Magistratura democratica
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Città e lavoro (parte II)

di Carla Ponterio
consigliere della Corte di cassazione

Il testo riproduce l’intervento alla sessione Città e lavoro, a cui hanno preso parte anche Rita Sanlorenzo e Sandra Burchi, nell’ambito del Festival Parole di giustizia intitolato Una città per pensare svoltosi a Pesaro, Fano e Urbino tra il 20 ed il 23 ottobre 2022

1. Il titolo di questo seminario, Città e lavoro, evoca tante immagini, alcune delle quali ormai relegate nel nostro passato e non più attuali. Ci rimanda ai luoghi, agli orari, ai tanti modi in cui il lavoro si intreccia con la città e, più esattamente, con la vita di una città.

Il traffico mattutino delle persone che si recano a lavoro, le luci accese negli uffici nei pomeriggi d’inverno, le uscite di massa dalle fabbriche, gli scioperi dei lavoratori che invadono e bloccano le strade cittadine.

Da alcuni anni a questa parte ci capita molto raramente di assistere alle uscite di massa dalle fabbriche e ancora meno di assistere ai cortei di lavoratori in sciopero. C’è invece una nuova figura di lavoratore che è molto visibile proprio sulle nostre strade, in qualsiasi angolo, a tutte le ore e con ogni condizione atmosferica: la figura del rider.

I tanti giovani, di diverse nazionalità, a bordo tradizionalmente di biciclette, che questa figura soprattutto hanno personificata, hanno lavorato per alcuni anni in una condizione in cui tutti li vedevamo, ma era come se per l’ordinamento giuridico non esistessero.

Il nostro sistema giuridico, costruito prevalentemente su rigide classificazioni e fattispecie generali anziché sui bisogni di tutela, sembrava ignorare questi lavoratori: o meglio, faceva fatica a qualificarli come tali e quindi a riconoscere ad essi qualche forma di protezione. 

La difficoltà nasceva dal fatto che questi giovani lavoravano per società aventi sede chissà dove, a cui erano collegati tramite uno smartphone, non avevano orari da rispettare, non ricevevano ordini da nessuno, non erano controllati e non erano in fondo neanche obbligati a lavorare, anzi erano liberi di scegliere se lavorare e quando farlo: almeno così sembrava.

Quando i giuristi del lavoro hanno cominciato a riflettere su queste figure di lavoratori, hanno prodotto decine e decine di articoli e commenti, ne hanno fatto oggetto di discussione in molti convegni e si sono ben presto divisi tra chi li considerava lavoratori autonomi, chi pensava dovessero qualificarsi come lavoratori subordinati, e chi riteneva percorribile una terza via che conduceva al lavoro eterorganizzato, ennesima categoria introdotta dal cd. Jobs Act.

L’aspetto più allarmante nelle discussioni giuridiche era la pretesa di classificare i rider come lavoratori autonomi, quindi senza padroni e senza vincoli di alcun genere, sul rilievo che essi fossero liberi di scegliere se lavorare o non lavorare, liberi di scegliere se stazionare per ore davanti a ristoranti e pizzerie o impiegare diversamente il tempo, così non riuscendosi a intravedere, dietro a quella “libertà” di lavorare o non lavorare, lo spettro assillante e fisso del bisogno di lavorare, a qualsiasi costo e in qualunque condizione.

Eppure, se solo si pensasse ai caporali che reclutano i lavoratori in agricoltura o in edilizia, si vedrebbe che anche in quel caso nessuno obbliga gli operai a presentarsi in piazza al mattino presto per essere selezionati e avviati sui campi o nei cantieri. Nessuno però oserebbe dubitare della condizione di subordinazione, visto che quei lavoratori lavoreranno per un padrone, nei luoghi e nelle ore che questi deciderà, e che la loro libertà di presentarsi o meno in piazza al mattino presto non è libertà e non è autonomia, ma risponde ad un drammatico bisogno su cui alligna e prospera lo sfruttamento illegale.

