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Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

E’ sul versante mediatico e della motivazione dei provvedimenti giudiziari che, nel nostro Paese, la presunzione di innocenza può essere contraddetta e vulnerata. E’ questo il filo conduttore del decreto legislativo ancora in itinere, che - in attuazione della Direttiva UE n. 343 del 2016 - mira a rafforzare la presunzione di innocenza dell’indagato e dell’imputato, con l’ambizione di incidere profondamente sul linguaggio di tutte le “autorità pubbliche”, sulla comunicazione degli uffici giudiziari e sulla motivazione delle decisioni interne al processo. Non è facile, oggi, prevedere se le nuove norme daranno il via ad una vera rivoluzione culturale nella rappresentazione delle persone sottoposte ad indagini e a processi o se le innovazioni resteranno una facciata destinata a mascherare malamente la sopravvivenza di inveterati “pregiudizi”. E’ certo però che la genuina adesione all’ispirazione di fondo della nuova normativa non implica la rinuncia a ragionare, anche criticamente, sui differenti aspetti del testo normativo, sulla sua genesi, sulle sue ricadute nei mondi del diritto e dell’informazione. 

 
Sommario: 1. Un segnale legislativo contro i “pregiudizi” di colpevolezza. - 2. La genesi del decreto legislativo. - 3. Il divieto di additare l’imputato come colpevole. - 4. I destinatari del divieto: le autorità pubbliche. - 5. L’impatto delle nuove norme sulla “comunicazione” degli uffici di Procura e degli organi di polizia. - 5.1.La scelta dell’ufficialità. - 5.2. I presupposti dell’informazione. - 5.3. Una informazione “situata”. - 5.4. Scongiurare le suggestioni colpevoliste. - 6. Il terreno più spinoso: presunzione di innocenza e motivazione dei provvedimenti. - 7. Un cenno sui riflessi sulla giustizia disciplinare. - 8. La presunzione di innocenza e il mondo dell’informazione. 

 

* * *

 

1. Un segnale legislativo contro i “pregiudizi” di colpevolezza

E’ principalmente sul versante mediatico e della motivazione dei provvedimenti giudiziari che, nel nostro paese, la presunzione di innocenza può essere contraddetta e vulnerata.

Ed il pericolo maggiore proviene dal corto circuito che può istituirsi tra le “parole “- dettate dal pregiudizio o solo sbrigative, incaute, disinvolte- pronunciate nei confronti degli indagati e degli imputati da “autorità pubbliche” e la successiva diffusione, amplificazione, reinterpretazione o alterazione di tali “parole" ad opera dei diversi organi di informazione. 

E’ questo il messaggio centrale racchiuso nello schema di decreto legislativo, destinato a rafforzare alcuni aspetti della presunzione di innocenza, inviato il 6 agosto dal Governo alle Camere per acquisirne il parere[1].

Il segnale va salutato con favore e accolto con sollievo da tutti coloro che sentono l’arbitrarietà e la violenza di anticipati giudizi di colpevolezza, dei “pregiudizi” di cui sono infarcite alcune cronache giudiziarie, delle condanne sommarie e feroci emesse sul web, dei processi imbastiti nelle televisioni, talvolta anche con la partecipazione di magistrati, in spregio al chiaro invito contenuto nel codice etico ad astenersi da tali discutibili performance[2]

Inoltre, per quanti operano con diversi ruoli nel giudiziario, l’attenzione e l’adesione al segnale normativo hanno ragioni che vanno oltre la sensibilità umana e culturale. 

I “pregiudizi” rischiano infatti di sminuire, offuscare, compromettere il valore delle procedure legali di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. 

Facendole apparire lente, farraginose, superflue, e popolandole di figurine improbabili e ormai divenute francamente insopportabili. 

Se nei processi reali le versioni estreme e caricaturali dei protagonisti hanno uno spazio limitato, per la necessità di seguire percorsi normativamente tracciati e di uniformarsi a regole condivise, è prima e a prescindere dal processo che possono essere prodotti i danni maggiori, in virtù di una informazione che all’oggettività dei fatti preferisce il sensazionalismo e la più appassionante, e inesauribile, sequenza dei duelli e dei duellanti. 

Come la CEDU ha più volte avvertito «il costante spettacolo di pseudo-processi condotti dai media potrebbe nel lungo periodo, avere nefaste conseguenze quanto all’accettazione, da parte dell’opinione pubblica, dei tribunali ufficiali come reale e unico foro per la determinazione della colpevolezza o dell’innocenza dei singoli»[3]

Di qui l’importanza di porre argine ad alcuni dei più diffusi malvezzi, dettando regole sulla dimensione extraprocessuale della presunzione di innocenza e valorizzandola (non solo come canone di giudizio ma anche) come “canone di trattamento” dell’indagato e dell’imputato nella fase antecedente ad una pronuncia definitiva. 
L’adesione di fondo all’ispirazione del decreto legislativo ancora in itinere non implica peraltro la rinuncia a ragionare – anche criticamente – sui differenti aspetti del testo normativo (in particolare di quelli attinenti alla motivazione dei provvedimenti), dopo aver accennato alla sua genesi e alle sue radici culturali ed istituzionali. 
 

