Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Il licenziamento nullo per illiceità della causa o frode alla legge

di Marco Vitali
tirocinante presso la Corte d’Appello di Bologna, Sezione lavoro
Con la sentenza n. 687 del 4 novembre 2016, il Tribunale di Vicenza ha dichiarato la nullità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo poiché intimato in frode alla legge, ai sensi dell’art. 1344 cc, ed ha applicato la tutela reintegratoria prevista al comma 1 dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, nel testo modificato dalla legge n. 92/2012. Il caso induce ad alcune riflessioni attorno alla novella introdotta con il d.lgs n. 23/2015 che ha elevato a regola la tutela indennitaria, escludendo del tutto la tutela reintegratoria per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Nonostante la restrizione delle tutele così attuata, le categorie civilistiche della nullità – in particolare l’illiceità della causa – devono ritenersi operanti nella materia dei licenziamenti

1. La fattispecie concreta

Il caso esaminato dal Tribunale di Vicenza ha ad oggetto un licenziamento intimato nel settembre 2015 all’impiegata di una farmacia e giustificato dalla situazione di «esubero del personale» e «dalla necessità di riorganizzare più razionalmente l’organico della farmacia».

2. La ratio decidendi adottata dal tribunale

La lavoratrice ha agito in giudizio deducendo la nullità del licenziamento, poiché in frode alla legge e, in subordine, l’illegittimità dello stesso per difetto del giustificato motivo oggettivo addotto.

Il giudice ha ritenuto che il licenziamento intimato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo fosse nullo in quanto elemento di una complessa fattispecie elusiva, volta ad ottenere la sostituzione della ricorrente con altra lavoratrice, la cui assunzione potesse garantire l’applicazione del beneficio contributivo introdotto dall’art. 1, commi 118-124, della legge n. 190 del 2014, in assenza dei presupposti richiesti da questa legge, cioè senza alcun incremento dell’occupazione stabile. Come si evince dalla sentenza, la norma sopra citata è stata introdotta con l’obiettivo di promuovere forme di occupazione stabile prevedendo, per un periodo massimo di trentasei mesi, l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, qualora procedano a nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato (contratto cd. a tutele crescenti). Tale esonero, come precisato dal Tribunale di Vicenza, non può quindi competere ai datori di lavoro che pongano in essere «comportamenti elusivi precostituiti allo scopo non di realizzare nuove assunzioni bensì di ottenere illegittimi risparmi sul costo del lavoro». Nell’esaminare la fattispecie concreta, il giudice ha individuato precisi indici rilevatori del carattere elusivo della condotta datoriale: in primo luogo, la prossimità temporale tra l’assunzione della nuova lavoratrice con le agevolazioni contributive e il licenziamento della ricorrente, avvenuto a circa un mese di distanza; inoltre, la corrispondenza dell’inquadramento contrattuale delle due, entrambe impiegate di primo livello, e l’identità delle mansioni alle medesime assegnate e di fatto svolte, cioè collaboratore di farmacia; infine, «l’evanescenza dei motivi posti a base del licenziamento», posto che la situazione di esubero di personale era stata determinata dal medesimo datore di lavoro attraverso l’assunzione effettuata. Il Tribunale ha ricondotto il licenziamento intimato in frode alla legge, agli «altri casi di nullità previsti dalla legge», per i quali l’art. 18 comma 1 dello Statuto dei lavoratori, nel testo modificato dalla legge n. 92 del 2012, prevede la tutela reintegratoria piena.

3. L’uso delle categorie di nullità civilistica

La sentenza in esame appare particolarmente significativa per lo sforzo compiuto nella ricostruzione della complessiva condotta datoriale, non limitata al singolo provvedimento di recesso ma estesa alla complessiva operazione posta in essere dalla società e tale da far emergere l’attuazione di una strategia elusiva sia delle finalità proprie della legge n. 190 del 2014 e sia della causa concreta del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la necessaria inclusione, nel perimetro di verifica e controllo giudiziale, anche dei motivi alla base della condotta datoriale di recesso.

Il giudice, di fronte al difetto di prova, di cui era onerata parte datoriale, in ordine al motivo oggettivo addotto, avrebbe potuto interrompere la propria indagine, dichiarare l’illegittimità del licenziamento ed applicare la disciplina dettata dall’art. 18 comma 7 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, con le conseguenze risarcitorie di cui al quarto o quinto comma del citato art. 18 a seconda che avesse ritenuto la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento oppure l’insussistenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo. Il tribunale ha invece ritenuto doveroso condurre l’indagine ad uno step ulteriore e, quindi, “scomodare” le categorie civilistiche generali. Ravvisando una frode alla legge, il giudice ha sancito la nullità del licenziamento, ai sensi degli artt. 1418 e 1344 cc, applicando la cd. tutela reale “piena” di cui al comma 1 dell’art. 18.

