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Casa e lavoro. Una storia da far quadrare (Città e lavoro, parte III)

di Sandra Burchi
P.H. Doctor in History and Sociology of Modernity / University of Pisa

Il testo riproduce l'intervento alla sessione Città e lavoro, a cui hanno preso parte anche Carla Ponterio e Rita Sanlorenzo, nell’ambito del Festival Parole di giustizia intitolato Una città per pensare svoltosi a Pesaro, Fano e Urbino tra il 20 ed il 23 ottobre 2022

1. Quando si parla di città e lavoro il nostro immaginario si apre immediatamente verso spazi riconoscibili: uffici, negozi, laboratori di ogni tipo, aziende, fabbriche. Facciamo ancora fatica a riconoscere che attraverso i processi di digitalizzazione il lavoro ha cambiato il proprio riferimento agli spazi e ha trovato nuove collocazioni. Gli studi ne parlano da anni. In maniera più o meno critica. Manuel Castells, un autore che più di altri ha mostrato il riconfigurarsi della società come “società dell’informazione”, quando parla di «citta delle reti» o di «città per progetti», traccia le caratteristiche che individuano una geografia urbana in cui il lavoro, sempre più immateriale e individuale, segue i singoli e le singole cittadini/e, negli spazi in cui si muovono, interagiscono, vivono, lavorano.

Lavorare da remoto, a distanza, da casa, per molti è una normalità già da tempo. Si tratta di una condizione di lavoro poco vista ma ampiamente messa a fuoco dalle analisi sulle trasformazioni della società e del lavoro almeno dagli anni Novanta (Sennett 1999). Osservata nella ricostruzione delle mappe precarie che hanno rintracciato l’esperienza di lavoro delle ultime generazioni (Salmieri 2006, Murgia, Armano 2014), la scomposizione del lavoro e la sua riterritorializzazione è uno dei processi più evidenti fra quelli in corso negli ultimi anni. 

Fra i luoghi in cui il lavoro si è disperso, via precarietà e sviluppo tecnologico, la casa è diventata sede di una domestication del lavoro temuta dai più critici (Morini 2012, Cossutta C. 2019), letta attraverso le sue implicazioni e i suoi adattamenti (Burchi 2014) o incoraggiata da parte aziendale (Visentini, Cazzaroli 2019).

Se il nostro immaginario tiene ancora così separati casa e lavoro è perché l’idea di lavoro che è stata dominante, dalla rivoluzione industriale in poi, si è strutturata intorno all’idea di fabbrica, di produzione in serie, di lavoro operaio, di città-metropoli addensatesi al fumo delle ciminiere, luoghi simbolo della modernità. Nel suo libro dedicato alla filosofia della casa, Emanuele Coccia esplica in un passaggio molto frettoloso questo immaginario che contrappone casa e lavoro: «La modernità è nata strappando il lavoro alla casa. Oggi la casa se lo sta riprendendo».

Una ricostruzione più accurata dei passaggi casa-lavoro-città viene dalla storiografia e dagli studi femministi. Le storiche, tenendo ferma la prospettiva di genere interrogano questi passaggi usando il setaccio di una domanda radicale, oggi più che mai necessaria: “cosa è il lavoro?”. 

Le ricerche delle storiche, inoltre, smentiscono il pesante immaginario che vuole casa e lavoro come ambiti separati.  Attraverso la lettura di fonti secondarie, più capaci di tenere traccia di un fare e lavorare femminile poco riconosciuto quando non osteggiato, le storiche hanno mostrato che le case nel tempo hanno avuto la funzione di bottega, laboratorio, negozio, cucina aperta, e che è possibile fissare storicamente il processo di de-laborizzazione degli ambienti domestici in relazione a fasi specifiche dello sviluppo economico. 

Studi come quelli di Anna Bellavitis, Raffaella Sarti, Alessandra Gissi, articolano l’idea di lavoro che ha accompagnato la modernità ricostruendo la pluralità di esperienze non immediatamente riconducibili al lavoro di fabbrica. 

