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La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?

di Giuseppe Bronzini
presidente di sezione, Corte di cassazione
Nuovo intervento, dopo l’obiter della n. 269/2017, della Corte costituzionale sul tema dell’applicabilità diretta della Carta di Nizza quando la norma interna viola anche le disposizioni costituzionali. Le precisazioni della Corte sembrano scongiurare una rotta di collisione con l’orientamento della Corte di giustizia, ma a prezzo di una più estesa limitazione della discrezionalità dei giudici comuni

1. Il nuovo intervento della Corte delle leggi

In un complesso caso di pretesa violazione delle normativa europea sulla privacy concernente l’obbligo a carico delle Pubbliche amministrazioni di pubblicare sui loro siti la documentazione attestante i compensi (ed i rimborsi) ricevuti dai dirigenti pubblici per l’espletamento dei loro incarichi nonché le dichiarazioni relative ai dati reddituali e patrimoniali degli stessi e dei loro congiunti il Tar del Lazio sollevava incidente di costituzionalità nel quale, oltre la violazione di alcuni parametri costituzionali interni (artt. 2, 3, 13 e 117 Cost.), prospettava quella degli artt. 7, 8, 52 della Carta dei diritti Ue, dell’art. 8 Cedu e di varie norme della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali (ora notoriamente sostituita dal Regolamento 2016/679/UE.). La Corte costituzionale, con la sentenza qui in discorso del 21 febbraio 2019, ha ritenuto che l’obbligo di pubblicazione di tutti i dati reddituali e patrimoniali fosse illegittima in relazione all’universo dei circa 150.000 dipendenti pubblici (e dei loro parenti) in quanto manifestamente sproporzionata rispetto al perseguimento dei fini perseguiti dal legislatore e che quindi tali obblighi dovessero limitarsi alla molto più ristretta platea dei dirigenti apicali, mentre tale sproporzione non è stata ravvisata per il primo genere di obbligo di pubblicazioni concernenti i compensi ricevuti; si tratta infatti di «consentire in forma diffusa il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e la valutazione circa a congruità − rispetto ai risultati raggiunti ed ai servizi offerti − di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della PA» ( punto 5.2.) La valutazione delle norme interne è stata condotta alla stregua del parametro interno della “ragionevolezza” integrato da riferimenti alla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte di Strasburgo in ordine al prioritario «principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali» (punto 3.1) rimarcando che l’orientamento delle Corti europee è allineato con quello della Corte delle leggi, sicché occorre procedere in concreto ad un bilanciamento tra le esigenze di trasparenza amministrativa (certamente riconducibili ad un interesse pubblico) e il rispetto della riservatezza personale. Nell’ultima parte della motivazione ove si conclude per una parziale illegittimità di una delle norme denunciate la Corte richiama con energia due decisioni della Corte di Strasburgo che ritengono necessario evitare una «sete di informazioni sulla vita privata degli altri» che può rasentare una forma di «voyeurism». In queste brevi note a caldo, anche servendomi dei primi preziosi commenti già usciti sulla sentenza di Antonio Ruggeri e Oreste Pollicino e Federica Resta [1] esamineremo non tanto il merito del decisum della Corte quanto le sue precisazioni sul tanto discusso obiter della sentenza 269 del 2017 in ordine ai casi cosiddetti di “doppia pregiudizialità” ed ai principi metodici che dovrebbe seguire il Giudice nazionale. Come noto questa decisione ha sollevato reazioni piuttosto vivaci non solo della dottrina ma anche giurisprudenziali in quanto tre provvedimenti della Corte di cassazione hanno ritenuto di non seguire le priorità, su cui brevemente torneremo, indicate dalla Corte delle leggi ma hanno anche osservato che si trattava di un obiter non vincolante, mentre un quarto provvedimento, pur seguendo le contestate indicazioni, ha chiesto, nell’ordinanza che ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con qualche punta polemica chiarimenti alla Corte cui ci sembra la n. 20 offra una qualche risposta [2]. Certamente in alcuni passaggi il nuovo intervento della Corte costituzionale sembra in qualche modo tener conto delle obiezioni mosse al precedente obiter ma a prezzo di una potenzialità applicativa del nuovo metodo inaugurato con la 269 molto più estesa [3].

