Magistratura democratica
Magistratura e società

La lezione di "Faber" sulla giustizia

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro

Una recensione a R. Caruso, Alla Stazione successiva. La giustizia, ascoltando De André (Edizioni San Paolo, 2023)

Alla stazione successiva è un libro che ho sempre aspettato di avere tra le mani. 

Nelle sue pagine c’è un vero e proprio “corpo a corpo” con la poetica di De André in tema di giustizia, missato a brani di biografia dell’autore: «Io, il figlio del sarto, avvocato per caso, ho sempre sentito addosso il compito di mettere insieme, di cucire». A sfogliarlo, si incontrano riflessioni sulle canzoni di Fabrizio De André e sulla dimensione giuridica dei suoi testi, imbastite con spezzoni di vita professionale e familiare dell’avvocato penalista. Tutto il libro chiama in gioco di continuo, oltre al vissuto profondo dello scrittore, le emozioni e le esperienze del lettore, soprattutto di quello che condivide con l’autore due condizioni: la passione per le visioni di De André e, in un modo o nell’altro, il lavoro con gli arnesi del diritto. 

Nel mio caso, a queste condizioni se ne aggiunge un’altra. Ho svolto per tanto tempo il lavoro di giudice a Tempio Pausania. Il dato è del tutto irrilevante, se non fosse che Tempio Pausania è la cittadina della Sardegna dove Dori Ghezzi e Fabrizio De André avevano scelto di vivere, in quello stazzo dell’Agnata nel quale, il 29 agosto 1979, «il silenzio della casa venne rotto dai passi dei tre sequestratori». L’Agnata – l’angolo riparato, in dialetto gallurese – è ancora lì, popolata dai libri sottolineati e chiosati da Fabrizio, immune a ogni colonizzazione culturale nonostante la rifunzionalizzazione turistica. A poca distanza da quella località, sull’altro versante della statale che conduce al lago Coghinas, vi è ora un carcere di alta sicurezza. Il nome ufficiale è “Casa di Reclusione Paolo Pittalis”, ma per tutti è il carcere di Nuchis, una fortezza tetragona che dal 2012 ha sostituito la Rotonda – il piccolo carcere domestico dei tempi in cui De André camminava per le strade di Tempio – e adesso ospita molti condannati all’ergastolo ostativo, per i quali, nonostante le sentenze della Corte costituzionale e le recenti modifiche normative, il muro di cinta continua a essere spesso invalicabile a vita. I due luoghi, quell’angolo di germinazione delle potenti immagini dedicate agli ultimi (e tra questi, i detenuti) e la prigione degli ergastolani senza (o quasi) diritto alla speranza, generano una sorta contrappunto ideale e urbanistico, di cui sono testimone quotidiano. Sembra che inscrivano nel paesaggio il dissidio interiore di chi, con la toga dell’avvocato o del giudice, si trova di frequente a misurare lo scarto tra l’inesorabilità della legge e le potenzialità di cambiamento delle persone; di chi, impegnato nelle aule di giustizia, è costretto a verificare la distanza, a volte piccola a volte grande, tra i doveri che «lo scettro del Re» deve portare a compimento e il grido perenne di Antigone, che continua a rivendicare  la non anticipabilità e catalogabilità dell’essere umano. Questa contrasto, riflesso nel territorio tempiese, percorre i ragionamenti del libro e, in maniera inevitabile, i pensieri di chi si pone una domanda inevitabile: cosa racconta De André al giurista?

