Magistratura democratica
Controvento

Israele: quando un popolo scende in piazza per la giustizia

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Sommario: 1. Una riforma della giustizia contestata in nome della democrazia - 2. Nel confronto politico in atto è in gioco l’identità democratica di Israele - 3. Il peso decisivo rivendicato dall’esecutivo nella selezione dei giudici - 4. La riscrittura dei poteri della Corte suprema e del Parlamento - 5. C’è spazio per un compromesso? E per quale compromesso?

1. Una riforma della giustizia contestata in nome della democrazia

Quando un popolo scende in piazza per contestare radicalmente - in nome della democrazia - una riforma del potere giudiziario è perché avverte che le innovazioni “riformatrici” rappresentano un rischio per le sue libertà ed il mezzo, formalmente legale, per attuare una regressione democratica. 

E’ quanto sta accadendo in Israele dove, settimana dopo settimana, masse crescenti di cittadini hanno inscenato manifestazioni di protesta contro le norme proposte dal governo di Benjamin Netanyahu per ridimensionare drasticamente il ruolo della Corte suprema e del potere giudiziario ed hanno ottenuto un primo parziale risultato con il congelamento della riforma. 

Nonostante la tregua, al centro della contesa restano – come si dirà più dettagliatamente in seguito - i meccanismi di nomina dei giudici, le procedure di revisione e di annullamento delle leggi da parte della Corte suprema, il controllo giudiziale di ragionevolezza sulle decisioni governative. 

Congegni istituzionali complessi, modellati nel corso di una lunga storia, che, secondo il governo Netanyahu, assegnano al giudiziario un potere eccessivo e vanno perciò ridisegnati, mentre vengono strenuamente difesi da un ampio schieramento trasversale di opposizione che li considera come un indispensabile contrappeso al potere della maggioranza e come la garanzia dei tratti liberali del sistema politico israeliano. 

In realtà sono state le peculiarità dello Stato di Israele ad attribuire alla Corte suprema la posizione di unico ed essenziale contrappeso rispetto al continuum costituito dal governo e dalla sua maggioranza parlamentare. 

Come è noto, infatti, il Paese non ha una Costituzione scritta (la cui elaborazione è stata impedita dall’esistenza di opposte visioni tra partiti religiosi e laici) ma solo leggi fondamentali sui diritti dei cittadini e sui loro rapporti con lo Stato; ha un parlamento unicamerale, ed è perciò privo della dialettica tra una camera alta e una camera bassa; ha un presidente della Repubblica carente di poteri di rinvio delle leggi all’assemblea parlamentare. 

Dopo una travagliata stagione di riforme (tra cui l’elezione diretta del premier, cancellata dopo l’infelice esperienza degli anni 1996-2001) l’affermazione di una democrazia liberale, è avvenuta a partire dal 1996 con l’introduzione, grazie ad una sentenza della Corte suprema, di un potere di revisione e controllo giudiziale sulle leggi cui si accompagna un penetrante controllo di ragionevolezza sui provvedimenti amministrativi e degli altri enti di governo. 

 

2. Nel confronto politico in atto è in gioco l’identità democratica di Israele

In un tale contesto - nel quale la tutela dei diritti degli individui e delle minoranze è stata un compito storico del giudiziario - lo scontro che si sta consumando in Israele appare decisivo per l’identità democratica del Paese, che dalla sua condizione di unica democrazia effettiva nel Medio Oriente ha sempre tratto forza e legittimazione. 

Dall’esito del braccio di ferro in atto e dalla qualità di un eventuale compromesso tra gli schieramenti confliggenti dipenderà infatti se lo Stato di Israele resterà nel novero delle democrazie liberali - in grado di garantire i diritti di libertà dei singoli cittadini e delle minoranze e capaci di limitare, grazie ad un efficace sistema di pesi e contrappesi, i poteri della maggioranza - oppure se la deriva illiberale imboccata con il progetto riformatore lo assimilerà alle democrazie autoritarie nelle quali si ritiene che il potere di maggioranza possa essere esercitato senza remore e senza limiti. 

E’ questo il senso dell’allarme lanciato dal presidente di Israele, Isaac Herzog, quando ha affermato senza mezzi termini che la riforma suscita «gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello stato di Israele» ed ha invocato una pausa nei lavori parlamentari per favorire una ripresa della discussione su come riformare la giustizia in Israele. 