2. Il caso

Occorre dire che il caso esaminato nella 20 presenta alcune peculiarità posto che nell’ordinanza di rimessione (effettuata ancor prima della 269) il Tar riteneva che le disposizioni di cui alla direttiva sulla privacy del 1995, neppure se interpretate alla luce degli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti, potessero essere applicate direttamente in ordine ai principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in tema di trattamento dei dati personali perché questi sarebbero solo dei “criteri” di riferimento per effettuare una ponderazione della conformità della disciplina censurata e quindi le relative norme che le affermano non self-executing; il Tar pur riconoscendo che la materia è ampiamente coperta dalla legislazione sovranazionale ha privato questa legislazione di applicabilità diretta rimettendo la questione della rilevanza del diritto dell’Unione nelle mani nella Corte delle leggi. Rientriamo quindi a ben vedere nella prima parte dell’obiter della 269 che riguarda proprio l’ipotesi in generale del diritto sovranazionale non autoesecutivo per il quale la Corte raccomanda al giudice ordinario l’incidente di costituzionalità e non un rinvio pregiudiziale, prescrizione metodica che ha destato meno polemiche [4] perché non riguarda, ovviamente, il potere di disapplicazione. La ragione per la scelta del Tar risiederebbe in precedente piuttosto lontano nel quale è stato demandato al giudice ordinario l’accertamento in concreto della sussistenza della contestata proporzionalità; come hanno già lucidamente e osservato Oreste Pollicino e Federica Resta: «Sarebbe stato davvero cosi inutile un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia?» e «trattandosi di disposizioni diritto dell’Unione dall’indubitabile portata self-executing, non avrebbe potuto essere lo stesso giudice amministrativo ad operare quella valutazione, senza rimettere la questione alla Corte costituzionale?». Si tratta peraltro di precedenti risalenti ad un’epoca nella quale la Carta dei diritti era ancora priva di effetti vincolanti e quindi il Tar si preclude anche la possibilità di accertare se gli artt. 7 e 8 della Carta siano applicabili direttamente ed ex se (eventualmente sulla base di accertamenti di fatto rimessi per loro natura al giudice ordinario), questione che può essere delibata solo dalla Corte di giustizia che gode del monopolio esclusivo nell’interpretazione del diritto dell’Unione (e quindi a fortiori di quello primario come la Carta). Il punto è che la Corte delle leggi ha seguito in tutto e per tutto l’impostazione del Tar mentre certamente era possibile anche d’ufficio rettificarla ed eventualmente sollevare un rinvio pregiudiziale per porre alla Corte del Lussemburgo quelle domande che allo stato risultano inevase come si dirà più avanti. La Corte costituzionale si è in effetti impadronita del “caso” come occasione per ritornare sulla 269 precisando ulteriormente i contorni dell’indicazione già offerta al giudice ordinario della preferibilità dell’incidente di costituzionalità sul rinvio pregiudiziale, anche se con qualche salvaguardia in più del circuito giudiziario sovranazionale “Corte di giustizia-giudici comuni”. Dal complesso della motivazione della sentenza non si evince se la Corte delle leggi alla fine condivida l’idea del Tar secondo la quale la direttiva del 95 non sarebbe sul punto in questione direttamente applicabile né se ciò si possa dire degli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti avendo eliminato parzialmente una delle due norme impugnate alla luce della violazione del principio di ragionevolezza integrato dal richiamo alla giurisprudenza delle Corti europee, il che lascia scoperta tale questione per la norma non dichiarata incostituzionale e per l’aspetto considerato legittimo dell’altra disposizione ritenuta in parte contraria a Costituzione.