4. L’impatto del decreto legislativo n. 23 del 2015

Il caso in esame induce ad alcune riflessioni attorno alla novella introdotta con il d.lgs n. 23/2015, che ha previsto un nuovo regime regolativo della tutela in caso di licenziamento illegittimo, determinando quello che è stato definito come un importante, e peggiorativo, «cambiamento di paradigma»[1] nel diritto del lavoro italiano. La nuova disciplina ha provocato una sensibile restrizione dei casi in cui trova applicazione la tutela reintegratoria, ora limitata alle ipotesi di licenziamento dichiarato nullo (art. 2, comma 1, d.lgs n. 23/2015), poiché discriminatorio o riconducibile «agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», nonché ai casi di recesso inefficace perché intimato in forma orale. Al contrario, allorché si accerti l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo (art. 3, comma 1, d.lgs n. 23/2015), al lavoratore è riconosciuta esclusivamente una tutela indennitaria, con un residuo spazio di tutela reintegratoria in caso di licenziamento intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ove sia «direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato» (art. 3, comma 2, d.lgs n. 23/2015). Il legislatore, in un quadro di sostanziale residualità dei rimedi ripristinatori, ha escluso del tutto la tutela reintegratoria per i «licenziamenti economici»[2], sostituendola con un indennizzo monetario crescente con l’anzianità di servizio. Ciononostante, parte della dottrina ha provato ad individuare, all’interno della riforma strutturale dei licenziamenti illegittimi, alcuni «pertugi interpretativi volti a mantenere, (…), aperta la possibilità di applicare la tutela reale»[3] anche ai licenziamenti economici.

5. Il licenziamento nullo

Con riferimento alla nullità del licenziamento, il d.lgs n. 23/2015, art. 2 comma 1 sembra discostarsi dall’art. 18, comma. 1 dello Statuto dei lavoratori, poiché si riferisce esclusivamente «agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». L’interpretazione letterale, che trova il proprio fondamento nell’uso dall’avverbio «espressamente», condurrebbe, quindi, alla «inutilizzabilità degli ordinari rimedi civilistici oltre i casi tassativamente indicati dalla legge di licenziamento nullo»[4], con conseguente attrazione nella regola generale dettata dall’art. 3, comma 1, del d.lgs n. 23/2015 di tutte le ipotesi in cui la sanzione della nullità non fosse «espressamente» sancita dalla legge. Una simile impostazione appare, effettivamente, non sostenibile, anzitutto dal punto di vista sistematico perché produrrebbe l’effetto di «estendere il campo di applicazione relativo al rimedio indennitario ai casi di licenziamento nullo non “espressamente” previsti dalla legge (secondo quanto dispone l’art. 2, co. 1)»[5], introducendo una distinzione tra nullità espressamente previste e nullità non espressamente previste priva di substrato logico e, peraltro, non contemplata nella delega di cui alla legge n. 183/2014. Non vi è alcuna plausibile ragione logica e giuridica per cui dovrebbe escludersi l’operare nel diritto del lavoro, e nella materia dei licenziamenti in particolare, delle nullità che se pure non espressamente previste tuttavia siano riconducibili alle categorie civilistiche di contrarietà a norme imperative (art. 1418 cc), illiceità della causa (art. 1343 cc), frode alla legge (art. 1344 cc), e illiceità dei motivi (art. 1345 cc), risultando la tutela reintegratoria, con buona pace dell’avverbio impropriamente adoperato, la sola compatibile con la «diversa categoria di disvalore giuridico»[6] che caratterizza le fattispecie inquadrabili in siffatte norme civilistiche.

La fattispecie decisa dal Tribunale di Vicenza appare assolutamente emblematica in quanto rivela come il sezionare la condotta datoriale e leggere la stessa mettendo a fuoco solo il risultato delle scelte imprenditoriali possa condurre, in particolare nel contesto normativo introdotto dal d.lgs n. 23/2015, a decretare una illegittimità, con conseguente tutela indennitaria, anche laddove si annidano violazioni cariche di così grave disvalore giuridico da determinare, in base ai principi generali di diritto civile a cui non può dirsi estraneo il settore lavoristico, una radicale nullità. Il datore di lavoro vicentino era riuscito a realizzare il risultato di sostituire una lavoratrice più costosa con un’altra meno costosa, in quanto assunta in regime di agevolazione contributiva. La giurisprudenza di legittimità, anche quella più recente in materia di giustificato motivo oggettivo, è netta nell’affermare che «non vi è effettiva soppressione del posto di lavoro nel caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente licenziato con altro lavoratore assunto a minor costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni» essendo vietato proprio il «perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) solo mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento di un dipendente (…) dovuto esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire meno»[7]. Tuttavia, se il tribunale avesse analizzato la condotta datoriale di recesso senza il filtro delle categorie civilistiche, non ne avrebbe colto il disvalore specifico, di carattere frodatorio, tale da realizzare non solo l’indebita percezione degli sgravi contributivi in relazione alla nuova assunzione (non destinata a tradursi in un effettivo incremento occupazionale ma unicamente strumentale al fine di una riduzione del costo del lavoro alle dipendenze della farmacia) ma, per quanto specificamente interessa ai fini della nostra analisi, un utilizzo del potere di recesso per finalità del tutto diverse da quelle per cui tale potere è riconosciuto al datore di lavoro.