 

2. Dopo aver lavorato per diverso tempo senza alcuna tutela, gestiti da una piattaforma invisibile al mondo del lavoro, i rider hanno cominciato a rivendicare alcuni diritti. Risale al 2016 la prima causa da essi proposta dinanzi ai giudici di Torino nei confronti di una delle tante società che gestiscono piattaforme.

In breve tempo, in Italia, in molti altri Stati ed anche dinanzi alla Corte di Giustizia Europea, si sono moltiplicati i processi instaurati nei confronti delle piattaforme. Nei processi si è discusso della natura giuridica delle piattaforme che pretendevano di essere considerate meri intermediari tra il cliente finale e il singolo autista o fattorino. È invece prevalsa la loro qualificazione come organizzazioni imprenditoriali e, di conseguenza, la classificazione dei lavoratori abituali tramite piattaforme come subordinati o figure simili o intermedie, in base alla normativa dei diversi paesi (ad esempio workers, secondo il diritto del Regno Unito). 

Finalmente, nel 2019 il nostro legislatore è intervenuto con il decreto legge n. 101 che ha integrato il decreto legislativo n. 81 del 2015, introducendovi il capo V bis recante norme per la “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”. Con pochi articoli sono stati previsti livelli minimi di tutela per i lavoratori anche saltuari impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore, attraverso piattaforme digitali. 

Sono stati riconosciuti a questi lavoratori garanzie fondamentali per la dignità di qualsiasi lavoro, come il diritto ad un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari previsti dai contratti collettivi nazionali di settori affini, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale; il diritto alle indennità per il lavoro notturno, festivo o in condizioni meteorologiche sfavorevoli. Si è espressamente dichiarata applicabile nei loro confronti la normativa antidiscriminatoria e si è estesa ad essi la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Invocando tali disposizioni, nel corso della pandemia alcuni rider si sono rivolti ai giudici del lavoro ed hanno ottenuto provvedimenti urgenti con cui si è ordinato alle piattaforme di fornire loro i dispositivi individuali di protezione contro il rischio Covid-19, come guanti, gel igienizzanti e prodotti di pulizia dello zaino.

Anche la giurisprudenza penale ha fatto la sua parte. il Tribunale di Milano, ad esempio, ha disposto come misura di prevenzione l’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy srl in relazione al delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, previsto dall’art. 603 bis del codice penale, commesso ai danni di rider reclutati tra persone in condizioni di fragilità, in quanto ospiti di centri di accoglienza in attesa del riconoscimento di forme di protezione internazionale, e retribuiti con paghe di 3 euro a consegna.

I rider hanno anche sperimentato, in Italia e altrove, forme di autorganizzazione sindacale, cercando di richiamare l’attenzione delle città sulle loro condizioni di lavoro e tali iniziative sono sfociate in alcuni risultati positivi anche nel nostro Paese, come la sottoscrizione il 31 maggio 2018 della Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano da parte del Comune di Bologna, di Riders Union Bologna, Cgil, Cisl, Uil e da parte delle piattaforme bolognesi di food-delivery Sgnam e MyMenù.

 

3. Una importante presa d’atto dei bisogni di tutela del lavoro tramite piattaforme è avvenuta da parte delle Istituzioni europee. 

Nel dicembre 2021 la Commissione Europea, dando seguito agli impegni politici assunti per l’attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, ha adottato una Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro svolto mediante piattaforme digitali.

La Proposta di direttiva abbraccia le differenti categorie dei lavoratori delle piattaforme, sia quelli che svolgono il loro lavoro nel mondo fisico, come gli autisti dei servizi di trasporto a chiamata o coloro che consegnano il cibo o altre merci a domicilio (rider), e sia coloro che, da qualsiasi parte del globo, rendono prestazioni esclusivamente on line, fornendo servizi come traduzioni, codifica di dati, design ecc. Un lavoro, quest’ultimo, assolutamente nascosto, privo di qualsiasi dimensione relazionale in senso fisico.

