Magistratura democratica
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Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto legge n. 44/2021

di Roberto Riverso
consigliere della Corte di cassazione

Le norme dettate in materia di obbligo vaccinale dall’art. 4 del d.l. 1 aprile 2021, n. 44, rappresentano l’intervento politico, da molti auspicato, che scioglie il dilemma, dibattuto lungamente in questi mesi in ambito giuslavoristico, a proposito dell’impatto della profilassi vaccinale all’interno del settore sanitario socio assistenziale. In questa sede, si analizzeranno l’individuazione dei soggetti destinatari dell’obbligo e il rilievo sistematico che l’intervento del d.l. assume rispetto al TU n. 81/2008.

1. Libertà prevenzione, un finto dilemma?

Le norme dettate in materia di obbligo vaccinale dall’art. 4 del decreto legge 1.4.2021 n. 44 rappresentano l’intervento politico, da molti auspicato, che scioglie il dilemma, dibattuto lungamente in questi mesi in ambito giuslavoristico, a proposito dell’impatto della profilassi vaccinale all’interno del settore sanitario socio assistenziale.  

Prima di questo intervento, il dibattito sui vaccini nel contratto di lavoro è stato affrontato nei termini di una tensione dialettica tra principio di libertà, implicito nella riserva di legge prevista dall’art. 32, comma 2, della Cost., ed il principio di prevenzione che è alla base dei comportamenti doverosi dettati in materia dal TU n. 81/2008 e dell’art. 2087 c.c.[1]

Si è trattato, per la verità, di una tensione più teorica che reale, perché aldilà delle divergenti premesse, la dottrina ha comunque riconosciuto, salvo rare eccezioni, che il rifiuto del vaccino non sia, sul piano della conseguenze, un atto neutro e senza effetti sul rapporto di lavoro. E che il datore debba farsi carico dell’omissione mettendo il lavoratore potenzialmente pericoloso in condizione di non nuocere (con una reazione disciplinare oppure in quanto oggettivamente inidoneo). 

E ciò in linea con quanto la Corte costituzionale aveva avuto modo di affermare con la sentenza n. 218 del 1994, allorché (a proposito della necessità di accertamenti obbligatori per infezione da HIV nell’ambito delle attività di assistenza e cura) aveva sostenuto che in presenza di un pericolo per la salute dei terzi sia incostituzionale una legge che non preveda l’obbligo del lavoratore, portatore del rischio, di sottoporsi a trattamento sanitario obbligatorio. E ciò in ragione della necessità di garantire il diritto fondamentale alla salute degli altri soggetti, prevalente sulla libertà di chi decide di non curarsi. 

D’altra parte, l’unico precedente giurisprudenziale che si era occupato del rifiuto del vaccino anticovid, da parte di 10 infermieri e operatori socio sanitari (Tribunale Belluno 23.3.2021), aveva confermato la sospensione dal rapporto intimata dal datore (ma con la garanzia della retribuzione feriale) a seguito del giudizio del medico competente, richiamando l’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c., perché, in difetto dell’allontanamento del renitente, il datore poteva essere chiamato a rispondere  nei confronti dei medesimi lavoratori renitenti, dei loro colleghi e dei terzi.   

Ad ogni modo, a fronte della non univocità delle tesi, del succedersi di fatti di cronaca con frequenti contagi all’interno di strutture dove i ricoverati non avevano nessun altro contatto con l’esterno; della pressione della pubblica opinione, ed inoltre della presenza di percentuali di rifiuto vaccinale preoccupanti, soprattutto in alcune categorie di personale  sociosanitario meno scolarizzato; dinanzi a  tutto questo, il legislatore ha vinto le resistenze ed è intervenuto con un decreto legge che prevede l’obbligo di vaccinazione in funzione della tutela della salute pubblica e per mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.