3. Le precisazioni rispetto all’obiter della 269

Lasciando da parte le questioni di merito vanno ora esaminate attentamente le affermazioni con cui la Corte ritorna su quanto affermato nella 269 per valutare se si sia tenuto davvero conto delle obiezioni mosse a questa decisione. Ricorda la sentenza n. 20 che la precedente n. 269 stabiliva dei criteri per le scelte del giudice ordinario nei casi in cui una normativa interna violasse sia le disposizioni della Costituzione che della Carta e che le ragioni dell’obiter risiedono nel voler preservare l’opportunità di un «intervento con effetti erga omnes della Corte di leggi in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità a fondamento dell’architettura costituzionale». Già sul punto, obiettivo, dell’intervento necessario della Corte costituzionale perché dotato di efficacia erga omnes ci sarebbe da discutere; è vero che la dichiarazione di incostituzionalità di una norma contrastante con la Costituzione e/o con l’ordinamento dell’Unione è per tutti e per sempre, ma questo valorizza solo l’aspetto interno perché anche la Corte di giustizia decide con efficacia generale nel più ampio spazio giudiziario europeo anche se il decisum necessita di un’implementazione ulteriore del giudice nazionale. La rimozione della legge da parte della Corte costituzionale non contribuisce però a quel chiarimento su dimensione continentale che invece offre un rinvio pregiudiziale e poi il pronunciamento della Corte dell’Unione. Comunque nella sentenza 20 ora viene esplicitamente confermato il precedente della 269 ma, a ben guardare, con un macroscopico effetto estensivo. Infatti si ricorda che il Tar ha evocato oltre alla violazione delle disposizione della Carta anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti dagli artt. 6 e 7 della direttiva del 95 che «si presentano in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che ne forniscono specificazione o attuazione ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme e che partecipano all’evidenza dello loro stessa natura come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta». Qui sembra si dica che anche per il diritto secondario dell’Unione che chiama in gioco oggettivamente o materialmente i diritti protetti dalla CDFUE valgano le indicazioni della 269 con una chiara vis espansiva del metodo ivi inaugurato che ora trascende il piano originario per allargarsi all’intero corpus del diritto sovranazionale (quali sono alla fine le direttive che non pongono questioni relative alla salvaguardia dei fundamental rights protetti dal Testo di Nizza posto che già con la Commissione di Prodi gli atti legislativi dell’Unione devono tenere conto di tali diritti ed attestano nei loro consideranda preliminari i termini del rispetto di tali prerogative?). Su questa base la Corte delle leggi difende la scelta del Tar in quanto «“la prima parola” che questa Corte per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e degli interessi in gioco» e quindi non parla più espressamente di una sovrapposizione di tutele tra le due Carte [5]. Va ricordato come la Corte di cassazione nella già ricordata sentenza Maturi nel 2018, in un caso di discriminazione per età delle ballerine nell’accesso alla pensione, dopo il rinvio pregiudiziale e la dichiarazione di contrarietà della norma interna al diritto dell’Unione aveva ritenuto l’obiter della 269 non solo non vincolante per la sua stessa natura di obiter il giudice ordinario ma anche non pertinente perché nella decisione della Corte di giustizia la Carta (il suo articolo 21) non aveva avuto alcun rilievo essendosi la Corte del Lussemburgo basata sulla sola direttiva del 2000: la Corte di cassazione aveva quindi cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di appello di Roma che ha poi disapplicato la norma interna. La sentenza n. 20 sembra invece voler spingere i giudici ordinari sempre di più a rivolgersi alla Corte delle leggi in luogo della Corte di giustizia anche quando, come proprio nel caso della 20, la materia è regolata da tempo in modo penetrante dalle norme e dalla giurisprudenza sovranazionale che costituiscono notoriamente a livello planetario esempi paradigmatici ed esemplari di tutela del diritto alla privacy privilegiando così, dichiaratamente, l’approccio costituzionale interno su quello europeo, il che potrebbe portare a moltiplicare i casi di attrito tra la Corte del Lussemburgo e la nostra Consulta [6]. C’è però una novità importante rispetto alla 269 che certamente in qualche modo tranquillizza la preoccupazione che l’obiter (oggi ripetiamo confermato) conduca davvero a situazioni di contrasto irreversibile tra le due Corti che alla fine metterebbe in grave imbarazzo proprio i giudici comuni nella loro doppia qualità di giudici nazionali e di giudici di base del sistema di tutela dei diritti protetti dall’Unione. Si aggiunge che «resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione». Mentre nella precedente 269 il giudice comune era sollecitato a sollevare per primo l’incidente di costituzionalità e si salvava, in caso di rigetto di questa, la possibilità di un rinvio pregiudiziale ma «per altre ragioni» ora la Corte costituzionale sembra molto più permissiva in quanto nella prima parte del passaggio di cui sopra si salva il potere di rinvio pregiudiziale su qualsiasi questione ritenuta necessaria e si aggiunge che le garanzie della CDFUE e quelle della Costituzione rappresentano una sorta di doppio canale, un concorso di rimedi giurisdizionali che per natura esclude ogni preclusione. Questa precisazione sembra dare una risposta alla già ricordata domanda della Corte di cassazione su che cosa si dovesse intendere «per altre ragioni» non essendo configurabile un giudicato costituzionale interno su questioni di diritto dell’Unione a meno di non voler travolgere i principi fissati dalla Corte di giustizia. È ben vero quello che osserva Antonio Ruggeri quando annota che «in particolare, i cortocircuiti potranno aversi proprio nel caso che la Consulta dovesse essere chiamata a pronunziarsi per prima e abbia quindi rigettato la questione, nel mentre la Corte dell’Unione, successivamente interpellata, lasci intendere che sussista una violazione della normativa sovranazionale. In una congiuntura siffatta, non è chiaro – dal punto di vista della Consulta – se il giudice possa ugualmente (ma, dal punto di vista della Corte dell’Unione, debba), disapplicare la norma interna contraria a norma eurounitaria self executing ovvero se sia tenuto ad investire nuovamente la Corte costituzionale della questione, non operando in una congiuntura siffatta la preclusione che ordinariamente consegue ad una decisione di rigetto della Corte stessa». Sembrerebbe però dal passo di “apertura” della Consulta che, una volta ammesso il doppio canale di tutela e quindi l’autonomia di quello sovranazionale, questa duplicità di strade percorribili la si debba accertare in ogni conseguenza e quindi che il giudice comune possa disapplicare una norma interna avutone il comando da parte della Corte di giustizia altrimenti questa duplicità sarebbe solo fittizia in quanto l’ultima parola spetterebbe ad una Corte interna che si è già pronunciata sulla materia, il che sembra davvero paradossale.

