Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Conseguenze della condanna penale del rifugiato secondo la sentenza della Cgue del 14 maggio 2019

di Francesco Buffa , Salvatore Centonze
*consigliere della Corte di cassazione<br>**avvocato del foro di Lecce
La commissione di reati gravi sul territorio nazionale non fa dell’immigrato un soggetto privo del tutto di protezione e di diritti, spettandogli comunque i diritti salvaguardati per tali ipotesi dalla Convenzione di Ginevra e tutti i diritti spettanti allo straniero e non presupponenti una sua residenza regolare

Si presenta, con un breve commento, la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia del 14 maggio 2019, resa nelle cause riunite C-391/16, C-77/17, C-78/17.

La Corte nella specie è stata adita in sede di rinvio pregiudiziale dal giudice ceco (nella prima causa) e dal giudice belga (nelle altre due cause), in vicende parzialmente simili, riguardanti cittadini extracomunitari (nella prima causa un ceceno, nelle altre un ivoriano ed un congolese) che avevano richiesto (e nel primo e terzo caso anche ottenuto) la protezione internazionale prevista per rifugiati e asilanti, protezione che era stata negata (e negli altri casi suddetti revocata) in ragione della commissione di reati sul territorio del Paese di accoglienza.

Le vicende forniscono alla Corte l’occasione per esaminare il rapporto tra la direttiva 2011/95, la Convenzione di Ginevra e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ricavandone le conseguenze in ordine al tema – di grande attualità anche in Italia, a seguito di alcune dichiarazioni alla stampa del Ministro dell’interno – della tutela residuante per il condannato (con particolare riferimento alla tutela verso l’espulsione nel Paese d’origine di persona a rischio di persecuzione ed ai diritti spettanti comunque allo straniero sul territorio del Paese di accoglienza).

La rilevanza del tema emerge tanto più a pochi mesi dalla conversone in legge del cd. decreto sicurezza (dl 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con modif. in legge 1 dicembre 2018, n. 132), che ha introdotto una presunzione di pericolosità valutabile ai fini del rifiuto o la revoca della protezione internazionale o sussidiaria, derivante dall’avere lo straniero riportato una condanna definitiva per taluni nomina delicti di competenza del Tribunale monocratico, che ha giurisdizione notoriamente sui reati di modesto allarme sociale (ad esempio, furto in abitazione o minaccia a pubblico ufficiale).

Si rileva in tema che, sebbene l’Unione europea non sia parte contraente della Convenzione di Ginevra, lo sono tutti gli Stati membri. La direttiva 2011/95, pertanto, ha ritenuto di applicare la Convenzione ed il relativo protocollo in ogni sua parte (3° Considerando), definendoli «pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati» (4° Considerando). Tutti gli Stati membri, perciò, sono tenuti ad applicarne le disposizioni (art. 3 Conv. Ginevra), ad assicurare l’accoglienza dei richiedenti asilo (art. 31) e a garantire ai rifugiati lo stesso trattamento dei loro cittadini in materia di libertà religiosa (art. 4), accesso alla giustizia (art. 16) e all’istruzione (art. 22).

L’art. 33/1 della Convenzione di Ginevra vieta agli Stati contraenti di espellere o respingere «in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Il divieto, tuttavia, viene meno «se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese» (art. 33/2).

L’art. 14, paragrafi 4 e 5 della direttiva 2011/95, dispone che:

«4. Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto a un rifugiato da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario quando:

a) vi sono fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova;

b) la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro.

5. Nelle situazioni previste al paragrafo 4, gli Stati membri possono decidere di non riconoscere lo status a un rifugiato quando la decisione non è ancora stata presa».

Le ipotesi di revoca o al rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato previste nell’articolo 14, corrispondono, in sostanza, a quelle nelle quali gli Stati membri possono procedere al respingimento di un rifugiato, in forza dell’articolo 21, paragrafo 2, della direttiva e dell’articolo 33, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra. E tuttavia, mentre l’art. 33/2 della Convenzione prevede esplicitamente una deroga al principio del non respingimento verso un Paese in cui la vita o la libertà del rifugiato ritenuto pericoloso sia minacciata, lo stesso non può dirsi con riferimento all’art. 21/2 dir. 2011/95, in quanto il diritto dell’Unione prevede una protezione internazionale dei rifugiati interessati più ampia di quella garantita dalla suddetta convenzione.  L’art. 21/2 dir. 2011/95, infatti, dev’essere interpretato e applicato – secondo la Corte di Lussemburgo − in osservanza dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (16° Considerando), segnatamente dagli artt. 4 e 19/2, che vietano in termini perentori la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, così come l’allontanamento verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto a trattamenti del genere. Infatti, la circostanza che l’interessato rientri in una delle ipotesi previste dall’art. 14, par. 4 e 5, dir. 2011/95 non significa, per ciò solo, che quest’ultimo cessi di rispondere ai requisiti materiali da cui dipende la qualità di rifugiato, relativi all’esistenza di un fondato timore di persecuzioni nel suo Paese d’origine. Pertanto, gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dagli artt. 4 e 19/2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Ma il rapporto tra Convenzione di Ginevra e direttiva 2011/95 opera però anche in altro senso, evidenziato – sottolinea la Corte − dall’art. 14 par. 6 della direttiva.