In questa sede verranno affrontati essenzialmente due nodi problematici che risultano prioritari nella comprensione della nuova disciplina e che sembrano già i più disputati in base ai commenti pubblicati: 1. l’individuazione dei soggetti destinatari dell’obbligo; 2. il rilievo sistematico che l’intervento del d.l.  assume rispetto al TU n. 81/2008.[2] 

 

2. L’individuazione dei destinatari degli obblighi vaccinali stabiliti dal d.l. 44/2021

L’art. 4 del d.l. 44/2021 introduce obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario. 

Come tutte le disposizioni introdotte dal decreto legge, anche quella dedicata ai destinatari degli obblighi vaccinali è soggetta ad interpretazione. E da qui iniziano le prime diatribe, perché sono già state formulate almeno tre-quattro tesi differenti proprio a proposito dell’identificazione dei soggetti obbligati.

I dubbi interpretativi non investono tanto la categoria degli esercenti le professioni sanitarie, i quali sarebbero da individuare, a detta di tutti, in base alle norme primarie che le regolamentano (alla luce della Legge 11 gennaio 2018 n.3 ed a partire dal decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, ratificato dalla legge 17 aprile 1956, n. 561). Né alcun inatteso elemento di confusione potrebbe essere ingenerato in proposito  dal rimbrotto esternato alla stampa dal Presidente del Consiglio Draghi (ovviamente senza alcun intento giuridico), allorché ha fatto riferimento agli “psicologi di 35 anni” che si vaccinano a preferenza di altre persone in condizioni di maggiore necessità. I quali psicologi, però, rientrando tra le professioni sanitarie (ai sensi della legge n. 3 del 2018), sono obbligati alla vaccinazione proprio in base all’art. 4 del c.d. decreto legge 44/2021 per un verso; e ne hanno diritto, con priorità, per altro verso, in base alle norme del vigente Piano di vaccinazione. Con la precisazione che su nessuna delle categorie prioritarie, e men che meno per quelle sanitarie, interferiscono anche i criteri di priorità di natura anagrafica, come conferma l’Ordinanza n.6 del 9 aprile 2021 del Commissario straordinario per l’emergenza Covid (su cui si ritornerà).

 

3. Gli operatori di interesse sanitario in base al sito del Ministero

Maggiori perplessità si addensano invece a proposito dell’altra categoria degli operatori di interesse sanitario. Perché qui si è già detto che si tratta di una categoria ristretta, anzi ristrettissima, definibile in base al sito informativo del Ministero della salute.  Dove si legge che gli operatori di interesse sanitario sono solo tre figure: il massofisioterapista; l’operatore socio-sanitario; l’assistente di studio odontoiatrico.

E’ stato proposto di aggiungere ai soggetti obbligati anche la categoria delle “arti ausiliarie delle professioni sanitarie” (ovvero massaggiatore, capo bagnino stabilimenti idroterapici; ottico; odontotecnico; puericultrice) in quanto pure questi profili vengono individuati dal Ministero della salute; [3] ma la proposta è stata contestata perché darebbe luogo ad una inammissibile estensione analogica.[4]

Dunque, secondo queste tesi restrittive, fondate su titoli abilitanti e sul rinvio al sito del Ministero della salute, resterebbero in ogni caso esclusi dalla cerchia degli obbligati dal decreto legge tutti i lavoratori che non sono iscritti negli albi professionali sanitari e che non sono operatori sanitari in senso stretto, anche se lavorano all’interno di strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, nelle farmacie, parafarmacie e studi professionali. 

