Magistratura democratica
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La Corte costituzionale ed il regime delle spese di giudizio nel processo del lavoro

di Rita Sanlorenzo
sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione
Con la sentenza n. 77 del 2018, la Corte costituzionale cancella la riforma del 2014 che limitava fortemente la possibilità di compensazione fra le parti all'esito del giudizio civile e affida al giudice, ed in particolare a quello del lavoro, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto.

Con la sentenza n. 77/2018, provocata da due ordinanze, una del Tribunale di Torino e una del Tribunale di Reggio Emilia, entrambi in funzione di giudice del lavoro, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2, del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 convertito nella legge n. 162/2014, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora «sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni» oltre a quelle indicate nella disposizione della assoluta novità della questione trattata o del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

Il contenuto del dispositivo reintroduce per questa via la formulazione anteriore del comma esaminato, a sua volta frutto della riforma del 2009, di cui viene data una lettura esegetica [1].

Con la pronuncia di illegittimità è, quindi, indirettamente ma contestualmente, affermata la conformità ai principi costituzionali del testo introdotto dall’art. 45, comma 11, legge n. 69/2009 («Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti»), testo decisamente più restrittivo rispetto a quello originario del 1942 e a quello riformato nel 2005 («Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti»).

L’eccezione di illegittimità è stata sollevata da due giudici del lavoro, in ragione del risultato iniquo, evidenziato nelle ordinanze di rimessione, a cui avrebbe portato, nelle controversie al loro esame, l’applicazione rigida del criterio della soccombenza, senza possibilità per il giudice di tenere conto nel regolamento delle spese processuali della peculiarità del caso concreto, con la conseguenza di un effetto deterrente sull’esercizio del diritto costituzionale di accesso alla tutela giudiziaria, anche per la parte che non abusa del processo, del tutto sproporzionato rispetto al dichiarato scopo deflattivo della norma. Partendo da queste rilievo comune, per il quale è rappresentata la violazione dei principi di uguaglianza, della garanzia del diritto di difesa in giudizio e del giusto processo (artt. 3, comma 1; 24, comma 1; 111 Cost. argomentata dal giudice emiliano anche con riferimento all'art. 117 Cost., all'art. 47 Carta dei diritti fondamentali Ue, agli artt. 6 e 13 Cedu), le due ordinanze hanno prospettato poi ulteriori differenti profili di non manifesta infondatezza di illegittimità: il Tribunale di Torino ha sottolineato la violazione del principio di uguaglianza formale (art. 3, comma 1) per l’irrazionale disparità di trattamento introdotta dalla riforma del 2014 con la previsione di ipotesi tassative di circostanze sopravvenute «gravi ed eccezionali», così escludendo la rilevanza di tutte le possibili altre di pari gravità ed eccezionalità; il Tribunale di Reggio Emilia ha configurato la possibile violazione degli artt. 25, comma 1; 102 e 104 Cost. per una indebita ingerenza del potere legislativo sull’attività giudiziaria di valutazione discrezionale ed altresì la violazione dell’art. 3, comma 2 e dell'art. 117 Cost., dell'art. 14 Cedu e dell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali Ue essendo imposto lo stesso trattamento rispetto a due parti le cui condizioni personali, processuali e di capacità di resistenza alla lite sono del tutto diverse. Viene osservato sotto questo profilo che il lavoratore, soggetto economicamente più debole, è di regola costretto ad agire giudizialmente per l’accertamento dell’illegittimità dell’atto del datore di lavoro, pregiudiziale all’accertamento del proprio diritto, nonché costretto, normalmente, a una controversia cd. a “controprova”, in cui si trova ad agire acquisendo adeguata cognizione di fatti e circostanze solo nel corso del giudizio, e questo con aggravio di oneri economici non fiscalmente detraibili (contributo unificato, Iva, costi per prestazioni professionali) dal proprio reddito imponibile, a differenza di quel che avviene per il datore di lavoro-imprenditore.

