioni. 

 

4. Nella Parte Terza del volume, dedicata a «Valori extraprocessuali e limiti alla pubblicazione», vengono approfonditi i numerosi divieti posti a tutela degli interessi extraprocessuali (buon costume, interessi superiori dello Stato, riservatezza di parti private e testimoni, protezione dei minori e dei soggetti privati della libertà personale, diritto all’oblio). 

Giulia Mantovani, nel contributo dal titolo «Buon costume, interessi superiori dello Stato, riservatezza delle persone», proprio con riferimento al diritto all’oblio (creato in via giurisprudenziale e dottrinaria da «una costola del diritto alla riservatezza») osserva che può essere analizzato seguendo tre linee direttrici: la ripubblicazione di notizie trascorse, l’indicizzazione e l’analisi degli archivi on line dei giornali.

Il diritto all’oblio limita le possibilità di riproposizione e di permanente ostensione al pubblico di contenuti già legittimamente divulgati. Il bisogno di protezione contro le insidie di «un passato che non passa» è enormemente aumentato per effetto dello sviluppo della rete, che ha richiesto di aggiornare e diversificare le strategie di tutela della persona.

Si ritiene quindi giusto l’interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata (c.d. perpetuazione della memoria). 

Dalla ripubblicazione si distingue l’illimitata permanenza delle trascorse cronache giudiziarie nella disponibilità del pubblico. È nel web che il fenomeno ha assunto caratteri e dimensioni un tempo impensabili. Infatti, chiunque può recuperare le informazioni concernenti una determinata persona e presenti nella rete semplicemente inserendone il nome in un motore di ricerca generalista: se gli archivi on line dei giornali (o siti diversi) custodiscono notizie sul passato giudiziario di quella persona, tramite l’attivazione di Google Search o simili esse riemergeranno ad ogni digitazione del suo nome. Infine, si osserva che gli archivi on line dei giornali costituiscono un ricco serbatoio di informazioni dal quale attinge l’attività di indicizzazione dei motori di ricerca generalisti (a meno che l’editore del sito-sorgente si avvalga di protocolli, come «robot.txt», per escludere dall’indicizzazione contenuti che esso ospita). Ciò non toglie che l’ostensione all’interno dell’archivio on line del giornale si distingua nettamente dalla messa a disposizione offerta dal motore di ricerca generalista a partire dalla mera digitazione del nome dell’interessato, per finalità e per incidenza sui diritti fondamentali di quest’ultimo. 

Il contributo a firma di Danila Certosino offre, invece, una compiuta analisi sul collegamento tra la tutela della riservatezza e le esigenze di protezione ed educazione del minore; il contrappeso si ottiene attraverso l’imposizione di limiti alla pubblicità, mediata e immediata, l’entità dei quali dipende dal bilanciamento tra le istanze contrapposte. Rispetto all’adulto, ogni violazione del diritto alla riservatezza del minore può produrre gravi danni al suo processo di maturazione; infatti, l’ordinamento si preoccupa di tutelare il minorenne coinvolto nell’ambito di un procedimento penale da ogni forma di pubblicità che possa rivelarsi dannosa per lo sviluppo della sua personalità. 

Nel bilanciamento tra l’interesse della collettività a conoscere fatti penalmente rilevanti e l’interesse del minore a tutelare la propria immagine, il nostro legislatore ha, dunque, decisamente optato in favore di questo secondo interesse, ritenuto preminente. Vengono così richiamate ed analizzate le disposizioni poste a presidio del minore coinvolto in ambito penale (anche, e soprattutto, in veste di imputato), prestando particolare attenzione ai principi sovranazionali che ne hanno ispirato l’affermazione. Tra questi, l’art. 8 delle «Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile» (le c.d. «Regole di Pechino»); sulla stessa linea, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle «risposte sociali alla delinquenza minorile» n. 20, approvata a Strasburgo il 17 settembre 1987; il principio n. 8 della Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 10 luglio 2003, n. (2003)13, «sulla diffusione di informazioni da parte dei media in relazione ai processi penali». 