Secondo i dati della Commissione europea, attualmente il lavoro mediante piattaforme digitali interessa oltre 28 milioni di persone nell'UE, per lo più appartenenti alle giovani generazioni.

La Proposta di direttiva enumera vari aspetti positivi del lavoro tramite piattaforme digitali, tra cui, ad esempio, la capacità di abbinare efficacemente l'offerta e la domanda di lavoro, di agevolare l’accesso al lavoro anche delle persone che incontrano più difficoltà come i giovani, le persone con disabilità, i migranti, coloro che hanno responsabilità di assistenza. In un’ottica più generale, le piattaforme sono in grado di offrire alle imprese un ventaglio più ampio di consumatori e consentono a questi ultimi di procurarsi prodotti e servizi altrimenti difficili da ottenere. 

Nello stesso tempo, la Proposta di direttiva riconosce senza mezzi termini che i lavoratori delle piattaforme sono particolarmente esposti al rischio di cattive condizioni di lavoro, percepiscono mediamente una retribuzione inferiore al salario minimo, trascorrono diverse ore alla settimana svolgendo compiti non retribuiti (ad es., in attesa di incarichi) e sono sostanzialmente privi di forme di protezione sociale contro gli infortuni sul lavoro, la disoccupazione, la malattia e la vecchiaia.

Il progetto di direttiva individua alcune linee fondamentali di intervento a tutela dei lavoratori delle piattaforme. Introduce una presunzione relativa al fine di agevolare la corretta qualificazione dei rapporti di lavoro come subordinati, con tutto il corredo di garanzie a ciò connesso. Si propone poi di aumentare la trasparenza nella gestione algoritmica dei rapporti di lavoro, prescrivendo obblighi di informazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti sui processi decisionali e di monitoraggio automatizzati e riconoscendo ai lavoratori il diritto di contestare le decisioni frutto dell’intelligenza artificiale. Gli articoli 7 e 8 della Proposta in esame hanno cura di prevedere rispettivamente il “monitoraggio umano dei sistemi automatizzati” e il “riesame umano di decisioni significative”, espressioni che da sole evocano la dimensione disumanizzata delle nuove forme di lavoro, se è vero, come è vero, che siano necessarie specifiche disposizioni perché sia garantito un intervento umano nella gestione del rapporto con i lavoratori.

Le nostre città sono ormai costantemente popolate da rider, in numero sempre più elevato. Questo significa, anzitutto, che la domanda di lavoro dei rider è molto alta e ciò favorisce forme di sfruttamento da parte delle piattaforme, secondo meccanismi non dissimili rispetto a quanto accade per il caporalato in agricoltura o in edilizia.

 

4. Il fenomeno dei rider ci conduce ad un’altra riflessione, che coinvolge la vita delle persone, il lavoro delle persone e la tendenza, acuita dalla esperienza pandemica, alla chiusura tra le mura domestiche. È sempre più frequente il ricorso ai ciclofattorini che ci portano a casa tutto quello che vogliamo ed è sempre più rarefatta la nostra partecipazione alla vita cittadina e sociale in senso lato.

La pandemia ci ha ricacciato tutti in casa, ci ha costretto per alcuni lunghissimi mesi a rinchiuderci nello spazio domestico, ci ha imposto di evitare contatti con altre persone e ci ha abituarci al distanziamento sociale. Tutto questo ha amplificato ed esasperato alcune dinamiche che possiamo definire, in modo generico, di recessione dalla vita sociale e dalla dimensione del sociale. 

Nel mondo del lavoro la necessità e la tendenza all’isolazionismo hanno preso il nome di smart working oppure di lavoro agile o a distanza.

Il nostro ordinamento, fin dal 2008 ed esattamente col testo unico sulla sicurezza del lavoro (decreto legislativo n. 81 del 2008), ha disciplinato il lavoro a distanza, dettando alcune misure di prevenzione a tutela della salute dei lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico, compreso il telelavoro. 