Come ha giustamente osservato Tania Groppi sulle pagine de La Stampa «In Israele, come altrove, sono i limiti al potere delle maggioranze politiche ad essere a essere attaccati: indipendenza del potere giudiziario, delle corti costituzionali, dell’amministrazione, ruolo dell’opposizione, autonomia degli enti locali. Ovvero tutti gli istituti della “democrazia costituzionale”, posti a garanzia delle minoranze e del pluralismo[1]».

Ed in effetti il ridimensionamento dei poteri della Corte suprema avrebbe anche pesanti ricadute sulla condizione dei palestinesi, privando questa minoranza dei pur minimi livelli di protezione giuridica sinora assicurati da decisioni del supremo collegio. 

Al riguardo va ricordato che nel 2020 la Corte israeliana ha ritenuto incostituzionale, annullandola, una legge del 2017 che aveva legalizzato retroattivamente la costruzione di circa quattromila case di coloni su terreni palestinesi in Cisgiordania sulla base della speciosa affermazione che i coloni potevano rimanere sulla terra laddove avessero edificato ignorando l’esistenza di una proprietà palestinese. 

In quell’occasione la Corte non ha esitato ad affermare l’illegittimità della legge sul rilievo che essa «viola i diritti di proprietà e di eguaglianza dei palestinesi mentre privilegia gli interessi dei coloni israeliani sui residenti palestinesi».

Una pronuncia, questa, che le è valsa l’accusa di essere “antidemocratica” e l’ostilità dichiarata dei coloni e delle forze politiche che li sostengono. 

Così come dure reazioni degli ultraortodossi hanno suscitato i tentativi della Corte suprema di limitare i privilegi e le esenzioni di cui essi godono su diversi versanti tra cui l’obbligo del servizio militare. 

E’ in questo quadro che vanno guardate più da vicino le proposte di riforma avanzate dal governo in carica, il più a destra nella storia di Israele, nato dall’alleanza tra il Likud, i partiti religiosi e i Sionisti religiosi nazionalisti di Itamar ben Gvir, Bezalel Smotrich e Yoav Maoz. 

 

3. Il peso decisivo rivendicato dall’esecutivo nella selezione dei giudici

Il primo terreno di confronto tra autonomia del giudiziario e influenza dell’esecutivo riguarda la modalità di selezione e di nomina dei giudici, la cui logica verrebbe radicalmente ribaltata dall’iniziativa legislativa del governo. 

Attualmente la selezione dei giudici – della Corte suprema come delle Corti inferiori –avviene ad opera di una commissione composta da nove membri: tre giudici della stessa Corte, due rappresentanti dell’associazione forense israeliana, due membri del parlamento due ministri del governo. 

Nella Commissione selezionatrice prevale dunque, sia pure di stretta misura, la componente tecnica – giudici ed avvocati – che concorre con i quattro membri di estrazione politica nel delicato compito di scegliere i giudici. 

Nella proposta del governo questo equilibrio è profondamente alterato in favore dell’esecutivo perché il numero dei membri della commissione incaricata di selezionare i nuovi giudici viene elevato ad undici ed in essa è preponderante il peso dei membri designati dall’esecutivo (sei nella versione attuale, laddove erano sette nella versione originaria). 

E’ del tutto evidente, infatti, che la presenza, in seno all’organo di selezione, di due componenti eletti dall’opposizione parlamentare e di due giudici non varrebbe ad assicurarne una composizione equilibrata della Commissione dal momento che il governo, da solo, disporrebbe della maggioranza dei commissari. 

Da una tale procedura sarebbe offuscata e compromessa l’immagine di indipendenza dei giudici, condizione indispensabile per la loro credibilità ed autorevolezza e per un sereno esercizio delle loro funzioni. 

 

4. La riscrittura dei poteri della Corte suprema e del Parlamento

Senza minimamente sottovalutare la rilevanza del potere di selezione e di nomina dei giudici che con la riforma il governo arroga a se, si può affermare che il cuore dell’iniziativa di ridimensionamento - e di mortificazione - del ruolo del potere giudiziario sta nella progettata riscrittura tanto dei poteri della Corte suprema quanto dei rapporti tra le sue decisioni e la volontà della maggioranza parlamentare. 