L’estensione dell’idea di lavoro è un tema centrale dell’agenda politica femminista almeno dagli anni Settanta e coinvolge la riformulazione dei rapporti troppo dicotomici tra le sfere della società: privato e pubblico, personale e politico, casa e fabbrica. Proprio negli anni Settanta quando la fabbrica era individuata come luogo simbolo del lavoro, le giovani dei collettivi femministi di matrice marxista pretendevano per le donne il titolo di “Operaie della casa” per rivendicare il ruolo – non visto – delle donne come produttrici di forza lavoro. Tutto il dibattito internazionale su (o contro) il lavoro domestico aveva lo stesso intento rivendicativo ma è stata anche l’occasione, grazie a studiose come Maria Rosa Dalla Costa, Silvia Federici, Selma James (autrici oggi al centro di un grande interesse), per rinnovare gli schemi dell’economia e dell’economia politica. 

 

2. Se la rivendicazione femminista – negli studi e nei movimenti – non è bastata a rompere la dicotomia troppo rigida tra casa e lavoro che esiste nel nostro immaginario, e a spostare l’idea del lavoro a quella del lavorare (come proposto da Laura Balbo, studiosa cui dobbiamo molte intuizioni sul funzionamento della società nel suo inoltrarsi nella recente modernizzazione), ci ha pensato il nuovo spirito del capitalismo (cit.).  Attraverso le nuove tecnologie, i processi di valorizzazione hanno prodotto una proliferazione di spazi di produzione non-standard estese e intrecciate alle forme dell’abitare. 

Se oggi riflettere sul nesso casa-lavoro è diventato più urgente è per effetto della pandemia che ha esteso e intensificato la necessità di lavorare da casa ai lavoratori dipendenti.

I decreti con cui il Governo si è mosso estendendo l’applicazione della modalità di lavoro agile ad ogni rapporto di lavoro subordinato per tutta la durata dell’emergenza , hanno imposto il ricorso a una legislazione recente (e poco nota), attraverso un sistema di aggiustamenti e semplificazioni che ha spinto gli ambienti domestici a trasformarsi in nodi iperconnessi e produttivi,  sottostimando, in ragione dell’emergenza sanitaria, differenze e diseguaglianze connesse alle condizioni materiali, metri quadrati e dotazioni tecnologiche comprese. 

Molte persone, abituate alla vita d’ufficio, si sono trasformate in remote workers, allestendo postazioni lavorative più o meno mobili all’interno delle proprie abitazioni e attrezzandosi per attivare nuovi canali di comunicazione con le organizzazioni di riferimento. Canali che hanno assunto presto anche la funzione di controllo. 

La nostra legislazione parla di lavoro agile (smart working) specificamente per il lavoro subordinato (legge n. 81 del 2017). Nelle parole del legislatore risponde a una duplice necessità «incrementare la produttività» e «agevolare le esigenze di conciliazione vita lavoro» dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti. I due obiettivi sono pensati in un rapporto di reciprocità. Secondo lo spirito della legge, si produce di più e meglio in quei contesti aziendali in cui si promuove benessere organizzativo attraverso la possibilità data ai dipendenti di «articolare i tempi e i luoghi della prestazione lavorativa». 

È un modello che intende superare alcune rigidità del telelavoro: il dipendente può scegliere quando e dove lavorare, non ha un orario fisso e non deve rendere conto di una postazione fissa su cui il datore ha facoltà di controllo. Questo modello prevede un’organizzazione che tiene conto degli «obiettivi» da realizzare, affidandone la gestione ai dipendenti secondo un piano di lavoro concordato. 

È innegabile che per molti e molte questo passaggio può costituire un guadagno e una rivoluzione complessiva del modo di concepire il rapporto tra i tempi dell’esistenza, ma per andare in questa direzione è necessario ripensare e aggiornare il sistema di regole e garanzie, superando il sistema di semplificazioni adottate e aggiornate continuamente in ragione dello stato di emergenza.