L’istituto del lavoro agile è stato invece introdotto dal legislatore nel 2017 (legge n. 81 del 2017) e prima era regolamentato solo a livello di contrattazione collettiva, ma di esso si era parlato pochissimo fino al 2020, quando appunto il Covid-19 ci ha costretto ad una repentina esperienza su larga scala.

Secondo i dati Istat, prima del 2020 a lavorare abitualmente da remoto era una ristretta minoranza di lavoratori, circa il 3-4% in Italia e il 5% in Europa, mentre nella primavera del 2020 il lavoro da casa ha coinvolto oltre quattro milioni di lavoratori.

La legge definisce il lavoro agile come un modo di esecuzione del lavoro subordinato, svolto in parte nei locali aziendali e in parte all’esterno, senza precisi vincoli di luogo e di orario. 

Già questa definizione ci dimostra che il lavoro agile si distingue nettamente dai suoi predecessori, come il lavoro a domicilio o il telelavoro, svolti unicamente presso l’abitazione del lavoratore, quindi sempre al di fuori della sede aziendale. 

La legge del 2017 individua un duplice scopo del lavoro in modalità agile: incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro.

In realtà, il lavoro agile ha cambiato volto strada facendo e, specie durante la pandemia, si è arricchito di tante altre finalità ed ha trovato applicazione secondo un regime derogatorio rispetto all’originario testo legislativo, diventando, anche dal punto di vista lessicale, sinonimo di un modo di lavorare da remoto e, per lo più, da casa. Gli stessi d.p.c.m. che ci hanno accompagnato dal 2020 in poi usano indifferentemente le espressioni di lavoro agile e di smart working

Nei mesi del lockdown e per molto tempo dopo, il lavoro da casa è risultato un rimedio importante per consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa in diversi settori. Costrette a sperimentare questa nuova modalità di lavoro, le aziende hanno cominciato ad apprezzare la possibilità di risparmio di costi e in molte realtà il lavoro da remoto è diventato ed è tuttora un modo ordinario di lavorare. Le città hanno scoperto gli effetti benefici legati alla riduzione degli spostamenti e quindi del traffico nelle ore di punta e così il lavoro agile è diventato un utile rimedio contro l’inquinamento ambientale e un valido strumento per migliorare la vivibilità dei centri urbani. Sotto altro aspetto si è riconosciuto che il lavoro da casa agevola la partecipazione alla vita lavorativa delle categorie fragili ed anche delle persone con figli minori o disabili o anziani da assistere. Oggi lavorare da casa sembra essere un rimedio utile anche contro la preoccupante crisi energetica.

Insomma, una panacea per tanti mali.

Ma accanto a indubbi profili positivi, si nascondono non poche ombre.

 

5. Anzitutto, il lavoro agile non riguarda gli operai, coloro che sono addetti al ciclo produttivo in senso fisico, ma solo chi può svolgere la propria prestazione attraverso l’uso di un computer. E’ quindi una modalità di lavoro di per sé selettiva.

Il legislatore del 2017 ha immaginato il lavoro agile come regolamentato, nei suoi aspetti concreti, da un accordo individuale tra datore e lavoratore, senza l’intermediazione sindacale, pensando evidentemente a lavoratori dotati di un forte potere contrattuale.

Nella disciplina legislativa, concentrata in pochi articoli, restano incerti i contenuti di questa modalità di lavoro, probabilmente per la difficoltà pratica di ritagliare spazi di autonomia in un rapporto che resta comunque di natura subordinata e quindi caratterizzato, secondo le rigide classificazioni giuridiche, da penetranti poteri di direzione e controllo a cui corrispondono altrettanti obblighi.