Respinte le questioni preliminari di inammissibilità, la pronuncia prende le mosse da una ricognizione storica della disciplina delle spese processuali, sottolineandone la finalità originaria che era unicamente quella di fare sopportare l’alea del processo alla parte che aveva causato la lite azionando una pretesa infondata o resistendo a una pretesa legittima [2], ed evidenzia, anche attraverso il richiamo della giurisprudenza della stessa Corte, come il principio della soccombenza e le sue possibili deroghe appartengano largamente alla discrezionalità del legislatore. È in virtù di questa discrezionalità che per oltre cinquant’anni si è mantenuta immutata la clausola generale dei giusti motivi di compensazione del comma 2 dell’art. 92 cpc, direttamente derivata dall’art. 370 del codice di procedura del 1865, essendo stato ritenuto che tale regola rispondesse «ad un evidente criterio di giustizia» (Rel. Guardasigilli al codice di procedura). L’abuso da parte dei giudici del potere di compensazione, già lamentato nel vigore del codice del 1865, aggravato da una giurisprudenza che negava il sindacato del giudice di legittimità sulla valutazione discrezionale del giudice di merito e con esso l’onere di motivazione della relativa statuizione, abuso non frenato dall’intervento normativo di imposizione di una specifica motivazione (art. 2, comma 1 della legge 28 dicembre 2005, n. 263) e dal mutato orientamento della Corte di cassazione (Sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598), ha quindi portato il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità e nel contesto di un intervento complessivo volto al contenimento del contenzioso civile, a rafforzare decisamente la regola della soccombenza per il regolamento delle spese quale mezzo deflattivo, dapprima con la legge n. 69/2009, limitando il potere di compensazione del giudice alla soccombenza reciproca o ad «altre gravi ed eccezionali ragioni», esplicitamente indicate nella motivazione e poi con l’art. 13 dl n. 132/2014, convertito nella legge n. 162/2014, introducendo due sole ipotesi tassative, oltre la soccombenza reciproca, quella della assoluta novità della questione trattata e quella del mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

Ed è quest’ultima la disposizione di cui le due ordinanze hanno chiesto l’esame alla Corte in ragione della irrazionalità della modifica peggiorativa rispetto alla disposizione precedente.

Così circoscritta la questione da esaminare, la Corte constata che l’ultimo intervento modificativo ha enucleato due sole ipotesi tassative di «gravi ed eccezionali ragioni» e afferma immediatamente l’irragionevolezza della rigidità della previsione e la violazione del principio di uguaglianza, essendo impedito di considerare fattispecie analoghe sotto il profilo della ragione che sostiene la giustificazione della deroga al principio della soccombenza, individuata nel mutamento in corso di causa del «quadro di riferimento della controversia» o nella assoluta incertezza della lite, fattispecie che possono entrambe essere dovute a fattori diversi, non riconducibili solo a un mutamento della giurisprudenza di legittimità [3] o alla mancanza di giurisprudenza su una determinata questione. Viene quindi dichiarata la violazione dei principi di ragionevolezza, di eguaglianza formale (art. 3 Cost., comma 1), del giusto processo (art. 111 Cost., comma 1) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost., comma 1) «perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti». Deve quindi essere consentito al giudice di apprezzare con prudenza tutte le possibili ipotesi che si caratterizzano per «gravità» ed «eccezionalità» al fine del regolamento delle spese, di cui le due delineate dall’art. 13, comma 1, legge n. 162/14 hanno valore paradigmatico.

Accolta in questi termini l’eccezione di illegittimità costituzionale, ritenuta assorbita la questione indicata nella sola ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia di indebita ingerenza del potere legislativo sull’attività di valutazione discrezionale riservata al potere giudiziario (artt. 25, comma 1; 102; 104; 117, comma 1, Cost.; art. 47 Cdfue; artt. 6 e 13 Cedu), la Corte affronta «il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata».

È questa la parte più significativa della pronuncia che definisce compiutamente la portata della decisione motivata nella parte precedente.