In un’ottica di maggior tutela è stato, poi, disposto, con l’art. 10, comma 8, l. 3 maggio 2004, n. 112 (c.d. «legge Gasparri»), il divieto di divulgazione di altre notizie che possano comunque consentire, anche indirettamente, l’identificazione del minorenne, essendo inizialmente contemplato nel corpo dell’art. 114, comma 6, c.p.p. esclusivamente il divieto di pubblicare le generalità e le immagini del minore. In tal modo, si è allargata la tutela accordata per quanto riguarda gli elementi di identificazione del minore, conformandosi più strettamente sia con la disciplina sulla protezione dei dati personali (allora contenute nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), sia con quanto previsto dalle norme del rito minorile (art. 13 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448). Si è, così, colmata una grave lacuna e sono state protette dall’invasività dei media non solo le generalità o l’immagine del minorenne, bensì anche elementi differenti che possono comunque condurre, anche se non immediatamente, alla sua identificazione, trovando così protezione un più ampio diritto alla riservatezza da parte del minore coinvolto in ambito penale. 

I principi contenuti nell’art. 13 d.P.R. n. 448/1988 sono oggetto di una più esplicita enunciazione nella c.d. “Carta di Treviso» del 5 ottobre 1990, una sorta di codice deontologico dei giornalisti in materia minorile, approvato dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei Giornalisti. 

 

5. Nella Parte Quarta del libro, dal titolo «Pubblicità del dibattimento e trasparenza della decisione», sono analizzate la disciplina della pubblicità del dibattimento ex art. 471 c.p.p. – derogabile in presenza di altri interessi meritevoli di essere salvaguardati (procedimento a porte chiuse: artt. 472-473 c.p.p.) – e la funzione extraprocessuale della motivazione della sentenza. 

Nicola Triggiani firma qui un pregevole contributo dal titolo «Dalla “pubblicità immediata” alla “pubblicità medita tecnologica”: le riprese audiovisive dei dibattimenti», nel quale analizza puntualmente le applicazioni giurisprudenziali dell’art. 147 disp. att. c.p.p. e ricorda che, ancor prima dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p. e delle correlate norme di attuazione, e precisamente il 18 gennaio 1988, andava in onda su R.A.I. 3 per la prima volta la trasmissione «Un giorno in Pretura», a cura di Roberta Petrelluzzi: una trasmissione fortunata, destinata ad essere una delle più longeve della programmazione R.A.I. e ancora oggi programma cult del palinsesto del servizio pubblico radiotelevisivo, con riprese dal vivo di autentici processi nei tribunali di tutta Italia.  

La verità processuale, così come consacrata nella motivazione della sentenza quale risultato della celebrazione del processo, dovrebbe essere accettata dalla collettività come fosse l’unica verità.

Se il processo non giunge a verità, ovvero non riesce a giungervi, possono crearsi nel corso del procedimento delle verità incidentali; su tutte, la verità «anticipata» così come cristallizzata nel provvedimento di applicazione di una misura cautelare. Il vincolo cautelare è in grado di trasformare l’evanescente verità processuale in una verità vivida, seppur cagionevole e provvisoria, in quanto fondata su un accertamento parziale dei fatti. 

Secondo diversa teorizzazione è possibile creare un’ulteriore classificazione: la verità «nel» processo e la verità «del» processo. 

La verità del processo è la verità della sentenza irrevocabile; la verità nel processo, inteso in senso lato, comprensivo anche della fase procedimentale, è la verità delle prove e dei corrispondenti atti di indagine, della testimonianza e delle sommarie informazioni. 

Accanto a questi concetti tradizionali, è necessario misurarsi con un terzo concetto di verità, la «verità mediatica», che emerge dagli organi di informazione, interessati, sempre più spesso, alle vicende processuali penali: una «verità», quest'ultima, inevitabilmente condizionata dalla velocità di circolazione delle informazioni. Tramite i media, la verità cautelare, quella verità anticipata e cagionevole cui si faceva prima riferimento, diventa la «vera verità», l’unica capace di fare notizia. Il processo, non può dimenticarsi, è un fatto umano; come tale, soffre delle inevitabili personalizzazioni; pertanto, in chiave soggettivizzante, avremo una «giustizia percepita». Ogni parte coinvolta nel processo ricaverà dalla lettura della sentenza una propria percezione di giustizia. 