Le implicazioni legate alla sovrapposizione della disciplina emergenziale su quella ordinaria e la necessità di armonizzare il lavoro agile con le altre forme di lavoro a distanza previste dal nostro ordinamento sono probabilmente alla base della scelta governativa di costituzione, nel dicembre 2021, di un Gruppo di Studio sul lavoro agile, cui è seguita la sottoscrizione tra il Ministro del Lavoro e le parti sociali di un Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile destinato a fornire un quadro di riferimento per la futura contrattazione collettiva, nazionale, aziendale e/o territoriale.

Il Protocollo affronta molteplici aspetti del lavoro agile provvedendo, anzitutto, a colmare il vuoto del testo legislativo inserendo il riferimento alle previsioni dei contratti collettivi. 

Tra i vari aspetti che il Protocollo analizza, ve ne sono alcuni che meritano particolare attenzione, specie nel contesto di questo seminario che ci porta a riflettere sui luoghi di lavoro e sulle implicazioni che da essi discendono per la vita cittadina e per la vita di ciascuna persona.

Il fronte più delicato ed anche promettente su cui il lavoro agile può agire è quello di consentire alle persone in condizioni di fragilità o disabilità di lavorare o di continuare a lavorare. 

La legislazione emergenziale ha previsto per alcune categorie di lavoratori maggiormente fragili un vero e proprio diritto di lavorare da casa e, in altri casi di minore fragilità, una semplice priorità nell’usufruire di tale forma di lavoro, e in tale ambito la sperimentazione avviata per far fronte al rischio pandemico ci ha comunque indicato un percorso necessario verso l’obiettivo partecipativo enunciato dal secondo comma dell’art. 3 della Carta Costituzionale. 

Con il Protocollo, le Parti sociali si sono impegnate a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole, secondo l’espressione utilizzata nella giurisprudenza eurounitaria ed anche nazionale in un’ottica di inclusione dei lavoratori svantaggiati.

Un altro aspetto del lavoro agile su cui è ancora grande la confusione è quello del diritto alla disconnessione, già di difficile definizione.

Il legislatore del 2017 non ha mostrato una chiara consapevolezza dei problemi connessi alla dimensione del tempo, dell’orario e dei riposi nel lavoro agile ed ha dettato norme poco chiare e neanche ben coordinate con la legislazione nazionale e eurounitaria sul tema.

Sul diritto alla disconnessione il legislatore è ritornato con il decreto-legge 13 marzo 2021, n. 30, poi convertito, riconoscendo al lavoratore che svolge attività in modalità agile il diritto di disconnettersi dalle  strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme  informatiche,  fatti  salvi  eventuali periodi di reperibilità concordati, e statuendo espressamente che l'esercizio  di tale  diritto  sia necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore e non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi. 

Il Protocollo ha previsto che la prestazione di lavoro in modalità agile possa essere articolata in fasce orarie, dovendosi in ogni caso individuare la fascia di disconnessione i cui il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa.

Questa soluzione porta a considerare orario di lavoro anche il tempo in cui il lavoratore agile è obbligato ad essere telematicamente connesso, e in tal senso è la disciplina prevista da buona parte della contrattazione collettiva aziendale sul lavoro agile. 

Il diritto alla disconnessione, che suggerisce l’idea di un lavoro invadente, da cui occorre proteggere gli spazi di vita personale e familiare, ci porta ad un’altra importante riflessione, che intercetta il tema della sicurezza in senso lato dei lavoratori, intercetta la finalità enunciata dalla legge di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e l’importanza della dimensione sociale dell’individuo e del lavoro in sé.

 

6. E’ fuor di dubbio che il lavoro a distanza possa costituire una opportunità, oltre che per le persone fragili o disabili, anche per i lavoratori con problematiche condizioni familiari e sociali (lavoratori-genitori di figli pre-adolescenti o disabili, lavoratori con obblighi di assistenza di persone anziane o disabili) e in questo ambito il lavoro agile può certamente facilitare la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita (o forse bisognerebbe dire, con maggiore realismo, di cura) e accrescere il benessere dei soggetti coinvolti.