E per rendere il concetto ancora più esplicito, si sono fatti degli esempi. Si è detto così[5] che andrebbero esclusi dagli obbligati: l’addetto alla sicurezza agli ingressi delle hub vaccinali regionali (dove si registrano  alcune migliaia di ingressi al giorno); oppure  gli addetti alla reception delle strutture sanitarie ed assistenziali (dove ogni giorno arrivano anche 20 mila visitatori  che toccano le postazioni degli uscieri, mettono le mani sui plexiglas divisori e chiedono informazioni, parlando in modo necessariamente ravvicinato); ed  ancora, il personale addetto alla pulizia dei locali (e qui c’è da rimanere disorientati perché questo personale, il più delle volte dipendente da imprese appaltatrici,  è quello che pulisce le camere  dove alloggiano i  pazienti Covid, pulisce i bagni, i comodini, ritira i bicchieri dove bevono). E poi ancora si è fatto l’esempio del personale addetto ai servizi di mensa e distribuzione pasti (ma anche qui si tratta di lavoratori che operano all’interno delle strutture ospedaliere socio assistenziali e che stanno a contatto con tanti  operatori del settore medico infermieristico che si recano nelle mense, e che quindi versano in uno stato di pericolo uguale se non maggiore di tanti altri). 

Per tutte queste categorie di lavoratori si sostiene che   il Governo non avrebbe imposto alcun obbligo vaccinale e, quindi, tali soggetti potrebbero esercitare legittimamente il diritto di autodeterminazione, anche negativa, al trattamento sanitario, pur essendo comunque a contatto con il pubblico e con altri lavoratori e, quindi, potenziali diffusori del contagio.

E la stessa esclusione dovrebbe valere, in base al medesimo ragionamento, per altre professioni di natura non sanitaria eventualmente esercitate all’interno di strutture ospedaliere o sociosanitarie.

Ora, non pare che questa individuazione dei soggetti obbligati in base alla intrinseca natura dell’attività svolta sia del tutto aderente alla realtà di cui ci stiamo occupando ed al rischio che il decreto legge ha inteso fronteggiare.

Anzitutto con riferimento agli operatori di interesse sanitario, perché non sembra puntuale affermare che un sito del Ministero, per quanto utile e funzionale per le informazioni ai cittadini, possa integrare il presupposto di un obbligo legale e sia abilitato ad esplicitare una nozione di legge. Occorrerebbe individuare almeno la fonte normativa (primaria) che restringa la categoria degli operatori di interesse sanitario solo alle tre figure indicate nel sito ministeriale (massofisioterapista, operatore socio-sanitario, assistente di studio odontoiatrico). 

Ma per quanto ci si possa prodigare nella ricerca all’interno del dedalo dell’ordinamento, non si riuscirà (o almeno non si è riusciti) a trovare alcun atto normativo che contenga questa regolamentazione, nei termini che compare nel sito del Ministero della salute. Perché non esiste in proposito un’unica fonte normativa abilitante, siccome ne esistono tante quante sono le Regioni italiane.   Ed infatti la norma primaria da cui bisogna muovere - la legge 1 febbraio 2006, n. 43 - all’art. 1, mentre individua al comma 1 le professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione; al 2° comma dispone: “Resta ferma la competenza delle regioni nell’individuazione e formazione dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitarie come definite dal comma uno. 

Quindi, stando almeno a quanto dice la legge n. 43 del 2006, e non il sito del Ministero della salute, l’individuazione e formazione dei profili di operatore di interesse sanitario rientra nella competenza del legislatore regionale; per cui in pratica ciascuna regione potrebbe individuare diversi profili di operatori di interesse sanitario. 

E per sapere cosa e chi sono gli operatori di interesse sanitario occorrerebbe cercare all’interno delle  singole legislazioni regionali; e si tratterà di una ricerca che sconta margini di aleatorietà nella tenuta del quadro ordinamentale, perché alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale si dovrà necessariamente trattare di categorie professionali residuali che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale e non abbiano alcun collegamento con lo svolgimento di compiti riconducibili direttamente allo svolgimento di funzioni sanitarie;  dal momento  che secondo una consolidata giurisprudenza costituzionale «la potestà e l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, (sentenza n. 153 del 2006, nonché, ex plurimis, sentenze n. 57 del 2007 e n. 424 del 2006, sentenza n. 179 del 2008. Ed a proposito della figura professionale dell’autista soccorritore la sentenza di illegittimità costituzionale n. 300 del 2010).