 

È una contraddizione lacerante quella che, a volte, si vive immersi nella giurisdizione, soprattutto penale e penitenziaria. Per descriverla, ancora oggi, non trovo parole più efficaci di quelle che Franco Basaglia riservava al lavoro nelle istituzioni della psichiatria: «Finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia è messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito». Ecco, direi che tutto il libro di Raffaele Caruso si fa carico con lucidità del bagaglio di angoscia e di domande che quella contraddizione porta alla luce quando è sperimentata nel campo della giustizia, quando al camice si sostituisce la toga. È possibile, si chiede l’autore alla fine del viaggio attraverso le canzoni del cantautore genovese, delineare «un manifesto di giustizia, di critica alla legge, di censura al sistema del giudizio dell’uomo sull’uomo, fino a giungere alla richiesta di una giustizia che abbracci il volto "dei servi disobbedienti alle leggi del branco"»? Si possono mettere tra parentesi il reato e la fattispecie, per provare a capire più a fondo i grandi problemi della vittima e le aspirazioni del condannato? 

Nella sfidante prefazione di Mons. Antonio Staglianò si ritrova il medesimo interrogativo: è «riconoscibile come “umana” una “ermeneutica intellettuale”, asettica e sillogistica», tutta basata su una «concezione della neutralità del punto di vista nell’interpretare la giustizia, senza affetti o sentimenti»? 

Sono questioni che, capitolo dopo capitolo, zampillano da un dialogo con i testi di Fabrizio De André. Una conversazione intima che non pretende di fornire l’esegesi autentica delle parole del cantautore, né di canonizzare l’idea di giustizia di quest’ultimo. Si potrebbe dire, con i versi di un altro gigante della musica, che Raffaele Caruso è ben consapevole che «il pensiero come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare». 

 

Il sentiero imboccato dall’autore, seguire le orme di De André per interrogarsi sul senso della giustizia e sui suoi limiti, ha un merito enorme e non scontato: accettare come punto di partenza tutta la scomodità dell’opera di Faber, l’intera radicalità di un’intelligenza che non ha mai tradito «signora libertà» e «signorina fantasia» ed è arrivata alla conclusione «che non ci sono poteri buoni», neppure quello dei giudici. Nessun tentativo di rendere docile l’irrequietezza anarchica di De André, di addomesticarla a uso e consumo della buona coscienza dei contestatori di maniera, di confinarla in «quel pauperismo paternalistico e intriso di moralismo con cui per molto tempo tanti poveri si sono misurati – e a volte devono ancora misurarsi – di fronte a chi li sta aiutando: "come ti senti amico fragile? Se vuoi posso occuparmi un’ora al mese di te"». Troppe volte abbiamo visto agire questa retorica riduzionista che, nel denunciare a metà, legittima gli obiettivi polemici che intende combattere. Ancora una volta la penalità penitenziaria è uno specchio della situazione: è sufficiente aprire molti giornali liberal per vedere, accanto al lamento formale per un carcere più umano, l’incessante operare della rappresentazione mostrificata dei condannati, che giustifica il carcere duro, disumano. 

Raffaele Caruso accetta di confrontarsi a tutto tondo con lo scandalo di una poeta spesso urticante, ma capace come nessun altro – rubiamo le parole alla postfazione di Roberto Cornelli – di «guardare l’umanità che trasborda dai confini di qualsivoglia progetto di ingabbiamento della società nel diritto». Chiuso il libro – un percorso che dal Pescatore arriva sino a Smisurata preghiera, ultima traccia di Anime Salve e ultima voce che abbiamo sentito di Fabrizio –, ci si ritrova nella certezza che De André sia stato l’intellettuale italiano più immediato nel disvelare e comunicare il paradosso di una legalità troppe volte pretesa solo da coloro a cui è stata resa impossibile o molto difficile nella vita. Una legalità a senso unico, schiacciata su un solo lato della medaglia. «Non desiderare la roba degli altri/Non desiderarne la sposa/Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi/Che hanno una donna e qualcosa», ripetono le strofe del Testamento di Tito: una sequenza fulminea che coglie in modo mirabolante e profetico la parabola delle democrazie contemporanee dallo stato sociale allo stato securitario, dalla prevenzione e soluzione dei conflitti attraverso la soddisfazione dei bisogni alla repressione poliziesca e carceraria, dalla politica al diritto penale. La traiettoria del diritto all’abitare e dei movimenti per difenderlo, la lotta dei lavoratori della logistica, l’impegno dei soccorritori in mare raccontano questa storia: alla mancata tutela del diritto del più debole, alla mancata attivazione di una camera di compensazione sociale del conflitto, al tradimento di una promessa costituzionale hanno fatto spesso seguito l’incriminazione e la repressione di chi si batteva per difenderlo. 