In ogni caso, il lavoro agile, grazie a una riduzione degli spostamenti, consente di rimuovere una fonte di stress, di liberare tempo indirettamente legato al lavoro che può così essere utilizzato per altre attività; può facilitare l’organizzazione degli impegni lavorativi e non lavorativi in un modo più consono alle esigenze individuali e familiari; può essere efficace in un’ottica di superamento dei divari di genere, favorendo la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e può quindi costituire un fattore di integrazione lavorativa e contrastare il fenomeno di abbandono del lavoro, con tutto quanto ciò comporta in termini non solo economici ma di sviluppo della dimensione professionale e sociale di ogni persona.

Tuttavia, la conciliazione tra vita privata e vita professionale corre su un crinale molto sottile e il rischio di sconfinamento dell’uno o dell’altro segmento nello spazio da cui dovrebbe stare fuori è, purtroppo, assai concreto così come delicate e complesse possono esserne le conseguenze. E l’esperimento che è stato condotto, forzatamente e improvvisamente, nella fase pandemica ci ha fornito importanti dati al riguardo.

Come è scritto nella Relazione finale del Gruppo di studio, la “domiciliarizzazione” del lavoro agile, infatti, può incidere fortemente sulle relazioni sociali, rappresentando una potenziale «fonte di isolamento sociale e di esclusione dal tessuto relazionale che, in diversa misura in base agli specifici contesti lavorativi e ai ruoli/mansioni dei singoli soggetti, caratterizza, invece, il lavoro in presenza. Le ricadute (in termini di possibilità di carriera, salute, discriminazioni, ecc.) sono evidenti e le criticità investono soprattutto la componente femminile interessata dal lavoro agile».

C’è il rischio che si realizzi, in qualche misura, un effetto paradossale per cui il lavoro in modalità agile, o a distanza in senso lato, che la stessa legge prospetta come misura volta ad «agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» e che più volte è invocato quale risorsa e opportunità per l’equilibrio tra la vita familiare e l’attività professionale (v. Direttiva 2019/1158/UE), può recare in sé un fattore di rischio, per la salute delle lavoratrici e dei lavoratori, direttamente connesso alla concreta difficoltà di quella conciliazione, specie per coloro su cui gravano i compiti di cura (nel caso italiano, prevalentemente le lavoratrici), in un contesto sociale, ed anche normativo, in cui l’obiettivo della pari distribuzione dei compiti di genitorialità a assistenza è ancora lontano da realizzarsi. 

Con tutte le ricadute che la distorsione appena descritta potrebbe produrre, sia in termini di stress lavoro correlato (art. 28, d.lgs. n. 81 del 2008), per le disfunzioni organizzative che si vengono a creare sui due piani, quello lavorativo e quello familiare, con dilatazione degli orari di lavoro e riposi insufficienti; sia in termini di conseguenze discriminatorie riguardo al genere, per gli inevitabili riflessi sulla produttività e sulle prospettive di sviluppo professionale e di carriera.

La legge n. 81 del 2017 non sembra cogliere questa complessità ed anzi presenta il lavoro agile come strumento conciliativo in sé, ma così facendo trascura i pericoli di una commistione che potrebbe rivelarsi non sana tra la sfera privata e quella professionale e di una compressione della dimensione sociale e relazionale dell’individuo, che ci riporta alla sede di lavoro o al concetto di città come luogo delle relazioni sociali, e quindi alla necessità di un legame tra il lavoro e la città in senso lato.

Nel Protocollo più volte citato e nella relazione di accompagnamento si è posto particolarmente l’accento su questo aspetto provando a immaginare una città in cui il lavoro possa integrarsi nel tessuto cittadino, senza un negativo impatto ambientale, ad esempio attraverso la creazione di spazi di coworking, di quartiere o di zona, o in alcune periferie, perché appunto lavoro e città, che significa lavoro e contesto relazionale e dimensione sociale, possano continuare a camminare insieme.

28/11/2022
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