La Corte distingue due diversi profili, quello strettamente soggettivo dell’essere parte economicamente debole di un rapporto contrattuale e quello connesso alle caratteristiche di svolgimento del rapporto di lavoro.

In ordine al primo profilo individua nello spazio tra l’art. 111 Cost. e l’art. 24 Cost. la possibile rilevanza delle condizioni economiche di svantaggio per l’accesso alla giustizia, escludendo che possano determinare una deroga al principio della parità delle parti e indicando nei mezzi di sostegno dei non abbienti lo strumento per compensare il divario di capacità di sopportarne i costi. Il principio di parità di trattamento ex art. 111 Cost. viene assunto come limite invalicabile e a conforto viene ricordato che mai, nemmeno con la legge n. 533/73 che ha introdotto il rito speciale per le controversie di lavoro, si è assunta la qualità di lavoratore, parte debole del rapporto, come discriminante per un trattamento di favore per il regolamento delle spese processuali, in deroga al principio della soccombenza: il potere giudiziale di compensazione trovava base giuridica della originaria formulazione dell’art. 92, comma 2 cpc, valevole per tutte le controversie.

Anche le due ipotesi paradigmatiche delle «gravi ed eccezionali ragioni» che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, autorizzano la compensazione, in tutto o in parte, delle spese di lite si riferiscono «a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso». È per le controversie in materia di assistenza e previdenza che vi è una diversa considerazione, oggi ancorata a un requisito reddituale, della qualità soggettiva sia sul piano normativo, sia nella giurisprudenza della Corte, giustificata dal disposto dell’art. 38 Cost. che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito. La disparità di condizione economica non può quindi essere assunta quale riferimento in relazione all’art. 3, comma 2 Cost. e non rileva di per sé stessa ai fini della applicazione della disciplina delle spese processuali. L’ambito di rilevanza viene circoscritto a possibili interventi del legislatore, che la Corte sembra suggerire, di alleggerimento per il lavoratore degli oneri fiscali che gravano sul contenzioso.

Diversa è la prospettazione del secondo profilo.

Nel rapporto di lavoro il datore di lavoro è in una posizione di supremazia per quanto attiene all’adempimento spontaneo dei propri obblighi, compreso il pagamento della retribuzione, che è oltretutto posticipato, mentre il prestatore d’opera non può, in caso di violazione dei suoi diritti, riequilibrare il rapporto, in via di autotutela, rifiutando l’adempimento (l’eccezione ex art. 1460 cc è ritenuta legittima dalla giurisprudenza solo, e non sempre, nelle ipotesi di violazione delle norme antinfortunistiche e di eclatante violazione dell’art. 2103 cc), con la conseguenza che per lui la via giudiziaria è obbligata per reagire all’illegittimità delle determinazioni unilaterali della controparte. Non solo, ma le ragioni della legittimità di atti datoriali (trasferimento, demansionamento, licenziamento) possono non essergli note, non essendovi alcun onere in tal senso per il datore di lavoro, con la conseguenza che il lavoratore si trova ad agire acquisendo adeguata cognizione di fatti e circostanze solo nel corso del giudizio. Ed è questa eventualità di poter conoscere elementi rilevanti e decisivi solo dopo aver promosso il giudizio («contenzioso a controprova») che dalla Corte ritiene rilevante quale circostanza «valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite».

Questo è il passaggio della sentenza che dà concretezza alle affermazioni della motivazione precedenti, che sorreggono la pronuncia di illegittimità, in quanto viene indicato un parametro applicativo di contenuto determinato.