Nel disegno riformatore il potere di revisione delle leggi da parte della Corte suprema è subordinato al raggiungimento di un quorum funzionale estremamente elevato - l’80 % dei giudici – in luogo della soglia fisiologica della maggioranza semplice. 

Esso inoltre è circoscritto alla verifica di aderenza o meno delle leggi ai principi delle leggi fondamentali, con una riduzione dello spazio del controllo di ragionevolezza, ritenuto troppo carico di connotazioni direttamente politiche. 

Alla drastica riduzione di incisività del controllo giudiziale sulle leggi – attuato attraverso nuove regole procedurali e nuove prescrizioni sostanziali - fa da pendant l’attribuzione al Parlamento di un singolare potere di “vanificazione” delle sentenze della Corte suprema. 

Per i “riformatori” basterà infatti che la maggioranza semplice dei membri del Parlamento voti di nuovo la legge annullata dalla Corte suprema perché la sentenza di quest’organo venga privata di efficacia e la legge torni in vigore. 

Un meccanismo, questo, grazie al quale la volontà dei parlamentari potrà prevalere su qualunque decisione della Corte, trasformando il controllo sulle leggi in un compito subalterno e suscettibile di essere svuotato a colpi di maggioranza. 

A completare il quadro sta la proposta di “politicizzare” la figura ed il ruolo dei consulenti ministeriali, oggi esperti indipendenti operanti sotto il controllo del Ministro della Giustizia, e, nel futuro immaginato dalla riforma, avvocati di nomina politica, scelti dai Ministri e da essi revocabili. 

 

5. C’è spazio per un compromesso? E per quale compromesso?

Già da questi sintetici cenni sui contenuti e sulle motivazioni della riforma del giudiziario si comprende quanto la materia del contendere sulla giustizia sia complicata e quanto aggrovigliata sia la matassa dei rapporti tra poteri in Israele.

Di fronte agli avvenimenti politici degli ultimi giorni – l’escalation della protesta di massa, il maldestro licenziamento del ministro della difesa fautore, a nome dell’esercito, di una pausa di riflessione e il successivo congelamento della riforma ad opera dello stesso Netanyahu – resta da chiedersi se vi sia e quale sia, a dispetto della radicalità del conflitto, lo spazio di un compromesso. 

Una soluzione di compromesso è possibile secondo il Wall Street Journal che critica «le élite progressiste mondiali» accusandole di «vedere una dittatura dietro ogni angolo conservatore» e sostiene che la riforma della giustizia - parte del programma politico con il quale Netanyahu ha vinto le elezioni - non può essere totalmente abbandonata a causa delle proteste di piazza. Così che occorrerà riannodare i fili di una iniziativa politica riformatrice, anche se in una versione meno radicale di quella del progetto iniziale. 

Al polo opposto si colloca il Financial Time che vede nel conflitto politico in atto «una battaglia per l’anima di Israele», sostenendo che Netanyahu dovrebbe ritirare e non solo mettere in pausa la    controversa riforma della giustizia, paventando che il congelamento della riforma sia solo una pausa tattica per guadagnare tempo e affermando che la minaccia alla democrazia in Israele non scomparirà finché l’estrema destra rimarrà dominante nel governo. 

Sulla stessa linea d’onda si pone il quotidiano spagnolo El Mundo che nella vicenda vede «una crisi costituzionale che apre una spaccatura storica in Israele» non ricomponibile con il consueto armamentario della mediazione politica. 

In attesa di verificare se vi saranno margini per una mediazione o se lo scontro in atto si radicalizzerà ulteriormente un dato sembra difficilmente contestabile. 

L’imponente mobilitazione popolare sul tema dell’indipendenza e del ruolo del giudiziario nello Stato israeliano ha segnato un punto di non ritorno: il rifiuto della rule by law, unica offerta politica della coalizione di destra al potere e l’aspirazione delle forze più vive del popolo alla piena affermazione in Israele della rule of law, dello Stato democratico di diritto, con i suoi principi ed i suoi corollari ed il suo portato di libertà e di tutela dei diritti. 

 

photo credits: Reuters

 

 


 
[1] T. Groppi, Così Israele ci ricorda che cos’è la democrazia, in La Stampa, 29.3.2023. Della stessa autrice vedi anche il podcast I rischi della controversa riforma della giustizia in Israele in Archivio Radio radicale, 8.3.2023. 

31/03/2023
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