E i giudici? Cosa hanno da offrire a fronte di questa pittura del “fare giustizia”? Possono prendere lezione da chi più di tutti li ha messi alla berlina, con testi originali o derivati dai poeti e chansonnier più amati e frequentati? 

Forse, oggi, è più facile rispondere. In qualche misura le critiche hanno fatto breccia, la magistratura ha molte volte dimostrato di sapere obbedire soltanto alla Costituzione e di rifiutare la soggezione al palazzo. Pezzi graffianti come Il Gorilla (1968) o Un giudice (1971) erano stati scritti in un’epoca diversa: la struttura gerarchica, come sottolineava Franco Cordero, orientava ancora il codice genetico della magistratura nonostante l’entrata in vigore della Costituzione; i vertici del corpo professionale esprimevano culture vicine a quelli dei poteri dominanti e, tramite il meccanismo selettivo dei concorsi, imprintavano a cascata la giurisdizione; l’associazionismo giudiziario iniziava allora a spiegare le sue ali, provando a spezzare l’isolamento di quei giovani magistrati che, a partire dell’affermazione dell’indipendenza e uguaglianza interna, intendevano scongelare la Costituzione e liberare i diritti. Tuttavia, per un giudice che voglia mantenersi fedele al compito della Repubblica di promuovere i diritti e rimuovere gli ostacoli, i rischi di nanismo («Dietro ogni giudice c’è un nano», era il sottotitolo di Un giudice, per cautela rimosso dai produttori) continuano a essere dietro l’angolo, «perché è nanismo – avverte l’autore – affrontare la giustizia avendo timore della realtà». Viviamo in un’epoca sempre più complessa da decifrare. Nuovi diritti vengono plasmati dal superamento conflittuale di antichi miti, spesso coperti dal dogma della scientificità (soprattutto di quella scienza interessata, di quella «che non puoi regalarla alla gente»): i diritti delle famiglie e dei minori delle coppie omogenitoriali, quello a autodeterminarsi in relazione alla fine della vita, il diritto universale a un ambiente sano e pulito contro la minacce del cambiamento climatico, della perdita delle biodiversità, dell’inquinamento, la libertà di fronte alla sorveglianza tecnologica, le tutele antidiscriminatorie; altri, più vecchi e che si credevano stabilmente acquisiti, mostrano di colpo la loro fragilità. Basti pensare al diritto a vivere in pace. 

A fronte di questi scenari i magistrati sono davanti a un bivio: innestare la ridotta, chiudersi nel mito della neutralità formalistica che opacizza la trasparenza delle motivazioni e delle scelte, vivere di rendita attraverso la perpetuazione del precedente ed essere gratificati dal dispensare in terra il bene e il male; oppure provare a conoscere la realtà delle relazioni umane e sociali, decrittare i bisogni dietro le domande, raschiare via le concrezioni ideologiche che, come la roccia madre, impediscono di percepire la limpidezza e la caratura del diritto. Se la strada che si sceglie è la seconda, si devono mettere in conto le difficoltà: cercare lo spazio interpretativo adeguato, trovare gli interstizi normativi per offrire risposte giudiziarie all’altezza dei fatti – interessante, in proposito, l’analisi che il volume fa dei nuovi strumenti di giustizia riparativa –, sottoporre i propri argomenti a continue prove di resistenza, invocare l’intervento delle Corti costituzionali e convenzionali, rivoluzionare il linguaggio giuridico per renderlo «meno intellettualistico e più corporeo» (ancora le parole di Mons. Staglianò). Anche l’errore di oggi può essere la norma di domani. La giustizia, come ripete un Jacques Derrida più volte ripreso nel volume, è sempre a venire. Anche quando ci sembriamo appagati dell’oggi, quando pensiamo di essere alla fine del viaggio o della storia, bisogna rimettersi in marcia verso «la stazione successiva», allo stesso modo di Bocca di rosa. Sta anche qui la funzione regolativa di un’idea di giustizia che, rimanendo meta da raggiungere, obbliga al cammino. 