Francamente sbagliata (e fonte potenziale di confitto con la Corte di giustizia) è l’ultima affermazione della Consulta che ribadisce sul punto ma con toni più distensivi quanto già detto nella 269: «Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti». La formula usata è dare il «proprio contributo», espressione più cooperativa rispetto a quelle usate nella 269, ma è completamente fuorviante ed estraneo al sistema giudiziario europeo voluto con i Trattati che siano le (27) Corti nazionali a poter determinare quali siano le tradizioni costituzionali comuni; peraltro il contributo di cui si parla è connotato dalla stessa Corte da finalità che invece non sono cooperative perché si tratta di sindacare se l’interpretazione dei diritti della Carta (che non può che essere quella fornita dalla Corte di giustizia) sia coerente con queste tradizioni. Un obiettivo che sembra plasticamente rivelare l’intenzione di (alcune) Corti costituzionali di volere requisire il campo semantico e garantista del Bill of rights dell’Unione, proprio ora con la Corte di giustizia ne ha rilanciato il ruolo primario nel completamento del processo di integrazione [7] con una raffica di innovative decisioni che hanno finalmente precisato l’ambito di applicabilità diretta di molte sue norme.

4. Tutto risolto?

La curiosa questione di costituzionalità su temi tipicamente “europei” del Tar Lazio e la mancata correzione da parte della Corte delle leggi (che bene avrebbe potuto sollevare lei stessa un rinvio pregiudiziale tenendo fede alla ventilata promessa di essere direttamente custode del Bill of rights dei cittadini dell’Unione) di questa impostazione ci ha impedito di sapere se gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti siano self executing ed eventualmente con quali modalità; la questione è stata risolta con parametri interni sia pure con l’integrazione dei principi sovranazionali e convenzionali, anche se resta l’impressione che quest’ultimo scrutinio non sia propriamente decisivo ma solo ad colorandum o con carattere meramente rafforzativo del primo. Non sembra dalla sentenza che sia stato davvero affrontato il tema di un bilanciamento tra l’interesse pubblico europeo ad assicurare trasparenza e controllo della pubblica opinione anche in funzione di contrasto della corruzione (obiettivi ormai rientrati nel campo di attenzione del diritto dell’Unione) e diritto alla riservatezza individuale alla luce dell’imponente apparato argomentativo utilizzato dalle due Corti europee. Se il Tar dovesse rimanere fermo alle proprie originarie convinzioni dovrebbe promuovere, ci pare, a questo punto un rinvio pregiudiziale per conoscere se la normativa che si è salvata dal vaglio della Corte delle leggi sia o meno violativa del diritto dell’Ue e segnatamente della Carta dei diritti. Rimane certamente la soddisfazione per avere la Consulta rettificato il precedente passaggio della 269 sulla possibilità di un rinvio pregiudiziale dopo l’incidente di costituzionalità (con esito negativo) solo «per altre ragioni», il che − sempre che l’interpretazione della 20 che si è prima accennata sia corretta e quindi, dopo la pronuncia della Corte di giustizia, si possa direttamente disapplicare sulla base delle indicazioni offerte da quest’ultima − elimina il pericolo di una rotta di collisione con la giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare con la sentenza Global Starnet del dicembre 2017). In effetti una disapplicazione dopo un provvedimento della Corte di giustizia salverebbe il principio del controllo di costituzionalità accentrato, anche se a livello sovranazionale come pertinente ratione materiae. Rimane però il tentativo