In tutta la motivazione la Corte non prende mai posizione, diversamente dai commentatori della riforma del 2009, su come debbano essere intesi gli aggettivi qualificativi delle ragioni che giustificano la compensazione ovvero che significato abbiano i termini «gravi» e «eccezionali» e nemmeno su che funzione svolga la «e» posta tra gli stessi, se sia congiuntiva (e quindi le ragioni debbano essere sia gravi sia eccezionali) o se, in senso meno compatibile con la formulazione letterale del testo, sia disgiuntiva (sottintendendo «ragioni gravi o ragioni eccezionali»). Enuclea invece la ratio della deroga al principio della soccombenza, di cui le due ipotesi tassative introdotte nel 2014 costituiscono casi paradigmatici, nella non disponibilità per le parti, prima dell’inizio della causa, di elementi che per essere intervenuti nel corso del giudizio o per caratterizzare una situazione di oggettiva e marcata incertezza, diventano decisivi nel determinare la soccombenza ledendo l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale su un quadro di riferimento poi mutato o penalizzando chi nell’imprevedibilità dell’esito abbia in ogni caso improntato la propria condotta a buona fede. «Gravi ed eccezionali» nella accezione della Corte è quindi una nozione unica con queste alternative o concomitanti caratteristiche.

Ma la Corte va oltre, superando la nozione di imprevedibilità che comprende solo eventi che attengono alle questioni di diritto, ed estendendo invece la nozione alla imprevedibilità per le caratteristiche del caso concreto: ciò è reso palese dal passaggio in cui afferma che ipotesi analoghe a quelle tassativamente previste con l’art. 13 della legge n. 162/2014 sono ipotizzabili in altre situazioni di assoluta incertezza, «in diritto o in fatto» della lite, parimenti riconducibili a gravi ed eccezionali ragioni e soprattutto dal passaggio sopra riportato nelle ipotesi di «contezioso a controprova» per il quale il criterio della imprevedibilità dell’esito della lite va applicato in ragione delle caratteristiche di fatto del caso concreto. Diversamente queste controversie «a controprova» dovrebbero essere escluse, essendo la caratteristica in questione (ossia la non disponibilità di elementi di conoscenza), se considerata in astratto, del tutto ordinaria nel rapporto di lavoro e non certo eccezionale.

Se pure dunque la Corte non ha voluto argomentare dalla posizione di debolezza economica per introdurre una ragione ulteriore di possibile compensazione delle spese [4] (pur risultando intuitiva l’effettiva sproporzione tra il costo della lite per chi non può accedere al gratuito patrocinio e i benefici o i danni che ne possono derivare [5]) si può affermare che la pronuncia apre ampi spazi di valutazione. Al giudice di merito viene affidato, per tutte le controversie non solo quelle in materia di lavoro, uno strumento efficace di adeguamento del regolamento delle spese alle peculiarità del caso concreto, ancorato a parametri oggettivi di apprezzamento dell’andamento complessivo del processo, delle modalità con le quali si è svolta l’istruttoria, delle ragioni del rigetto e così via, di cui dar conto (e viene sottolineato) con un’adeguata ed effettiva motivazione, in modo da evitare penalizzazioni irrazionali che creino ostacoli all’accesso alla tutela giurisdizionale e nel contempo un lassismo che agevoli un ingiustificato incremento del contenzioso.

Non solo, ma pur evidenziando che tendenzialmente le circostanze che possono integrare le ragioni gravi ed eccezionali hanno carattere oggettivo, non è drasticamente escluso che, sempre per le caratteristiche specifiche del caso concreto, anche condizioni soggettive possano essere rilevanti, sempreché non si risolvano nel solo fatto di essere la parte economicamente svantaggiata del rapporto e incidano sulla posizione processuale in cui si è venuto a trovare il lavoratore.

Ne risulta dunque un quadro il cui perimetro è tracciato dalla ricorrenza di «gravi ed eccezionali ragioni» e dall’obbligo di motivazione, ma senza escludere l’inclusione di ogni possibile ipotesi in cui il giudice ravvisi che l’esito della controversia è stato determinato, in concreto, da elementi non prevedibili, non conosciuti, non nella disponibilità della parte soccombente.

Un’osservazione finale.