Nel caso in cui uno Stato membro decida di revocare lo status di rifugiato o di non riconoscerlo ex art. 14, par. 4 o 5 dir. 2011/95, gli interessati si trovano certamente privati di detto status e pertanto non dispongono, o non dispongono più, di tutti diritti e benefici enunciati nel capo VII di detta direttiva, che sono associati a tale status. Tuttavia, come prevede l’art. 14/6 della direttiva, queste persone godono, o continuano a godere, di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra, circostanza che conferma che essi hanno, o continuano ad avere, la qualità di rifugiato ai sensi, segnatamente, dell’art. 1, sez. A, di detta convenzione, a dispetto di tale revoca o diniego. In altri termini, la revoca dello “status” di rifugiato non comporta la revoca anche della “qualità” di rifugiato, ossia di quei diritti che comunque sono riconosciuti al detto straniero in virtù delle fonti internazionali (e se del caso nazionali) applicabili alla persona, una sorta di condizione di rifugiato “limitata”, si potrebbe dire.

L’art.14/6 dir. 2011/95 prevede che le persone cui si applicano i paragrafi 4 e 5 di detto articolo godono dei diritti conferiti «dagli articoli 3, 4, 16, 22, 31[,] 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, odi diritti analoghi, purché siano presenti nello Stato membro». Conseguentemente, se è vero che chi ha perso lo status di rifugiato debba essere privato del permesso di soggiorno collegato a tale status e trattato alla stregua di qualunque soggetto che non risiede più regolarmente nel territorio dello Stato membro interessato, è altresì vero che ciò non osta che allo stesso soggetto possa essere rilasciato un permesso di soggiorno ad altro titolo, né che gli sia garantito il godimento di tutti i diritti collegati dalla Convenzione di Ginevra alla qualità di «rifugiato».

Ad ogni modo, è importante precisare anche che l’applicazione dell’articolo 14, paragrafi da 4 a 6, di detta direttiva non incide sull’obbligo per lo Stato membro interessato di rispettare le disposizioni pertinenti della Carta, quali quelle relative al rispetto della vita privata e della vita familiare (art. 7), alla libertà professionale e al diritto di lavorare (art. 15), alla previdenza sociale e all’assistenza sociale (art. 34), nonché alla tutela della salute (art. 35).

Nelle parole della Corte (par. 107), «l’articolo 14, paragrafo 6, della direttiva 2011/95 dev’essere interpretato, conformemente all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE e all’articolo 18 della Carta, nel senso che lo Stato membro che fa uso delle facoltà previste dall’articolo 14, paragrafi 4 e 5, di detta direttiva deve concedere al rifugiato che rientri in una delle ipotesi previste da queste ultime disposizioni e che si trovi nel territorio di detto Stato membro, quanto meno, il godimento dei diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra ai quali quest’articolo 14, paragrafo 6, fa espresso riferimento nonché dei diritti previsti da detta convenzione il cui godimento non richieda una residenza regolare».

In tema, va richiamato il precedente della Corte del 24 giugno 2015, in C-373/13, ove la Corte – nell’affermare che «quando uno Stato membro decide di allontanare un rifugiato il cui permesso di soggiorno è stato revocato, ma sospende l’esecuzione di tale decisione, è incompatibile con la richiamata direttiva privarlo dell’accesso alle prestazioni garantite dal capo VII della medesima, salvo che trovi applicazione un’eccezione espressamente prevista da questa stessa direttiva» − aveva chiaramente affermato che la revoca dello status di rifugiato e quella del titolo di soggiorno sono questioni del tutto distinte con conseguenti differenti.

Da tutte le considerazioni sin qui illustrate dalla Corte, e dal combinato disposto delle disposizioni contenute nelle diverse fonti richiamate, si evince allora che le persone che rientrino in una delle ipotesi descritte dall’articolo 14, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/95, mentre possono costituire oggetto, nello Stato membro interessato, di una decisione di revoca dello status di rifugiato o di una decisione di rifiuto di concessione di tale status, non possono essere colpite da una misura di respingimento o di espulsione verso il loro Paese di origine quando la loro vita o la loro libertà siano ivi minacciate o vi sia il rischio che siano violati i loro diritti fondamentali sanciti dagli artt. 4 e 19 della Carta; inoltre, il rifiuto o la revoca dello status di rifugiato non può incidere sulla qualità di rifugiato e sui diritti comunque garantiti agli stessi, a prescindere dal riconoscimento dello status (che nella specie difetta).

Per concludere, in sintesi, la commissione di reati sul territorio nazionale allora, sempre che tali reati (la condizione è duplice) siano particolarmente gravi ed inoltre siano stati accertati con sentenza passata in giudicato, non fa dell’immigrato un soggetto privo del tutto di protezione e di diritti, spettandogli comunque i diritti salvaguardati per tali ipotesi dalla Convenzione di Ginevra e tutti i diritti spettanti allo straniero e non presupponenti una sua residenza regolare, fermo restando inoltre che lo straniero (punto 106 della sentenza) può essere comunque autorizzato, in base ad altro fondamento giuridico, a soggiornare legalmente nel territorio dello Stato membro interessato.

14/06/2019
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