Magistratura democratica
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Le domande di Questione Giustizia a Ezia Maccora, presidente aggiunta sezione GIP-GUP del Tribunale di Milano

di Ezia Maccora
presidente gip Tribunale Milano, vicedirettrice di Questione Giustizia

In un periodo di aspre ed incessanti polemiche sulla giustizia e sulla magistratura, il Parlamento è prossimo all’approvazione di un disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della magistratura.
Il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi, ha posto a magistrati, diversi per età e per le funzioni svolte, alcune domande – volutamente sempre le stesse – sui principali aspetti della vicenda istituzionale in corso: la valutazione del progetto di riforma; il giudizio sulla scelta dell’astensione dal lavoro; le trasformazioni in atto nella magistratura; i percorsi da intraprendere per riconquistare la fiducia dei cittadini dopo gli scandali sulle nomine. 
Lo scopo dell’iniziativa è quello di rappresentare - in termini più approfonditi ed argomentati di quanto sia possibile sui media generalisti - la pluralità dei punti di vista e delle prospettive che coesistono in seno alla magistratura.
 
 

Qual è la tua valutazione complessiva dell’attuale progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario? Quali sono i suoi aspetti più positivi e condivisibili e quali i suoi tratti più negativi?

Il Parlamento, anche in considerazione del raggiungimento degli obiettivi del PNRR, ha già approvato due riforme, nel settore civile e in quello penale, e sta ora discutendo quella ordinamentale. Un trittico ambizioso della Ministra della Giustizia, come tu direttore lo hai giustamente definito sulle pagine di questa rivista, che si afferma essere stato pensato per il recupero di efficienza, celerità e competitività della nostra giustizia. 

In tutte e tre i settori di riforma la scelta della Ministra Cartabia è stata quella di prendere come testo base il disegno di legge presentato dal Ministro Bonafede, di nominare una commissione tecnica presieduta da autorevoli giuristi (rispettivamente Luiso, Lattanzi e Luciani) di presentare dei maxi emendamenti al testo base. 

Gli elaborati finali delle commissioni sono stati oggetto di importanti e sostanziali modifiche per la mediazione politica che ne è seguita, che ne ha snaturato l’impianto complessivo. L’iter più complesso è sicuramente quello che sta coinvolgendo la riforma ordinamentale, già approvata alla Camera ed ora in discussione al Senato. Da notizie di stampa abbiamo appreso in questi giorni che sono state presentate 260 proposte di modifiche. Il testo approderà in aula dopo il voto del 12 giugno sui referendum. Anche in questo caso è prevedibile che il risultato finale sarà frutto di ulteriori mediazioni e come tale conterrà e farà convivere filosofie molto diverse tra loro. 

Nei giorni scorsi è intervenuto anche il Presidente del Consiglio Draghi invitando il Senato ad approvare velocemente la riforma «perché esse serve anche ai magistrati dato che ne rafforza credibilità e terzietà». Affermazione francamente discutibile.

L’assenza di un testo definitivo su cui ragionare rende allo stato difficile formulare una valutazione definitiva, anche se già ora può constatarsi la spinta non condivisibile ad esaltare la sola produttività. Peraltro trattandosi in parte di una legge delega molta della disciplina di dettaglio e specificazione sarà affidata ai decreti delegati.

Questa premessa è necessaria, perché occorre essere consapevoli sia della compresenza nel governo di politiche contrastanti sulla giustizia sia della concreta agibilità politica che potrà determinarsi dopo il voto sui referendum. La situazione, come era prevedibile, potrebbe anche, ma speriamo di no, aggravarsi ulteriormente. D’altra parte la materia ordinamentale è sempre stata fertile terreno di scontro. L’auspicio è che si sappia fare fronte ad incursioni che potrebbero ulteriormente snaturare e peggiorare il disegno di legge approvato alla Camera. In ogni caso il risultato finale sarà presumibilmente molto più problematico dei testi approvati negli altri due settori, quello civile e quello penale, che ho sopra ricordato. 

Con questa premessa mi limito ad alcune veloci considerazioni. 