Ed allora, l’imputato assolto (perché innocente) vedrà nella sentenza di proscioglimento la cristallizzazione della giustizia vera; per la persona offesa, convinta della colpevolezza dell’imputato, quello stesso dispositivo rappresenterà una mera giustizia processuale, ingiusta, frutto di un processo che non ha saputo svelare la vera verità. Il «certo» ed il «vero» devono coniugarsi nel decisum del giudice e, ove dovessero residuare dubbi circa tale corrispondenza, il soggetto imputato dovrà essere mandato assolto. La rivendicazione della «verità vera» è un ammonimento diretto al giudice, affinché questi stia in guardia dall’errore ovvero protegga l’imputato dai rischi e dalle conseguenze da questo derivanti.

Nel contributo intitolato «Il valore extra-processuale della motivazione e la diffusione pubblica della sentenza» di Mariano Menna, Mena Minafra e Antonio Pagliano, si chiarisce che nell’Europa continentale l’obbligo di motivare gli atti giurisdizionali sorge quale frutto del pensiero illuministico in funzione di limite all’arbitrarietà del giudizio e per consentire il controllo diffuso sull’amministrazione della giustizia. 

L’obbligo di motivazione e di pubblicazione reca in sé il controllo «popolare» sulla sentenza, quello «privatistico» (delle parti), e quello «burocratico» del giudice dell’impugnazione, perché per l’opinione pubblica la motivazione non è soltanto una delle fonti per l’interpretazione della sentenza, com’è, invece, per gli altri destinatari, «ma è la sola fonte di conoscenza e di controllo sulla decisione».

Quest’ultimo rilievo enfatizza la riconosciuta funzione extraprocessuale della motivazione.

In questo contesto, il giornalismo giudiziario è diventato di fatto l’unico autentico veicolo della diffusione dei contenuti delle sentenze.

Per rendere maggiormente comprensibile alla generalità dei consociati il contenuto delle sentenze e degli altri provvedimenti del giudice e, più in generale, il significato degli atti che vengono via via compiuti nell’ambito dei procedimenti penali, è necessario, quindi, ricorrere a un’opera di intermediazione che potremmo definire, per certi versi, culturale.

Intermediazione che, allo stato, è affidata quasi sempre a soggetti poco avvezzi a quel linguaggio e pertanto non in grado di esercitare un corretto livello di divulgazione.

Il giornalismo, storicamente inteso come presidio per la democrazia, si sta trasformando anche in presidio per l’amministrazione della giustizia, rendendo concreta, dopo secoli, l’attuazione della funzione extraprocessuale dell’obbligo di motivazione, senza che di ciò, tuttavia, si possa riuscire a rallegrarsi. Se, infatti, è da apprezzare come si sia riuscito a rendere concreto un principio come quello della funzione extraprocessuale dell’obbligo di motivazione, la piega che tale esercizio sta sempre più assumendo solleva maggiori perplessità dei benefici che esso produce. 

Il pericolo è che la giustizia, così come raccontata, appaia sempre più distante dal senso comune, schiacciando il nostro sistema (che conosce giudici togati e di carriera) su quello di matrice anglosassone delle giurie popolari, in cui il sentire sociale prevale sui contenuti delle norme. A prescindere da come la si possa pensare rispetto ai sistemi accusatori e ai loro meccanismi decisori, il pericolo concreto è la delegittimazione della magistratura giudicante. 

Lo «stile italiano» delle sentenze appare spesso prolisso, astratto, ridondante, contorto, criptico, «assolutamente inidoneo alla comunicazione»; invece la motivazione della sentenza deve guardare anche oltre ai suoi diretti destinatari. Al fine di consentire che la motivazione correttamente esplichi la propria funzione extraprocessuale, è evidente che il linguaggio in cui viene redatta deve essere comprensibile alla generalità dei cittadini, non essendo altrimenti costoro messi nella condizione effettiva di esercitare alcun controllo «esterno» sull’operato del giudice, il quale è – a sua volta – chiamato a difendere, proprio grazie a questa forma di controllo, la propria autonomia e indipendenza, dando dimostrazione di essere soggetto soltanto alla legge. E la circostanza che tale funzione rimanga spesso inesercitata risulta maggiormente aggravata dal fatto che non sia prevista alcuna sanzione processuale, nonostante l’importanza degli interessi attinti dalla sua violazione.