Un cammino in cui bisogna accettare, in primo luogo, la possibilità non infrequente di essere contromaggioritari, di imboccare quella «direzione ostinata e contraria» che non è un capriccio, e neppure un’«anomalia», ma un «dovere» (per restare all’ossimoro di Smisurata preghiera) richiesto, quando necessario, dall’art. 1 della Costituzione: la sovranità, anche quella popolare, si esercita nei limiti e nelle forme della Costituzione. È questo il senso ultimo del garantismo. 

Mettersi in contatto con la realtà, come insegna De André (e prima lui il giudice Selah Lively di Spoon River) e come sottolinea l’autore, significa anche, per il singolo giudice persona fisica, «misurarsi con il suo difetto, con la sua debolezza, con la sua fragilità». È da questo contatto con sé stesso che nasce la possibilità di contatto con gli altri, con l’imputato, con la parte, con il condannato, l’occasione di una comprensione non superficiale, la possibilità di capire che «il dolore degli altri» non «è dolore a metà». Il presupposto di questo approccio è il rifiuto di quella neutralità astratta, disancorata dai valori, tanto inutile a preservare l’indipendenza quanto dannosa per la conoscenza processuale e la corretta valorizzazione dei fatti umani. A essere capace di imparzialità, a non cadere nei tranelli delle imposture, non è il giudice che invoca le Nuvole da una cesta sospesa mezz’aria (anche se dalle Nuvole di Aristofane e De André ci sarebbe da imparare), ma il giudice con i piedi piantati nella terra degli uomini. 

Nel leggere le pagine del libro che con delicata sapienza toccano questi tasti, mi tornano alla mente le parole di Sandro Margara sulla colpa e il castigo, sull’impossibilità di tracciare una linea di confine tra l’umanità chiusa in una galera e quella del giudice. Fatico ora a distinguerle da quelle con le quali Fabrizio De André introdusse, in un celebre concerto al teatro Brancaccio di Roma, le prime note di La città vecchia: «Ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore». Passa di qui, forse, la via per conquistare l’equilibrio del giudizio, la consapevolezza di non dover sempre irrogare «cinquemila anni più le spese». E proprio alle pene vorrei dedicare l’ultima parte di dialogo con il corposo volume di Raffaele Caruso. 

Sinora abbiamo parlato dei miseri, del punto di vista dei respinti. A voler commettere il peccato di tradurre nel linguaggio della sociologia penitenziaria l’universo poetico del cantautore genovese, si potrebbe parlare dell’area della detenzione sociale, della povertà colpevole. Fabrizio De André, tuttavia, fa una fuga in avanti e sta in questo salto l’assoluta originalità della riflessione giuridica che lo contraddistingue. Ricado in tentazione e passo subito alla terminologia del diritto: per De André la giustizia e le garanzie non si misurano soltanto sul povero cristo che ruba per fame, ma sull’assassino de Il Pescatore, di La ballata di Michè