di limitare ulteriormente la discrezionalità del giudice nazionale anche quando questi veste i panni del giudice di base europeo e così rallentare non solo la piena operatività delle norme della Carta che si presentano come auto applicative ma anche del diritto dell’Unione (che abbia qualche connessione con prerogative sancite dal Testo di Nizza), posto che anche quest’ultimo potrebbe ora essere sottoposto alla via crucis del preventivo incidente di costituzionalità. Come ho già avuto modo di osservare a proposito della 269 in questo modo si perdono gli effetti (federalizzanti?) di costruzione di uno ius commune europeo legati alle pretese di giustizia sulla base del Bill of rights di Nizza: «In chiave habermasiana esiste una chiara correlazione tra il rilievo che deve avere la Carta e la sua implementazione ad opera del giudice nazionale comune: un risultato utile della Carta era diffusamente attribuito al cosiddetto “effetto inducente” habermasiano (come ricordato anche da Stefano Rodotà) [8], come rafforzamento della cittadinanza europea che, agendo per tutelare i propri diritti, avrebbe in tal modo sviluppato la dimensione della sfera pubblica continentale (la dimensione del proprio legame istituzionale), base del successivo sviluppo costituzionale, effetto che può essere perseguito pienamente solo se viene attivato il giudice che i cittadini già conoscono ed al quale ricorrono comunemente per realizzare una tutela immediata e chiaramente riferita all’ambito europeo che mostri come l’Unione riconosca e metta in campo strumenti efficaci di tutela di quei diritti che ha voluto riconoscere come fondamentali. Lo stesso giudice nazionale viene così ad essere coinvolto in quel processo di costruzione di un legame tra europei che trascende gli aspetti meramente economici e che si fonda anche sulla sua responsabilità diretta (l’altra faccia dell’interpretazione); dall’individuazione del caso, alla ricognizione delle fonti applicabili, allo stabilire le domande da sottoporre alla Corte di giustizia sino al rinvenimento dei precedenti ed alla loro valutazione di rilevanza, etc., il tutto a partire da un’istanza di giustizia concreta. Mi sembra che questo aspetto si perda inevitabilmente (o si indebolisca talmente da far sfumare il rapporto tra la Carta e la cittadinanza europea) in canali predefiniti, nei quali il giudice viene ingessato, ne viene ritardato l’intervento, viene espropriato da molte valutazioni essenziali tra cui la strada più opportuna per rendere il prima possibile giustizia In chiave habermasiana esiste una chiara correlazione tra il rilievo che deve avere la Carta e la sua implementazione ad opera del giudice nazionale» [9]. Ripeto quanto già scritto perché questo tentativo di ingessatura dei giudici comuni appare ancor più inopportuno e certamente non necessario in un momento storico in cui la Carta viene rilanciata dalla Corte di giustizia come «principio speranza» [10] per ritrovare l’«anima perduta» del progetto europeo, anche se viene oggi saggiamente salvata, ma quasi come extrema ratio, una lontana possibilità di adeguamento finale al diritto dell’Unione, ma al prezzo di un enorme estensione del sistema voluto dalla 269 che rischia anche di veicolare sulla Corte italiana un’onda d’urto di controversie che oggi vengono risolte attraverso il dialogo diretto con la Corte di giustizia [11]. In conclusione: pur essendosi scongiurata una plateale rottura con le regole sovranazionali, anche dal punto di vista della funzionalità e dell’efficienza del sistema giudiziario interno, il livello di assestamento “metodico” raggiunto con la sentenza n. 20 non risulta ancora pienamente convincente.