Non può infatti trascurarsi come le recenti riforme abbiano lasciato intatta la struttura logico-giuridica del licenziamento come atto causale, necessariamente sorretto, in base alle previsioni di cui all’art. 1 della legge n. 604/1966, da una giusta causa o un giustificato motivo[8]. E se è indubbio che la carenza di tali requisiti determini l’illegittimità del recesso, non può ritenersi precluso un passo ulteriore, come quello compiuto dal Tribunale di Vicenza, idoneo a traghettare la violazione datoriale sul terreno della nullità laddove il potere di recesso risulti esercitato, non solo in difetto, ad esempio, di valide ragioni economiche ed organizzative, ma per finalità di frode alla legge oppure in contrasto con la causa stessa del potere, quindi in modo arbitrario ossia con «abuso del diritto»[9]. In proposito, appare particolarmente pertinente il richiamo alla categoria della illiceità della causa (art. 1343 cc), intesa, secondo la concezione ormai prevalente, come causa in concreto[10], corrispondente alla funzione economico-individuale del contratto, ossia sintesi dei contrapposti interessi reali che le parti intendono realizzare anche al di là del modello tipico utilizzato[11]. Secondo tale orientamento, la discrezionalità riconosciuta dall’ordinamento giuridico al datore di lavoro nell’esercizio del potere di licenziare dovrebbe esplicarsi in coerenza con la causa del negozio di recesso e, considerato che lo scopo tipico di questo non può identificarsi nella mera estinzione del rapporto di lavoro, «ma nel suo scioglimento in presenza di ragioni tecnico-produttivo-organizzative (oggettive)»[12], una eventuale contraddizione tra la finalità tipica dell’atto e l’interesse che il datore di lavoro ha in concreto perseguito – causa in concreto, appunto – non può che determinare la nullità del licenziamento ai sensi degli artt. 1343 e 1418 cc. Si potrebbe così contenere la tentazione datoriale di convogliare sul licenziamento per ragioni economiche, in virtù della garanzia di una tutela solo indennitaria, tutte le concrete ragioni di recesso, ed evitare che la frattura di regole basilari nell’ordinamento, come quella provocata dall’abuso del potere o dalla frode alla legge, possa essere riparata da una semplice monetizzazione.

 


[1] Così A. Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, Torino, 2015, p. 39.

[2] Vds. legge delega, art. 1, comma 7, lett. c), legge n. 183/2014.

[3] Così A. Perulli, op cit., p. 39.

[4] Così A. Perulli, op. ult. cit, p. 40.

[5] Così A. Perulli, op. ult. cit, p. 40; Vds. C. Ponterio, Licenziamento illegittimo per assenza di giustificato motivo oggettivo e licenziamento pretestuoso, in Questione giustizia trimestrale, Fascicolo n. 3/2015; S. Ortis, Il fatto e la sua qualificazione: dalla querelle della riforma Fornero ai nodi irrisolti del Jobs act, in Rivista Italiana del Diritto del Lavoro, Fascicolo n. 1/2016, pp. 145 ss.

[6] Così A. Perulli, op. cit., pp. 40 ss.; Si vedano altresì S. Ortis, ivi, pp. 145 ss.; V. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra Costituzione e diritto europeo, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, Fascicolo n. 1/2016, pp. 111 ss.

[7] Cfr. Cass., n. 25201/16; Cass., n. 13516/2016; Cass., n. 3899/2001; Cass., Sez. unite, n. 3353/1994.

[8] Così A. Perulli, op. cit., p. 42. Si veda altresì l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo la quale «Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali».

[9] Cfr. A. Perulli, op. ult. cit., p. 42; L. Perina e S. Visonà, Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo: dottrina e giurisprudenza alla ricerca di un punto di equilibrio nella nuova disciplina del novellato art. 18, in La riforma del mercato del lavoro, Il nuovo diritto del lavoro, vol. IV, diretto da L. Fiorillo e A. Perulli, Giappichelli, 2014, pp. 226 ss.

[10] Ormai consolidata sia in dottrina che in giurisprudenza, cfr. G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio, Giuffrè, Milano 1966, p. 252, che parla di «funzione economico-individuale del contratto», nonché C. M. Bianca, Il contratto, in Diritto civile Vol. 3, Giuffrè, Milano, 1991, p. 425, che si rifà alla «ragione concreta del contratto»; Vds. altresì Cass., n. 10490/2006; Cass., Sez. unite, n. 26972/2008.

[11] Vds. Cass., n. 10490/2006.

[12] Cfr. C. Ponterio, cit.; Vds. altresì l'ordinanza emessa dal Tribunale di Trento ai sensi dell’art. 1, comma 49, della legge n. 92/2012 nel procedimento n. 37/2015.

11/10/2017
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