Nel testo all’esame del Senato coesistono aspetti positivi e negativi. In questa sede, per ragioni di sintesi, evidenzio quelle che a mio giudizio sono le criticità poste a base dello sciopero; fermo restando che sussistono anche altri punti critici come la scelta del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che di fatto mortificherà la rappresentanza del pluralismo delle idee e avvantaggerà le due correnti più forti, nonostante si tratti di un organo di rilievo costituzionale che non deve garantire “ governabilità” e come tale non necessita di maggioranze stabili. [1]

L’attenzione di molti, anche nelle interviste pubblicate sulla Rivista in questi giorni, si è concentrata sull’art 3 del disegno di legge n. 2681 ed in particolare sulla lettera g) che ai fini delle valutazioni di professionalità demanda al consiglio giudiziario di acquisire le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di «gravi anomalie» in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi o nei gradi del procedimento …..e sull’istituzione, alla successiva lettera h), del fascicolo per la valutazione del magistrato ed in particolare della documentazione utile a valutare la sussistenza dei caratteri di «grave anomalia» in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi dei procedimenti e del giudizio. 

La norma come formulata non mi pare irragionevole e per questo non mi unisco a chi paventa il rischio di una gerarchizzazione della magistratura e di un controllo da parte delle giurisdizioni “superiori”. L’accertamento riguarda infatti la situazione patologica di non accoglimento delle richieste o di riforma di decisioni in percentuali che non possono che assestarsi, per costituire «gravi anomalie», in misure molto alte (dal 70% in su). Credo che come cittadini prima ancora che come magistrati, dovremmo essere preoccupati di un pubblico ministero che registra un non accoglimento delle richieste di misure cautelare e di un giudice che veda la riforma delle proprie decisioni in quelle percentuali. Riteniamo veramente che in questi casi non si ponga un problema di adeguatezza di professionalità ? 

Peraltro la definizione di «grave anomalia» e in particolare l’utilizzo dell’aggettivo «grave» restringe ancora di più il campo rispetto alla disciplina oggi esistente, prevista dalla circolare del Consiglio Superiore n. 20691 del 2007, che in attuazione dell’articolo 11 della legge 160 del 2006, include tra i parametri per valutare la capacità del magistrato l’esito nelle successive fasi e nei gradi del procedimento dei provvedimenti giudiziari emessi o richiesti …da valutarsi ove presentino caratteri di «significativa anomalia»...

Mi rendo conto della differenza che esiste tra una indicazione inserita in normativa primaria rispetto a quella presente nella normativa secondaria ma non vi è dubbio che l’utilizzo nel disegno di legge 2681 dell’espressione «grave anomalia» dà una maggiore garanzia rispetto a quella di «significativa anomalia» esistente nella circolare consiliare vigente perché mira a rilevare effettivamente solo la patologia. 

Non è quindi su questo aspetto che mi convincono le severe critiche formulate dall’associazione nazionale magistrati.

Diverso è invece il mio giudizio in relazione alla disciplina prevista alla lettera g) del disegno di legge sopra citato laddove stabilisce «che il consiglio giudiziario acquisisca in ogni caso a campione i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio». Un’acquisizione che essendo prevista a campione, e non potendo per ciò rappresentare una «significativa anomalia», legittima la preoccupazione di chi evidenzia il rischio futuro di un maggior conformismo della giurisprudenza, dato che, per come è stata formulata, non tiene conto della complessità della valutazione affidata al magistrato e del fisiologico mutamento delle decisioni che può avvenire nei diversi gradi di giudizio, anche per un mutamento della regola interpretativa. Da questo punto di vista sarà molto importante seguire, se la norma sarà mantenuta, i decreti delegati che dovranno specificare anche cosa s’intende, ad esempio, per scostamento della decisione nei gradi successivi, non potendo immagino riguardare una mera modifica della pena (per concessione ad esempio di una circostanza attenuante) o una modifica della condanna alle spese nel giudizio civile. 