Ed allora viene spontaneo chiedersi se davvero, ai fini di individuare la platea dei soggetti obbligati al vaccino anti Covid 19, il decreto legge n. 44/2021 abbia inteso far riferimento ai differenti profili di operatori di interesse sanitario regolati dalla legge n. 43/2006 che rimanda alle legge regionali. Perché si sta parlando qui di un obbligo che non ha nulla di regionale; che muove da un problema sanitario nazionale ed addirittura planetario; correlato al piano di vaccinazione nazionale ed al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza in condizioni uniformi nell’intero territorio nazionale. E si può quindi dubitare con fondamento che il legislatore abbia voluto procedere in una direzione - quella di condizionare e differenziare gli obblighi vaccinali in base a mutevoli previsioni legislative regionali - che lo porterebbe a scontrarsi, e nella maniera più fragorosa possibile, con la sentenza n. 37 del 2021 appena sfornata dalla Corte cost. (rel. Barbera) la quale ha ricordato che la malattia da COVID-19  è «notoriamente presente in tutto il mondo» - (con l’utilizzo del notorio che molti hanno invece rimproverato al giudice di Belluno che agiva in via d’urgenza ) - ed  interpella non solo la competenza nazionale ma addirittura quella internazionale, «per cui ricade  nella competenza legislativa esclusiva dello Stato a titolo di «profilassi internazionale» (art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.) che è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla».

«A fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, "ragioni logiche, prima che giuridiche" (sentenza n. 5 del 2018) radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)». 

«Qualora il contagio si sia diffuso sul territorio nazionale, e mostri di potersi diffondere con tali caratteristiche anche oltre di esso, le scelte compiute a titolo di profilassi internazionale si intrecciano le une con le altre, fino a disegnare un quadro che può aspirare alla razionalità, solo se i tratti che lo compongono sono frutto di un precedente indirizzo unitario, dotato di una necessaria visione di insieme atta a sostenere misure idonee e proporzionate».

Ed a nulla servirebbe qui  ricordare, per contro, che la sentenza n. 137 del 2019 (rel. Cartabia) ha invece affermato che le competenze regionali «continuano a trovare spazi non indifferenti di espressione anche in materia di vaccinazioni»; ma sempre e soltanto se «l’intervento del legislatore regionale non ha per oggetto la regolazione degli obblighi vaccinali – che chiamerebbe in causa la competenza statale in tema di determinazione dei principi fondamentali della materia di tutela della salute (sentenza n. 5 del 2018)» ma rimanga nei limiti di una disciplina sull’organizzazione dei servizi sanitari della Regione (che nel caso di specie era riferita all’accesso ai reparti degli istituti di cura individuati con la delibera della Giunta regionale, stabilendo  allo scopo l’onere della vaccinazione).

Per le considerazioni appena svolte, l’interpretazione della categoria degli operatori di interesse sanitario in senso stretto, dovrebbe essere quindi abbandonata. Non solo perché il sito del Ministero non è dotato di potestà definitorie in questo senso, ma soprattutto perché vi sono serie ragioni di ordine costituzionale che sconsigliano di percorrerla. Perché se anche esistesse la categoria professionale degli operatori di interesse sanitario individuati a livello regionale, nei termini indicati dalla legge n. 43/2006, essa non sarebbe atta all’oggetto, alla ratio ed alla finalità del decreto legge n. 44/2021 che porta ad individuare la materia in termini di obblighi vaccinali inibiti alle competenze regionali. Ma la stessa tesi, come subito si vedrà, deve essere abbandonata anche per ragioni che attengono alla coerenza finalistica e sistematica della intera normativa, che altrimenti diverrebbe illogica sotto plurimi profili. 