La discussione portata avanti dal gruppo voluto dal ministero, come riferito da Carla Ponterio nell’intervento che ha preceduto il mio, ha avuto una sua particolare efficacia nel difendere il tema della volontarietà, della ricerca di un equilibrio e di una coerenza possibile tra tempo di lavoro e raggiungimento degli obiettivi indicati. La presenza al tavolo di lavoro di studiosi, giuristi e parti sociali ha individuato nella contrattazione lo strumento per individuare regole chiare e condivise, ma le cose sono ancora in evoluzione. 

I dati raccolti dalle numerose ricerche compiute su smart working e pandemia restituiscono un modello di lavoro che potremmo definire “ibrido” che mescola i tratti del telelavoro (ad esempio, coerenza di orari di ufficio, reperibilità, incremento di sistemi di controllo) con quelli del lavoro agile (presa in carico degli “obiettivi” e autonomia organizzativa).  Questo ha accelerato alcuni processi in corso, soprattutto in relazione all’uso sistematico, quasi forzato, delle tecnologie digitali, che ha portato i lavoratori e le lavoratrici a legarsi a un luogo virtuale, «metaforizzabile nel cloud» (Fiorino 2022), e a fare esercizio di una capacità tutta individuale di gestire il lavoro. 

Nel complesso, se prescindiamo da un’analisi dei singoli aspetti, è possibile dire che il lavoro in modalità agile accentua i caratteri individuali della prestazione e oscura lo sforzo necessario a impostare routine organizzative efficaci ridisegnandole come sfide individuali in cui i soggetti sono chiamati a incorporare – letteralmente – operatività e produttività. 

 

3. Questo dato appare centrale. La prestazione lavorativa – allontanandosi dalle condizioni fisiche di spazi e ambienti condivisi - diventa un processo da gestire in solitaria, un problema del singolo e della singola lavoratrice “in isolamento”. 

Lo smart working introduce nel lavoro dipendente alcune modalità organizzative tipiche del lavoro autonomo, in primis quelle relative alla gestione del tempo. A meno di non introdurre forme sempre più capillari di controllo in un’organizzazione che poco si scosta dal telelavoro (cosa che sta avvenendo in molti contesti), l’introduzione di un lavoro per obiettivi - comporta una gestione del tempo affidata ai singoli e alle singole cui è chiesto di trovare degli standard esecutivi che non eccedano gli impegni orari previsti dai loro contratti.  In altre parole, il lavoro a distanza introduce nel lavoro dipendente la richiesta di una disponibilità che rischia di tradursi in carichi di lavoro che vanno nella direzione opposta a quella di un risparmio di tempo. La richiesta di misure che garantiscono il “diritto alla disconnessione” guarda esattamente a questi possibili rischi. 

La cosa interessante però è che tutte queste difficoltà non inibiscono, da parte di lavoratori e lavoratrici, il desiderio di misurarsi con questo modello organizzativo.

I disagi di un trasferimento di massa, le complicazioni di una conciliazione lavoro/famiglia sperimentata nella condizione estreme del lockdown o del susseguirsi di quarantene, non ha ridotto l’interesse per la possibilità di arrivare a forme più flessibili e individualizzate dell’orario lavorativo.  

Lo studio della Fondazione Di Vittorio Cgil, uno dei primi a uscire sul tema, ha stimato che nel periodo della pandemia sono stati attivati oltre 8 milioni e mezzo di accordi di lavoro agile ed è lo stesso studio, condotto attraverso un questionario online compilato da 6.170 persone, a rivelarci che il 60 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici che hanno risposto, dichiarava di voler proseguire l'esperienza di smart working anche dopo l'emergenza. Nonostante le difficoltà sperimentate sia nell’esecuzione delle proprie mansioni (digitalizzato il lavoro cambia formato, l’impoverimento della parte cooperativa e relazionale è quello lamentato come più problematico), sia  nella gestione del sistema di interferenze vita di casa - vita lavorativa (difficoltà particolarmente pesante che ha trovato soluzioni ripristinando norme di genere mai veramente superate), la possibilità di adottare un modello di lavoro agile, modulare  e articolato e che prevede forme di autogestione sembra rientrare nelle prospettive di molti lavoratori e lavoratrici dipendenti.  