Molto grave, a mio giudizio, è la riduzione drastica del passaggio di funzioni tra requirente e giudicante prevista nel disegno di legge. Rimango infatti convinta del valore profondo dell’appartenere tutti ad una unica cultura della giurisdizione, avendo sperimentato nel corso degli anni, che i pubblici ministeri che fin dall’inizio delle indagini condividono una seria cultura della prova sono soprattutto quelli che hanno svolto anche la funzione giudicante. 

In ogni caso prevedere un solo passaggio tra le diverse funzioni, è all’evidenza un aggiramento della previsione Costituzionale. 

Il tema è tra quelli che da tempo vedono una profonda divisione tra i giuristi: lo si affronti dunque nelle sedi corrette senza pervenire ad una modifica così strutturale attraverso legge ordinaria. 

Nel numero 2/2021 della trimestrale di QG, dedicato al Pubblico Ministero e allo Stato di diritto in Europa, si ricorda che esiste un modello di pubblico ministero previsto dalla Costituzione, particolarmente apprezzato in Europa, e che per cambiarlo occorre appunto modificare la Costituzione. 

Trovo ancora assolutamente negativa la scelta del disegno di legge di agire sulla leva del disciplinare, trasformando ad esempio lo stesso programma di gestione da strumento di controllo dell’attività della sezione e dell’ufficio a strumento di controllo del singolo giudice.

Per ragioni di sintesi mi fermo qui, evidenziando conclusivamente come il testo, con i suoi aspetti positivi e negativi, sia all’evidenza frutto di spinte contrapposte e sicuramente non rappresenta quell’intervento organico auspicato per contribuire a ridare credibilità alla macchina della giustizia. C’è il rischio concreto, pigiando sul pedale dell’efficientismo produttivistico, di travolgere la giurisdizione di qualità.  

 

Contro il progetto di riforma l’ANM ha indetto uno sciopero. Decisione giusta o criticabile? Una scelta necessaria oppure evitabile (o almeno procrastinabile) in favore di altre possibili iniziative da adottare nel corso dei lavori parlamentari?

Lo sciopero è sempre stato uno strumento ritenuto dai magistrati l’extrema ratio.

Nel corso degli anni è stato indetto, peraltro in pochissimi casi, quando si era in presenza di situazioni particolarmente gravi che toccavano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. E l’associazione era pervenuta a tale proclamazione solo dopo essersi messa in ascolto del sentire di tutta la magistratura e dopo aver coinvolto l’opinione pubblica, l’accademia, l’avvocatura, cercando di instaurare un dialogo costruttivo con il mondo politico anche nei momenti più difficili. 

La proclamazione del 16 maggio per i tempi e per i modi che l’hanno caratterizzata è sembrata a tanti non opportuna e comunque non utile in questo momento storico.

Innanzitutto perché l’Associazione non si è fatta carico della fase che il Paese sta vivendo ed in cui questa proclamazione si è inserita: le paure che sono entrare nella vita quotidiana di tutti i cittadini a far data dal marzo 2020, la crisi economica successiva alla pandemia, la tragedia della guerra alle porte della nostra Europa. 

L’opinione pubblica, alle prese con tali eventi drammatici, non è stata catturata dalle ragioni di questa scelta e la stessa cultura giuridica non si è schierata a fianco dell’associazione, come accaduto in passato, perché non ritiene questa riforma, benché fortemente criticabile in certi passaggi, in contrasto con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura[2]. 

A torto o a ragione l’Anm non è riuscita a veicolare le proprie preoccupazioni e non ha trovato condivisione e alleanze[3]. 

Il rischio di isolamento della magistratura dal Paese, in un contesto in cui si fatica a rendere giustizia in tempi ragionevoli ed in cui la fiducia nella magistratura è scesa al 35%, è stato fortemente avvertito da tanti magistrati che hanno scelto di non aderire allo sciopero, ritenendolo in questa congiuntura storica un mezzo non utile, pur condividendo un giudizio in parte negativo sul progetto di riforma.