 

4. Gli operatori di interesse sanitario in base al rischio ambientale

Abbandonata la via della legge n. 43/2006 e del sito ministeriale, la platea dei soggetti obbligati si presta infatti ad essere individuata in modo diverso, in armonia col rischio protetto, attraverso un criterio selettivo più ampio dal punto di vista soggettivo. 

Sul piano letterale, la legge parla non soltanto di operatori sanitari ma di operatori di interesse sanitario – aggiungendo, di seguito -  che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.   

Ai fini del decreto legge potrebbe affermarsi allora che sono operatori di interesse sanitario tutti i lavoratori che esercitano attività nei luoghi indicati, a prescindere dal contenuto professionale della mansione (che potrebbe non essere strettamente sanitaria).

Anche dal punto di vista della ratio legis sembra questa l’interpretazione più corretta. Se, come indicato nell’art. 4, il fine dell’obbligo è «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», tale fine non potrebbe essere conseguito se non assoggettando allo stesso obbligo tutti coloro che operano nel medesimo ambiente di lavoro, sono esposti al medesimo rischio e collaborano al raggiungimento di quel medesimo risultato indicato dal legislatore. Ancora una volta quindi, in coerenza con l’art. 2087 c.c. ed il TU n. 81/2008, l’ambiente di lavoro ed il rischio correlato rappresentano la chiave di volta che dovrebbe valere per identificare i soggetti obbligati.   

Aiuta in tal senso la delimitazione legale degli ambiti di svolgimento delle attività; ma anche il fatto che la sospensione ex lege (comminata dal d.l. attraverso l’atto di accertamento dell’Asl) «determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2».  Si tratta di una previsione riferita agli effetti della sospensione derivanti dall’accertamento del rifiuto di vaccinarsi (descritti nel sesto comma); ma che retroagisce anche al momento logicamente anteriore, dell’identificazione dei soggetti obbligati (descritto nel primo comma). Che diventano così tutti i lavoratori (esercenti la professione sanitaria e gli operatori di interesse sanitario in senso lato) che hanno contatti interpersonali o comunque sono soggetti al rischio in qualsiasi altra forma all’interno dei luoghi indicati.

La non esposizione al rischio, quindi, non solo priva di effetti la sospensione, a valle del procedimento previsto dalla legge, ma determina pure il mancato assoggettamento all’obbligo, già a monte dell’iter che porta all’identificazione dei medesimi soggetti. 

Ciò consente di allargare la platea dei soggetti obbligati in funzione del rischio, ma anche di restringerla in funzione dello stesso rischio; da cui discende che il fondamento della vaccinazione obbligatoria introdotta dal decreto legge n. 44/2021 sia propriamente un rischio ambientale, legalmente tipizzato. 

Perché è assurdo sospendere ex lege un esercente la professione sanitaria o un operatore di interesse sanitario non soggetto al rischio Covid che rifiuti il vaccino, per poi assegnargli di nuovo le mansioni in atto che egli stava svolgendo in quanto non esposto al rischio.

Sicché se un soggetto delle stesse strutture ed aziende sanitarie o socio sanitarie lavora in un luogo lontano ed isolato col telelavoro o in smart working non rientra tra i soggetti obbligati ab imis, in mancanza di contatti interpersonali o di altre fonti di rischio nei luoghi identificati dalla norma. 

Non avrebbe alcun senso assoggettare all’obbligo di vaccinazione un lavoratore del genere, rispetto al quale il provvedimento tipico della sospensione - al quale l’obbligo legale è funzionalmente diretto - non ha alcuna possibilità di operare perché il soggetto non è esposto al rischio.  

Per individuare i soggetti passivi dell’obbligo occorre dare perciò una lettura coerente della norma. Leggere assieme i commi 1 e 6 ed integrare le attività genericamente indicate nel primo comma con la specificazione delle prestazioni indicate nel sesto comma. Come se la norma dicesse, appunto, che sono obbligati a vaccinarsi gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2- nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali. 