E’ un interesse da leggere fra le righe che non sottostima la necessità di arrivare a un sistema di regole chiare e un’organizzazione adeguata, che equilibri diritti e doveri e metta in circolo, redistribuendoli, i guadagni che sembrano evidenti da parte delle Aziende (diminuire la presenza dei dipendenti in sede diminuisce i costi, va da sé), ma una volta sperimentato, lo smart working si è reso desiderabile, pur con tutte le sue eventuali difficoltà.

Le motivazioni in molti casi sono relative alla fatica degli spostamenti, soprattutto nelle grandi città, ma non sono le uniche. Se leggiamo in profondità quello che emerge dai sondaggi e dalle esperienze non è difficile capire che il desiderio di lavorare a distanza risponde a una logica di sottrazione, a un bisogno di rallentare. 

La possibilità di ridurre i giorni di lavoro in presenza per molti e molte è in linea con il tentativo di aggiustare l'agenda settimanale in modo da renderla più compatibile con il ritmo (comunque accelerato) dei giorni. 

L’idea è quella di provare a recuperare un po’ di tempo sottraendosi agli obblighi del cartellino.

Gli entusiasti – da parte aziendale - vedono all'orizzonte un nuovo tipo di lavoratore/lavoratrice, più indipendente e autonomo, desideroso di un diverso rapporto con il lavoro, capace di usare le tecnologie, intollerante verso le forme di controllo, pronto ad instaurare un legame di collaborazione con i propri superiori e a misurarsi con un lavoro rivisto ad obiettivi (tutti i manuali di management aziendale che parlando di smart working vanno in questa direzione).

Ma forse la cosa si può leggere anche diversamente. 

Lavoratori e lavoratrici dipendenti sono alle prese con l’invenzione, in proprio, di un nuovo modello lavorativo che insiste sulla presa di distanza, correndo i rischi necessari. 

Francesca Coin dice qualcosa a proposito delle "grandi dimissioni" (un fenomeno soprattutto statunitense ma che ha i suoi risvolti anche da noi) che possiamo applicare anche a questo “desiderio di smart working”: una forma di exit individuale, l'unico possibile, da un modello produttivo che non è possibile cambiare altrimenti. 

Lo sfilarsi individuale (attraverso le dimissioni ma non solo) segnala il punto limite di un modello che ha progressivamente preteso di più dai singoli individui attraverso un’ideologia che sottostima le condizioni concrete dei lavoratori incoraggiandoli a riferirsi a valori (di cui oggi è chiaro il portato ideologico) che motivano a dare di più, a impegnarsi, a reggere il gioco. Parole che sono entrate a far parte del nostro linguaggio relativamente alla costruzione del profilo di lavoratore tipico, capace di investimento, spesa di sé, responsabilità, obbligato a muoversi in un regime di visibilità, di valorizzazione delle competenze, di curriculum. 

La studiosa individua nel panorama di movimenti individuali e collettivi che stanno portando a nuovi stili di lavoro, un punto di rottura del modello che si è costruito nel tempo attraverso la richiesta di disponibilità, fedeltà, identificazione.

La cosa è controversa. Lavorare per obiettivi, infatti, può avere anche il controeffetto di produrre un legame più forte e pervasivo al lavoro, di lasciare i singoli ancora più soli a rispondere alle esigenze di organizzazioni e datori di lavoro a distanza, ma ugualmente capaci di determinare le condizioni complessive in cui si realizza la prestazione lavorativa. 

Ora che il lavoro si sta riprendendo la casa serve un ripensamento collettivo, un modo diverso di organizzare i tempi e i lavori di tutti. Potrebbe essere l’occasione per prendere sul serio la critica femminista che da oltre due secoli mostra i limiti della sistematizzazione sociale e politica delle diverse sfere dell’agire, potrebbe essere l’ora per rendersi conto, detto diversamente, di tutto il lavoro che serve per vivere, prima che il mercato ci spinga tutti nei nostri spazi post-domestici (Bassanelli 2022).

 

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14/12/2022
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