La mancanza di duttilità registrata ad esempio nella scelta della Giunta di non differire in avanti la giornata di astensione alla luce dei tempi nuovi dell’iter parlamentare, con l’audizione anche dell’Anm alla commissione giustizia del Senato, è apparsa veramente poco comprensibile soprattutto se si considera che sarebbe stato possibile utilizzare un più ampio spazio temporale per riaprire un dialogo con le Istituzioni parlamentari e di governo e per organizzare momenti di confronto con l’esterno che in passato ci hanno permesso di avere una magistratura più unita, e le cui preoccupazioni erano senz’altro più comprese e condivise all’esterno.

 

Al di là dei luoghi comuni - il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - l’esito dello sciopero fotografa una divisione a metà della magistratura. Pensi che questo dato sia dovuto a fattori contingenti, concernenti “questa” specifica astensione, o che esso rispecchi più profonde trasformazioni e differenziazioni verificatesi nel corpo della magistratura? 

Siamo di fronte sia a fattori contingenti sia a trasformazioni nel corpo della magistratura.

L’esito dello sciopero fotografa una dirigenza dell’associazione e dei gruppi associativi che fatica a mettersi in ascolto del sentire di tutta la magistratura, anche perché le sedi tradizionali di confronto, dove le diverse ragioni possono essere portate a sintesi, sono oggettivamente poco partecipate. L’assemblea generale che ha registrato la presenza, anche per delega, di meno di 1300 votanti su 9000 iscritti, avrebbe dovuto essere un significativo campanello di allarme, ma non è stato percepito come tale e non aver procrastinato in avanti la giornata di astensione è stata vissuta da molti come una ennesima forzatura che non ha favorito il raggiungimento di quelle adesioni registrate in passato.  
Peraltro la situazione è ancora più grave di quella che le percentuali di adesione (48%) e non adesione (52%) riportano. Ho sentito tante colleghe e tanti colleghi dire «aderisco solo perché è la mia Anm che me lo chiede, ma non condivido questa forma di protesta».

Nel contempo occorre registrare che la magistratura vive un momento di profonda fragilità (scossa dagli eventi e dagli scandali che l’hanno coinvolta nel recente passato, soffocata da carichi di lavori impegnativi e da risorse e riforme non efficaci per dare le risposte che il Paese richiede e riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica) ed è ancora incapace di trovare vere e risolutive vie di uscita. 

Molti si sono allontanati dalle sedi associative, esprimendo attraverso questo gesto una forte critica verso l’associazionismo e le correnti, ritenute a torto o ragione corpi intermedi incapaci di riscattarsi e riscattare l’onore della quasi totalità dei magistrati che ogni giorno esercitano la propria funzione con rigore e serietà, e soprattutto con grande dignità. 

Stiamo attraversando una fase particolarmente complessa che richiede ben più ampi luoghi e tempi di riflessione e confronto e che mi viene difficile liquidare qui in poche battute.


Molti dei principi fondanti l’assetto della magistratura sono "controintuitivi". Ad esempio, l’eguaglianza di quanti amministrano giustizia e la ricerca di una elevata professionalità “media” in luogo delle graduatorie dei migliori si pongono su di una lunghezza d’onda molto diversa da quelli di altri settori professionali. È ancora possibile, come è avvenuto in passato, spiegare ai cittadini il significato di questi valori e invitarli a difenderli come loro beni? Attraverso quali percorsi e quali autocritiche sul carrierismo, sulle attuali valutazioni di professionalità, sul rispetto dell’etica?

E’ un’annosa questione. Si fa da sempre fatica a spiegare ai cittadini la specificità della nostra professione e soprattutto che le prerogative che accompagnano la nostra funzione sono poste a tutela dei loro diritti. Anche perché l’esperienza che molti vivono nel contatto con la giustizia non è purtroppo positiva. I tempi lunghi delle decisioni costituiscono la maggiore responsabilità che ci viene addebitata. E chi aspetta giustizia fa fatica a comprendere perché non riesce ad ottenerla, e se il numero degli insoddisfatti aumenta si comprende perché il livello di fiducia nella magistratura ha toccato il 35%. Il passo è breve per ritenere le prerogative dei meri privilegi. A ciò si sono uniti gli scandali romani.