Solo sul presupposto dell’esistenza del rischio, nei termini sopra indicati, la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati.  

La legge sarebbe invece irrazionale ove mirasse a sottoporre ad un obbligo vaccinale un lavoratore che non è ex ante soggetto al rischio per poi esentarlo soltanto dalla sospensione, successivamente al suo rifiuto. 

Per converso – tornando al tema della identificazione degli operatori di interesse sanitario in senso lato – risulta parimenti assurdo sostenere che, pur in presenza di un’attività che è invece soggetta a rischio all’interno di un ospedale o di una struttura sanitaria (come per quella resa da  un cuoco, un addetto alle pulizie dei locali, un badante, un portiere, un impiegato amministrativo, l’addetto all’ufficio informazione, alla cassa, il portiere, un vigilante, un addetto alle manutenzioni, uno studente tirocinante, ecc. ),  si sia esentati dall’obbligo del vaccino in quanto si tratterebbe di attività resa da operatore non d’interesse sanitario in senso stretto.  

Si tratta di un’assurdità che esporrebbe di nuovo la norma ad un sospetto di incostituzionalità, perché il pericolo di contagio da Covid è uguale per chi esercita ciascuna di queste mansioni che pure danno adito a contatto diretto col rischio (con i soggetti malati ed i ricoverati).  Ed in materia di tutela della salute nei luoghi di lavoro il principio sovrano deve essere sempre quello che impone di garantire parità di trattamento e di tutela a parità di rischio.

 

5. Criteri di priorità ed obblighi vaccinali 

Possono essere fugati anche i dubbi residui che l’identificazione ampia qui suggerita potrebbe ingenerare, in ragione dell’interferenza che essa finisce per avere sul diverso tema dell’ordine delle priorità vaccinali, garantendo un accesso privilegiato ad una più estesa e indeterminata categoria di lavoratori che operano all’interno delle strutture socio sanitarie a preferenza di altri (magari più anziani).

Senonché ogni residuo dubbio viene meno se si legge l’Ordinanza n.6 del 9 aprile 2021 del nuovo Commissario straordinario per l’emergenza Covid (organo istituito con il d.l. n. 18/2020 presso la Presidenza del Consiglio) che, proprio in materia di criteri di priorità, si muove nell’identica direzione ed ampiezza del rischio posti alla base della tesi accolta in queste note (e sulla scia peraltro del piano del precedente Commissario Arcuri). 

Ed invero l’Ordinanza, dopo aver disposto, col concorde avviso del Ministero della salute ed in linea col Piano nazionale del 12 marzo 2021, criteri  di priorità nell’ordine vaccinale anzitutto in base all’età anagrafica, aggiunge che «parallelamente alle suddette categorie è completata la vaccinazione di tutto il personale sanitario e sociosanitario, in prima linea nella diagnosi, nel trattamento e nella cura del COVID-19 e di tutti  coloro che operano in presenza presso strutture sanitarie pubbliche private». Anche tale ordinanza, quindi, per quanto concerne le priorità, identifica come beneficiari tutti coloro che operano in presenza presso strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private. Confermando così che, sul piano del diritto positivo, i lavoratori che operano in presenza nelle medesime strutture rappresentano una categoria posta sullo stesso livello di rischio del personale sanitario e sociosanitario, in prima linea nella diagnosi, nel trattamento e nella cura del COVID-19. 

Tale importante provvedimento non soltanto risolve i dubbi sulla praticabilità dell’interpretazione qui accolta (sotto il profilo della corretta gestione della profilassi vaccinale), ma conferma pure, per tale altra via, come per i lavoratori esposti al medesimo rischio non si possa giustificare alcuna differenza, non soltanto sul piano dell’accesso privilegiato, ma neppure sul piano dell’assoggettamento all’obbligo del vaccino. 