Per porre rimedio a tali criticità, con notevole ritardo e in modo parziale, il 14 dicembre 2021 è entrato in vigore il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, atto complesso e di difficile lettura, con il quale il legislatore è intervenuto al fine di adeguare la normativa nazionale alle disposizioni contenute nella Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza, operando il riferimento, sul versante soggettivo, alle sole «persone fisiche sottoposte a indagini o imputate in un procedimento penale».

Seppur trattasi di un atto normativo importante, che rappresenta un passo in avanti sul piano giuridico e culturale verso una più piena affermazione delle garanzie fondamentali consacrate nella presunzione di innocenza dell’imputato (artt. 6, comma 2, C.e.d.u. e 27, comma 2, Cost.), per la regolamentazione delle dinamiche del c.d. «processo mediatico», dove alla base si pone il conflitto, difficilmente superabile, tra diritti contrapposti quali il diritto di cronaca giudiziaria e diversi diritti che fanno capo a chi lo subisce (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza), oltre a più generali istanze di imparzialità del giudizio, l’articolato sembra dettare solo rigide regole di comportamento per l’autorità pubblica ed in particolare per le procure della Repubblica.

 

6. La Parte Quinta del volume è dedicata all’analisi delle degenerazioni del c.d. «processo mediatico», come suggerito già dal titolo («La deriva giustizialista: il processo celebrato sul palcoscenico dei media»). Si tratta dei processi paralleli celebrati in TV, in grado di condizionare pesantemente l’opinione pubblica e di incidere potenzialmente sullo stesso svolgimento e sugli esiti del processo.      

Si sottolinea qui che la velocità dell’informazione ha di certo creato una distorsione nel rapporto tra giustizia reale e giustizia percepita. La verità è che nella trattazione mediatica delle vicende giudiziarie si assiste ad una trasformazione e distorsione dello stesso valore degli istituti processuali, sicché «l’informazione di garanzia equivale all’imputazione, l’imputazione alla condanna, la misura cautelare alla pena». Questo ribaltamento, questa commistione tra le fasi e gli atti processuali è la manifestazione della logica colpevolista che caratterizza la giustizia mediatica; al contempo, rappresenta l’unico modo per «bucare la notizia», per sbattere il mostro in prima pagina e tenere gli spettatori incollati ai teleschermi. 

La sezione ospita anche un focus sulla prova scientifica, che – oltre ad aver acquisito un ruolo sempre più centrale nel processo penale –, ha una fortissima attrattiva sull’opinione pubblica, contribuendo al successo di tante trasmissioni televisive incentrate sull’analisi e la ricostruzione di casi giudiziari. 

Sul punto, Carlotta Conti, autrice del contributo dal titolo «Prova scientifica e processo mediatico», ricorda che il processo stesso ha ad oggetto la rappresentazione di una vicenda storica, per definizione confinata nell’empiria del passato. Pertanto, quando in televisione viene ricostruito non direttamente il fatto, ma il rito – se del caso attraverso la diffusione di informazioni contenute all’interno di atti più o meno legittimamente conosciuti, oppure di filmati che riportano spezzoni della vicenda giudiziaria – si è dinanzi ad una «metarappresentazione» (la rappresentazione di una rappresentazione), che dunque rischia di essere ancora più lontana dal fatto, giacché passa attraverso l’infido filtro mediatico. Davvero l’ombra di un sogno che finisce per essere soltanto una pallida o travisata imitazione, quando non si trasforma d’émblee in un surrettizio aggiramento delle regole base del rito. 

La spettacolarizzazione della realtà processuale può portare alla formazione di un convincimento collettivo talmente radicato che, se la decisione raggiunta dal giudice non dovesse risultare conforme all’idea che lo spettatore aveva maturato in relazione a quel dato evento, ecco che la sentenza sarà percepita come ingiusta ed inattesa.

È qui che la retorica colpevolista dei media, quella che analizza il caso fuori dalle aule di giustizia, solo sulla base di indizi e prove frammentarie, instilla il pericolo della suggestione esercitabile sull’organo giudicante, come sottolinea Triggiani già nell’Introduzione. 