Spesso ricordo ai giovani che si accostano al nostro mondo una riflessione di Luigi Ferraioli: «Ogni giudice, nella sua lunga carriera, incontra migliaia di cittadini: come imputati, come parti offese, come testimoni, come attori o come convenuti. Naturalmente non ricorderà quasi nessuna di queste persone. Ma ciascuna di queste, indipendentemente dal fatto che abbia avuto torto o ragione, ricorderà e giudicherà il suo giudice, ne valuterà l’equilibrio o l’arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni oppure l’ottusità burocratica, l’imparzialità o il pre-giudizio. Ricorderà, soprattutto se quel giudice gli ha fatto paura o gli ha suscitato fiducia, e solo in quest’ultimo caso sarà disponibile a difenderne l’indipendenza». 

La ripropongo qui perché mi chiedo: siamo veramente consapevoli di quanto conta il nostro approccio con i cittadini? E quanto possiamo recuperare in termini di fiducia con il nostro comportamento come singoli, come associazione, come gruppi? 

Quando “la mia Anm” ha fissato la giornata di astensione per il 16 maggio mi sono chiesta: lo sciopero è un mezzo utile per veicolare le ragioni critiche che questo progetto di riforma contiene? Come ha evidenziato Luisa De Renzis su queste pagine, siamo certi che la magistratura, per essere ascoltata sulle riforme, ha la necessità di scioperare?[4] 

Tanti magistrati sono preoccupati proprio del rapporto della magistratura con il Paese in questa congiuntura storica e lo hanno ritenuto cruciale per determinarsi. 

Alcuni hanno ritenuto che il messaggio da inviare dovesse essere diverso, come mi ha scritto un collega di Milano[5] prima del 16 maggio: «non scioperiamo ma lavoriamo, nonostante una riforma in parte sbagliata, facciamo la nostra parte per garantire i diritti, per assicurare i fondi del Pnrr, per dare al Paese una giustizia efficiente, rendiamo l’Italia appetibile agli investimenti stranieri. Solo lavorando stiamo dalla parte dei cittadini che soffrono in un periodo di pandemia e di guerra contro una politica che fa scelte errate». 

Sono i nostri comportamenti quotidiani, nel lavoro, nel governo autonomo, nell’associazionismo, che possono aiutarci a superare la tempesta che ci ha travolto in questi ultimi anni e a ridare credibilità alla nostra preziosa e difficile funzione. 

 

Diamo appuntamento ai lettori tra qualche giorno con l’ultimo confronto.

 

 
[1] Il recente referendum consultivo indetto dall’Associazione nazionale magistrati si è espresso all’81% a favore di sistemi elettorali ad effetti proporzionali.

[2] Intervista di Gaetano Silvestri al quotidiano La stampa del 20 aprile 2022: «Lo sciopero dei magistrati è l'extrema ratio. Se ci fosse un atto eversivo della Costituzione, capirei. Ma non è proprio questo il caso. Quando i magistrati scioperarono contro le leggi di Silvio Berlusconi si era di fronte a un attacco frontale. C'era il pericolo concreto che la magistratura venisse, come dire, militarizzata. Ora, di questa riforma, può piacere o non piacere qualche aspetto, ma mi sembra difficile considerarla un attacco alla Costituzione».

[3] Il 17 maggio Luigi Ferrarella, sul Corriere della Sera, fotografa inesorabilmente la realtà milanese: «La crepa. E poi la voragine. La crepa in una marmorea colonna della (perciò chiusa per sicurezza) Aula Magna del palazzo di Giustizia di Milano evita che risalti la rarefazione della cinquantina di toghe traslocate nella piccola saletta-avvocati per l’assemblea di spiegazione (con il presidente Giuseppe Santalucia) delle ragioni dello sciopero, il primo dopo 12 anni, indetto dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata alla Camera e ora in esame al Senato. Ma la crepa diventa voragine quando in serata arrivano i dati veri ….e nemmeno raggiungono la quota salvezza del 50%...».

[4] Non scioperiamo per protestare ma per essere ascoltati, documento dell’assemblea nazionale dell’Anm del 30.4.2022.

[5] A Milano la percentuale di astensione è stata del 36,43%.

01/06/2022
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