Una volta garantito l’accesso alla vaccinazione (e con priorità secondo l’ordinanza n. 6 del 9 aprile 2021) a tutti i soggetti che lavorano in presenza nell’ambito delle strutture socio sanitarie, l’esclusione dei medesimi soggetti dall’ambito dei destinatari dell’obbligo di cui all’art. 4 del decreto legge n. 44/21 creerebbe peraltro soltanto inutili discussioni e complicazioni pratiche; perché essi rimarrebbero comunque assoggettati alle norme generali del T.U. in materia di vaccinazione nei luoghi di lavoro a rischio, la cui applicazione incombe sempre a carico del datore di lavoro anche dopo il d.l. n. 44/21 (per come risulterà pure dall’analisi che segue sui profili sistematici del decreto legge).

 

6. Il profilo sistematico

Il principio dell’obbligo vaccinale dettato dal d.l. n. 44/21, con atto avente valore di legge, soddisfa l’art. 32 Cost. sul piano formale, ma anche sul piano sostanziale, essendo richiesto in materia al legislatore (Corte cost. n. 118/2020 e n. 268/2017) di ricercare un risultato equilibrato attraverso lo strumento più adatto (tra l’obbligo e la raccomandazione), in funzione del raggiungimento degli scopi perseguiti, delle variabili sensibilità del momento e del livello di adesione alla campagna vaccinale da parte delle platee dei destinatari.  E se questa copertura costituzionale vale in generale per tutti i cittadini, ancor di più essa vale quando l’obbligo si dirige nell’ambito di un rapporto come quello di lavoro sociosanitario, specificamente contrassegnato dal contatto sociale con categorie di persone fragili.

Pur tuttavia, anche dopo il d.l. n. 44/21, il dilemma dell’impatto dei vaccini sul rapporto di lavoro, di cui si diceva all’inizio, rimarrà. E si riproporrà man mano che la campagna vaccinale andrà avanti con la messa a disposizione dei vaccini per altre categorie di lavoratori, in relazione a tutte le mansioni in cui esista il rischio di contatti interpersonali, anche al di fuori degli ospedali e delle strutture sanitarie e socio assistenziali. 

Man mano che il piano generale di vaccinazione farà il suo corso ed altri lavoratori verranno chiamati alla vaccinazione, prenderà corpo la consueta domanda: cosa deve fare il datore di lavoro se questi lavoratori - il cameriere, il barista, la cassiera del supermercato, l’istruttore della palestra, l’autista dello scuolabus, la maestra dell’asilo, ecc. - non intenderanno vaccinarsi a fronte del rischio? La domanda originaria da cui tutto muove, attende risposta anche dopo il d.l. n. 44/21 e la previsione dell’obbligo vaccinale per il settore sanitario. 

Ovviamente il fatto che la legge abbia dettato una disciplina speciale, prevedendo l’obbligo per gli operatori sanitari, ha già consentito di dire, con il classico argomento a contrario, che per tutti gli altri lavoratori non esista obbligo di sorta. Rendendosi così manifesto il vizio insito in un ragionamento che rifiuta in sostanza di confrontarsi con le norme vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, le quali con l’arrivo dei vaccini sarebbero state poste in stato di ibernazione e sottratte a qualsiasi forza vitale. 

Lo stesso errore commesso da chi, prima di questo decreto legge, pretendeva (in ragione del finto scudo offerto dell’art. 29 bis della legge n. 40/2020) di cristallizzare le regole di sicurezza nell’ambito dei protocolli, mentre esse sono per loro natura dinamiche ed aperte alle innovazioni della scienza e della tecnica.  