Le profonde differenze tra processo mediatico e processo giurisdizionale dovrebbero da sole bastare per concludere che alcuna suggestione è possibile. Infatti, in primo luogo vi è una differenza tra i luoghi di celebrazione dei processi e tra gli organi deputati a condurre indagini ed assumere decisioni. Il processo giurisdizionale ha un luogo deputato, all’interno del quale operano figure professionali, terze ed imparziali, il cui operato è scandito secondo precise fasi processuali. Il processo mediatico non ha alcun luogo di celebrazione precostituito: si svolge nei salotti televisivi, sui giornali, persino al bar, trasformando la società in una massa indistinta di giudici popolari. Si assiste, così, ad un processo «officiato da chiunque».

Differenza certamente meno evidente è quella afferente alle modalità di selezione del materiale probatorio: il processo penale è caratterizzato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova come prescritto dall’art. 111, comma 4, Cost. e dagli artt. 190 e 192 c.p.p. La presunzione di non colpevolezza porta ad una selezione delle sole prove idonee a fondare il convincimento del giudice, distinguendo tra prove ammissibili e vietate. Il processo mediatico, al contrario, è basato su regole di inclusione compulsiva, poiché tutto può costituire una prova. Ci si trova così ad ascoltare i racconti dei passanti, ad indagare sulle abitudini di vita della vittima, a fondare giudizi di colpevolezza sulla base di mere sensazioni. 

Si genera, così procedendo, una inevitabile confusione tra difesa reale e difesa mediatica, sì da costringere l’imputato a discolparsi due volte: dalla deriva giustizialista dei media e dell’opinione pubblica e, nelle aule giudiziarie, dalle contestazioni cristallizzate nel capo di imputazione. 

E si registra una certa insofferenza nei confronti della giustizia istituzionale, intessuta di regole e tecnicismi che, evidentemente, sfuggono ai più. L’insidiosa idea è che il miglior giudice sia l’opinione pubblica. Ed allora il rischio da cui rifuggire è quello che la difformità tra convincimento maturato e sentenza vada a minare e corrodere il bene della fiducia dei cittadini nella giustizia amministrata dai giudici. 

 

7. La Parte Sesta del libro ospita i «Punti di vista» dei soggetti che, a diverso titolo, intervengono come attori nella scena che vede scontrarsi gli interessi da tutelare, in particolare l’interesse del pubblico ministero a mantenere il riserbo sulle indagini in corso e l’interesse del difensore a preservare il suo assistito dagli «incalcolabili danni cagionati dai media». A questi si affiancano il punto di vista del giudice, quello del giornalista e quello del linguista. 

Cristiana Valentini, chiamata ad illustrare il punto di vista del difensore, cerca di riportare in equilibrio gli interessi in gioco, chiarendo che non sempre il contrasto genera una distorsione. Infatti, quando si allude alla scelta di spostare la battaglia giudiziaria (anche) sui media, non si parla sempre ed in via esclusiva del fenomeno – giustamente deprecato – degli indagati «portati a rendersi disponibili per i media» e neppure dei testimoni e persone offese che «non si sottraggono a quel momento di notorietà che l’episodio può loro procurare per sfruttare la vicenda processuale che li coinvolge e per chiedere, dunque, una soluzione “di giustizia”»; non si parla, insomma, della c.d. «giustizia-spettacolo», condotta in terrificanti salotti televisivi, che ambiscono persino a porsi in populistica concorrenza con la giustizia dei tribunali. Ciò di cui si discute, qui, è semplicemente della possibilità di interagire con i media al fine di controbilanciare l’immagine che viene fornita a piene mani dagli inquirenti.

A queste visuali di pensiero si affianca il punto di vista del giudice, il quale è chiamato a riaffermare la centralità della sentenza, affinché il processo mediatico lasci spazio ad un linguaggio giuridico lontano da «inutili vezzi stilistici» e quanto più orientato a spostare il processo nella sua sede naturale (le aule di giustizia e la motivazione contenuta nella sentenza), evitando che il cittadino trovi rifugio nella «giustizia spettacolo», troppo spesso apprezzata per la sua estrema semplicità e comprensibilità. Questo interesse, e la visione che ne discende, si scontra inevitabilmente con il punto di vista del giornalista, in bilico tra cronaca giudiziaria, giustizia penale e lealtà linguistica. Martino Rosati, nel contributo dal titolo «Il punto di vista del giudice. Il dovere di chiarezza», afferma che il «processo mediatico» altro non è se non il prodotto peggio riuscito della progressiva degenerazione di tali legittime e non eludibili esigenze di una comunità; così, richiama l’attenzione sulle «Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale», adottate dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera dell’11 luglio 2018, che, attingendo anche ad esperienze di ordinamenti stranieri, hanno inteso offrire al magistrato – ma, di riflesso, anche agli operatori dei media – dei parametri di riferimento per provare a mettere ordine in quella che, in questi recenti anni di enorme espansione e trasformazione dell’offerta informativa, ha assunto i connotati di un’autentica suburra.