Le pagine dedicate a Il pescatore sono tra le più intense che ho mai letto riguardo ai testi di De André. All’assassino che ha «sete e fame», all’assassino che ebbe il coraggio di chiedere «dammi il pane, dammi il vino», il pescatore, senza neppure guardarsi intorno, «versò il vino e spezzò il pane». È una dimensione contraria a quella della pena, almeno della pena istituzionale come la vediamo oggi: una pena che tende a sottrarre al condannato, costruita «per levare» come le sculture di Michelangelo e che, quanto più è grave il reato, tanto più leva. In questa scena, al contrario, il vecchio aggiunge, in una dimensione di incontro che «va oltre l’etichetta di assassino senza negarla» e che è capace di suscitare nel colpevole «una memoria che è già dolore/È già il rimpianto d’un aprile/Giocato all’ombra di un cortile». Mi pare un messaggio potente, per me evocativo di una funzione di risocializzazione che deve guardare nelle storie dei condannati e che deve lavorare anche con tutto ciò che, in quelle storie, è ricordo di ciò che reato non è stato. Certo, si nota anche un formidabile ponte verso meccanismi riparativi. 

L’autore del libro, però, vi scorge qualcosa in più, di molto profondo. A una lettura attenta si nota la costruzione a chiasmo dei versi: l’assassino chiede il pane e il vino, il pescatore, invertendo il gesto liturgico, versa il vino e spezza il pane. Cosa raccontano questo chiasmo, quest’inversione? La risposta di Raffaele Caruso è chiara: «De André nega la divinità di Gesù, per combattere gli alibi di chi, considerandolo Dio, lo ritiene modello inimitabile». La giustizia del pescatore, dunque, non è giustizia impossibile agli uomini, ma è un modello per questa terra. E questo, Fabrizio De André lo ha dimostrato. Torniamo a Tempio Pausania, torniamo all’Agnata. 

 

Quell’angolo riparato, il 29 agosto 1979, fu violato da tre sequestratori che, fucili alla mano, costrinsero Dori e Fabrizio a salire sulla loro vettura, poi su altre vetture, poi a camminare incappucciati in direzione di quel Supramonte i cui paraggi ospitarono la prigionia. Fu un sequestro durato oltre cento giorni, terminato per Dori il 20 dicembre 1979 e per Fabrizio il giorno successivo, il 21 dicembre. Il 20 marzo 1983, il presidente del Tribunale di Tempio Pausania, Mario Cabella, lesse la sentenza di condanna degli autori del sequestro di persona, mandanti ed esecutori, al termine di un processo in cui Fabrizio De André e Dori Ghezzi si erano costituiti parti civili soltanto nei confronti dei mandanti: «Non ho mai conosciuto i mandanti del sequestro, non sapevo che fossero gente benestante, altolocata. Io ho avuto a che fare con i guardiani: due pastori, due strumenti. Ho perdonato loro perché, potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene. Hanno fatto di tutto perché Dori e io soffrissimo il meno possibile». A novembre 1985, Dori e Fabrizio sostennero la domanda di grazia nei confronti di uno dei vivandieri, la sottoscrissero. Il perdono vissuto. Quando De André parla di reintegrazione, di riparazione, bisogna ascoltarlo, perché ha vissuto l’esperienza della vittimizzazione, non lo si può accusare di pensare a un solo corno della penalità. Ed è rimasto coerente con la sua poetica. O viceversa: la poetica è stata coerente con la sua vita. 

 

Post scriptum

Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà, 1973

«Ci hanno insegnato la meraviglia/Verso la gente che ruba il pane/Ora sappiamo che è un delitto/Il non rubare quando si ha fame».

Cassazione Penale, 7 gennaio 2016, n. 18248/2016

«Il furto ha avuto per oggetto due porzioni di formaggio ed una confezione di wurstel del valore complessivo di quattro euro; l'imputato ha pagato alle casse soltanto una confezione di grissini ed ha nascosto gli altri generi alimentari sotto la giacca ( a quanto risulta dalla sentenza di primo grado) [...] La condizione dell'imputato e le circostanze in cui è avvenuto l'impossessamento della merce dimostrano che egli si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi, agendo quindi in stato di necessità. L'accertamento, in questa sede, dell'esistenza di una causa di giustificazione impone l'annullamento della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato».

03/06/2023
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