E’ chiaro, invece, che non si possa argomentare da una norma speciale per negare validità alla disciplina generale del T.U.; e che per tutte le attività non regolate dalla disciplina del decreto legge n. 44/2021, la soluzione preferibile andrebbe ricercata, come avrebbe detto un  maestro del calibro di Luigi Mengoni, mantenendosi  sistematicamente a contatto col problema, cioè seguendo nel sistema, senza alcuna frammentarietà, tutte le norme di legge vigenti che si occupano del rischio Covid e regolano le misure di prevenzione.  E su si rinvia alla ricostruzione impeccabile effettuata da Raffaele Guariniello nel c.d. decalogo pubblicato poco tempo fa.[6]

Con il decreto legge n. 44/20221 siamo davanti ad una legge speciale che parte dalla considerazione dei rischi elevati in ambito sanitario, emersi dai dati Inail per il 2020 che confermano l’impatto del Covid all’interno di un settore dove si è verificato il maggior numero di infortuni mortali e l’aumento più alto della percentuale di infortuni rispetto all’anno precedente (i casi si sono triplicati). 

La normativa speciale stabilisce una sospensione ex lege dei lavoratori che interpellati dall’autorità sanitaria pubblica, attraverso un procedimento ad hoc ed entro i termini ivi indicati, omettono di vaccinarsi. Ma non cancella il TU n. 81/2008 e non può esautorare il ruolo del datore come soggetto garante della tutela della salute nei luoghi di lavoro e gli obblighi stabiliti a suo carico dall’ordinamento.  

Se invece si pensa che non esistano più le norme del TU o che siano state abrogate bisognerebbe dirlo chiaramente. Lo schema dell’ordinanza di Belluno vale ancora? Bisogna dire chiaramente, anche in relazione ai nostri obblighi in sede europea, se si considera il Covid un rischio generico; se non va aggiornata la valutazione del rischio, se non va fatta la sorveglianza sanitaria, se è abrogata la norma sull’infortunio sul lavoro Covid e la protezione dell’assicurazione INAIL.

A chi dopo questa legge, valevole solo per il settore sociosanitario, sostenga una sorta di liberi tutti, rimarrà di rispondere alla domanda su come si risolve, in tempo di pandemia e con oltre 110.000 morti, il conflitto tra la libertà di non curarsi e la tutela della salute in tutti gli altri differenti settori. 

 

[1] Esiste oramai una vasta letteratura in proposito, su cui un’ampia ricostruzione è effettuata da ultimo da Paolo Pascucci e Angelo Delogu, in L’ennesima sfida della pandemia Covid-19: esiste un obbligo vaccinale nei contesti lavorativi?, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi. Inoltre, sulle varie opzioni dottrinali v. L. Zoppoli, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in http://www.rivistalabor.it/, 22 gennaio 2021. Per una ricostruzione del dibattito anche. P. Iervolino, Vaccinazione e pandemia tra diritto ed etica, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, 8 febbraio 2021. Nonché  le opinioni di C. Cester e Aldo De Matteis in Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor on line; ed inoltre, R. Riverso, L’obbligo del vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Questione Giustizia, 2021 (nonché in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi).

[2] Si fa riferimento agli interventi, tutti pubblicati on line nelle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, di Matteo Verzaro, ECCE LEX! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari; Franco Scarpelli, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi; Aldo De Matteis, Il decreto - legge sull’obbligo di vaccino del personale sanitario; Carlo Pisani, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione.

[3] Matteo Verzaro, ECCE LEX! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, cit.    

[4] Franco Scarpelli, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, cit.

[5] Matteo Verzaro, ECCE LEX! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, cit.

[6] Una vasta e recente ricostruzione delle prescrizioni impartite in materia dalla fitta trama normativa, appunto, in R. Guariniello, Decalogo Covid-19 dalla valutazione del rischio alla vaccinazione, in Ipsoa, Quotidiano giuridico. E’ impressionante vedere quante norme interne e comunitarie esistano a proposito del vaccino efficace contro l’agente biologico (e quindi anti Covid) e degli obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti e del medico competente (tenuti a mettere a disposizione i vaccini per quei lavoratori che non sono immuni all’agente biologico presente nella lavorazione svolta).

20/04/2021
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