Chiarezza espositiva, massima comprensibilità del lessico utilizzato, sinteticità degli argomenti senza pregiudizio della loro completezza; insomma, la cura nella redazione dei provvedimenti, rappresenta il più utile ed efficiente strumento a disposizione del giudice per resistere all’imponente capacità distorsiva della rappresentazione mediatica dell’attività giudiziaria.

Per tutti coloro che esercitano un potere pubblico, quello della chiarezza espressiva è un dovere fondamentale, etico prima ancora che professionale. 

La certezza del diritto, per insegnamento condiviso, è uno dei princìpi fondanti della democrazia. Ma il presupposto della certezza è rappresentato dalla chiarezza: tanto la regola quanto il provvedimento autoritativo che la applica non sono certi, se non sono chiari e precisi. Inoltre, precisione e chiarezza rendono controllabile l’agire dei pubblici funzionari: i quali, non di rado, hanno tutto l’interesse a non farsi comprendere, poiché altrimenti il loro potere, od anche soltanto il modo in cui essi lo esercitano, potrebbero essere messi in discussione.

Quando la Costituzione, infatti, all’art. 101, afferma che «la giustizia è amministrata in nome del popolo», ovviamente non intende far carico ai magistrati di raccogliere la volontà popolare né di uniformarsi ad un tanto vago quanto pericoloso Volksgeist; né, con evidenza ancora maggiore, con tale formula sottende la necessità di un mandato popolare. 

Il collegamento tra il giudice ed il popolo, che detta norma richiede, risiede tutto, allora, nella possibilità di controllo della decisione giudiziaria. Il giudice in tanto può spendere il nome del popolo nelle sue decisioni, in quanto il popolo sia in grado di verificarle e di riconoscerle come proprie, in un rapporto tra pari.

È evidente, però, che tutto questo non può avvenire, se quelle decisioni non siano comprensibili dal popolo: con l’effetto che, se non riescono a comunicare con quest’ultimo, i giudici perdono la loro legittimazione democratica. 

Il comma 1 dell’art. 192 c.p.p. obbliga espressamente il giudice a «dare conto», nella sua motivazione, dei risultati acquisiti e dei criteri adottati nella valutazione delle prove raccolte. Tale obbligo di rendiconto non può spiegarsi che con la necessità di garantire il controllo sociale dell’attività del giudice. Ed è proprio questa possibilità di controllo che rappresenta il necessario contrappeso, ma anche, ad un tempo, la garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura.

 

8. Completa il volume la Parte Settima, intitolata «Oltre la cronaca: la rappresentazione del processo penale nel cinema e nelle altre arti», che riserva uno spazio agli aspetti che vanno appunto «oltre la cronaca» e gli stretti confini del diritto, approfondendo il tema della rappresentazione del processo penale e dei suoi protagonisti (giudici, pubblici ministeri, avvocati ed imputati) nel cinema italiano del Novecento e, più in generale, nelle altre forme artistiche (letteratura e teatro, arti figurative, televisione).

Insomma, l’indagine curata da Nicola Triggiani si presenta come un’opera davvero originale, per impostazione, taglio e contenuti, destinata senza dubbio a porsi come punto di riferimento nell’acceso dibattito sulle complesse e delicate problematiche relative ai rapporti tra informazione e giustizia penale. 

Mentre sembrano già prospettarsi all’orizzonte nuove possibili modifiche normative, resta fondamentale, come nota il Curatore nelle battute finali della sua Introduzione, il richiamo alla deontologia e al senso di responsabilità degli operatori della giustizia e dell’informazione, ma soprattutto auspicabile «un’autentica “rivoluzione culturale”, capace di coinvolgere media, magistratura e società».   

20/05/2023
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