[1] Cfr. A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto intero con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), in Consultaonline 23 febbraio 2019 e O. Pollicino, F. Resta, Trasparenza amministrativa e riservatezza, verso nuovi equilibri: la sentenza della Corte costituzionale, in Agenda Digitale, 24 febbraio 2019

[2] Per una trattazione delle posizioni della Dottrina dopo la 269/2019 rinvio al mio, La Corte costituzionale mette sotto tutela i Giudici ordinari nell’applicazione diretta dei diritti della Carta di Nizza. Le linee di tensione con l’orientamento della Corte di giustizia, in RGL n. 2/2018, nonché al Volume (a cura di O. Piccone, O. Pollicino, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Efficacia ed effettività, Editoriale scientifica, 2018 e l’ampia bibliografia ivi offerta. Per quanto riguarda la giurisprudenza della Cassazione si tratta della sentenza n. 12108/2018 e dei rinvii pregiudiziali disposti con ordinanza 13778/2018 e con ordinanza 451/2019, che mi sembrano seguiti dalla giurisprudenza di merito di cui all’ordinanza del Tribunale di Padova del 21 febbraio 2019 sul diniego da parte dell’Inps dell’assegno di maternità richiesto da cittadini di Stati terzi che ritiene sussistente una discriminazione connessa al possesso di permesso di soggiorno inferiore ai cinque anni e direttamente applicabile l’art. 21 della Carta dei diritti Ue e dall’ordinanza pregiudiziale del Tribunale di Napoli del 13 febbraio 2019 sugli insegnanti precari di religione. L’ordinanza della Cassazione, che ha seguito le indicazioni della Corte delle leggi, ma con toni polemici è la n. 3831 del 2018.

[3] Nota lucidamente questo tratto chiaroscuro A. Ruggeri: «La dilatazione in modo pressoché indefinito ed incontenibile dell’area in cui può affermarsi il meccanismo del sindacato accentrato di costituzionalità in vece di quello dell’applicazione diretta del diritto eurounitario al posto di quello interno con esso incompatibile e la riespansione a tutto campo del rinvio pregiudiziale dopo la sua ventilata, inopinata contrazione ad opera di Corte cost. sent. n. 269», in, La Consulta rimette a punto…, cit.

[4] Comunque critica anche questo passaggio dell’obiter S.R. Rossi (2018), La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in www.federalismi.it

[5] Ci sembra peraltro un revirement rispetto alla n. 111/2017 nella quale era stata dichiarata inammissibile una questione di legittimità costituzionale per mancata valutazione dell’applicabilità diretta delle norme dell’Unione (in materia di discriminazione tra uomo e donna, certamente coperta obiettivamente anche dalla Carta).

[6] Cfr. O. Pollicino, Metaphors and identity based narrative i constitutional adjiudication: when judicial dominance matters, leggibile nel blog dell’International Association of Constitutional law.

[7] Sulle tre sentenze sulla diretta ed orizzontale applicabilità dell’art. 31 della Carta cfr. il commento di L. S. Rossi in http://eulawanalysis.blogspot.com/2019/02/the-relationship-between-eu-charter-of.html

[8] S. Rodotà, Il diritto di avere dei diritti, Laterza, 2014.

[9] G. Bronzini, La Carta dei diritti nella crisi…, cit. p. 71.

[10] Ma anche dal Parlamento europeo nella Risoluzione del 12 febbraio 2019 (rel. Barbara Spinelli) sull’Attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione nella quale proprio nelle conclusioni finali rileva che proprio le opinioni divergenti tra Stati membri ed organi dell’Unione sull’applicabilità della Carta ne pregiudichino il «valore aggiunto» e li si incoraggia consentire un’applicazione più diretta della stessa (punti 41 e 43).

[11] Tra le giurisdizioni nazionali il giudice italiano è tra i più disponibili ai rinvii pregiudiziali e certamente tra i più sensibili nell’applicazione anche diretta della Carta e/o delle direttive.

04/03/2019
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