La Corte non prende in esame il differente trattamento normativo di datore di lavoro e lavoratore sul piano tributario, pure evidenziata dal Tribunale di Reggio Emilia, che ha una importanza non di secondo momento. Attualmente per il datore di lavoro imprenditore le spese legali sono un costo dell’attività di impresa, con conseguente detrazione dell’Iva e della sottrazione, in bilancio, dai ricavi, della somma residua sborsata, circostanza che per una società di capitali comporta una decurtazione complessiva del 45,9% (18,03% di scorporo Iva, 24% Ires e 3,9% Irap), e per una società di persone o una impresa individuale una decurtazione di almeno il 44,9% (18,03% di scorporo Iva, 3,9% Irap più la percentuale corrispondente all’aliquota massima Irpef applicabile in base al reddito personale, che non può essere inferiore all’aliquota minima del 23%). Per il lavoratore subordinato non vi sono deduzioni di sorta. E per il primo sono deducibili quale costo dal reddito d’impresa anche le spese da rifondere in caso di soccombenza.

Si tratta all’evidenza di una questione che non riguarda solo i rapporti di lavoro ma tutti i rapporti contrattuali nei quali un cittadino privato ha come controparte un soggetto imprenditore e di una questione che ha tanta più incidenza sulla forza di resistenza economica al contenzioso quanto più il soggetto imprenditore ha un’attività organizzata di grosse dimensioni, per la quale il costo del processo è preventivato e trattato nelle politiche di bilancio come spesa ordinaria. Si pensi al piccolo consumatore cliente dell’impresa di servizi assicurativa, bancaria, di erogazione di energia e così via, al conduttore dell’unità di proprietà di una grossa società immobiliare, all’acquirente di beni dai giganti dell’e-commerce. E si tratta di una questione oggettiva, di carattere normativo, e strutturale, quindi non riconducibile alla nozione di «ragioni gravi ed eccezionali». Il silenzio della Corte può essere interpretato in diversi modi, ma in questo silenzio si può in ogni caso tenere conto della circostanza se non in modo autonomo, almeno come circostanza che può “colorare” tutte le altre, per la misura della compensazione.



[1] Sulla riforma del 2009, vds. A. Terzi, La nuova disciplina delle spese processuali, in F. Amato e S. Mattone (a cura di), La controriforma della giustizia del lavoro, Milano, 2011, pp. 160 ss.

[2] Il principio di soccombenza rispondeva, secondo la dottrina liberale, alla necessità di una garanzia tendenziale, a favore della parte vittoriosa, di un risultato utile netto, corrispondente al diritto riconosciuto, senza incidenza sul suo patrimonio dei costi della lite.

[3] Vengono citati i seguenti esempi: norma di interpretazione autentica, norma con efficacia retroattiva, pronuncia di illegittimità costituzionale, sentenza di una Corte europea, nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea.

[4] L’argomento che con la legge n. 533/73 non si è assunta la condizione di parte debole del rapporto come elemento per autorizzare la compensazione delle spese processuali può essere ribaltato: ciò non è stato perché in ragione del testo originario dell’art. 92 allora in vigore non ve ne era la necessità.

[5] Il valore della domanda del lavoratore, nelle controversie che hanno per oggetto differenze retributive, pur avendo un’incidenza percentuale apprezzabile rispetto alla retribuzione mensile, soprattutto se è destinato ad aumentare nel tempo, è quasi sempre abbastanza modesto in valori assoluti e non proporzionato alle tariffe professionali. Al contrario per il datore di lavoro se la questione riguarda anche altri suoi dipendenti, la possibile soccombenza va moltiplicata per il numero dei rapporti di lavoro potenzialmente coinvolti con un onere di del tutto inferiore rispetto al valore economico reale della singola controversia. Ed è evidente che più è basso il reddito fruibile e più è forte l’efficacia deterrente del rischio della soccombenza per il recupero di crediti di importo non elevato, il cui abbandono, per questi motivi, da parte del lavoratore, si trasforma nella realtà dei rapporti economico-sociali nella legittimazione di situazioni di piccolo e reiterato sfruttamento e di fatto in una riduzione del costo del lavoro.

01/05/2018
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