2. La genesi del decreto legislativo

A monte dell’iniziativa legislativa in esame sta un atto risalente nel tempo: la Direttiva (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio n. 343 del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
Direttiva destinata a consolidare la fiducia reciproca degli Stati membri dell’Unione nei rispettivi sistemi di giustizia di giustizia penale – indispensabile fondamento del riconoscimento reciproco delle sentenze e di altre decisioni giudiziarie – e perciò a rendere uniformi alcune modalità di esercizio della giurisdizione penale, tra cui «i meccanismi di protezione dei diritti degli indagati e imputati», grazie all’adozione di norme minime comuni sul loro trattamento. 

Il nostro Paese ha in un primo momento ritenuto che l’ordinamento giuridico nazionale contemplasse già garanzie pienamente adeguate e conformi alle disposizioni dettate dalla Direttiva e che quindi non vi fosse necessità di recepirne i dettami. 

Un campanello d’allarme è però squillato quando la Commissione europea ha presentato la prima relazione sullo stato di attuazione della Direttiva[4]

Nella relazione non erano contenuti riferimenti a specifici Paesi ma erano individuate «criticità» nell’attuazione delle previsioni delle disposizioni eurounitarie, poi sfociate nell’apertura di procedure di infrazione nei confronti di alcuni Stati membri. 

In questo contesto l’Italia, pur non essendo destinataria di alcuna procedura di infrazione, ha scelto - a seguito di una sorta di autonomo esame di coscienza - di agire in prevenzione, recependo la Direttiva[5] e predisponendo lo schema di decreto legislativo di cui qui si discute al fine di assicurare il pieno rispetto, nel nostro ordinamento, degli artt. 4 e 5 della Direttiva stessa che riguardano rispettivamente i «Riferimenti in pubblico alla colpevolezza” e la “Presentazione degli indagati e degli imputati»[6]

 

3. Il divieto di additare l’imputato come colpevole

Il decreto esordisce con un divieto indirizzato alle autorità pubbliche, alle quali è inibito «di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato» fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata «con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». 

Dalla violazione del divieto possono derivare sanzioni penali o disciplinari e l’obbligo di risarcire il danno causato. 

Ma sulla violazione può innestarsi anche una procedura finalizzata ad ottenere, su istanza dell’interessato, una tempestiva rettifica pubblica da effettuarsi, se l’istanza è accolta, «con le medesime modalità della dichiarazione, oppure, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica». 

Tanto il mancato accoglimento dell’istanza (id est: il suo rigetto o il silenzio dell’autorità pubblica interpellata) quanto una rettifica insufficiente o inadeguata, perché difforme dalle modalità previste dalla nuova normativa, legittimeranno l’interessato a rivolgersi al Tribunale, con un ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., per chiedere l’emissione di un ordine di rettifica.  

Sul piano logico è sin troppo facile sostenere che il diritto a non essere indicato come colpevole prima di una pronuncia definitiva costituisce un naturale corollario della presunzione di innocenza. 

Ma, a differenza di quanto avviene per i teoremi, i corollari nel mondo del diritto non sono sempre una conseguenza necessitata della proposizione principale. 

La logica giuridica è infatti – come è stato efficacemente detto – una «logica a trama storica» nella quale irrompe, con tutto il suo contraddittorio portato, la realtà effettuale; così che non di rado sono indispensabili espliciti interventi normativi per adeguare la realtà ai principi dell’ordinamento. 

Il decreto legislativo sul rafforzamento della presunzione di innocenza assolve tale compito di adeguamento, attraverso dettagliate disposizioni dirette a garantire che la presunzione di innocenza operi realmente come regola di trattamento dell’imputato nel corso del procedimento e del processo. 

Da un lato, infatti, il decreto pone limiti alla parola di chi, in ragione della sua posizione istituzionale, può recare un ingiusto pregiudizio all’indagato o all’imputato con uno stigma anticipato di colpevolezza. 

Dall’altro lato, il legislatore delegato appresta un rimedio, sin qui mancante nell’ordinamento: la richiesta di rettifica dell’imputato, che, se ingiustificatamente disattesa, può sfociare in un giudizio e in un ordine impartito dal giudice. 

Con l’effetto di collocare autorità pubblica e cittadino su di un piano di parità quando è in gioco lo status della persona sottoposta al processo penale. 

 

4. I destinatari del divieto: le autorità pubbliche.

Quali sono le «autorità pubbliche» destinatarie del divieto legislativo? 

Come è noto, la locuzione – amplissima – di “autorità pubbliche” è impiegata nella più risalente giurisprudenza della CEDU sulla presunzione di innocenza.

Se tale presunzione – scrive la Corte - è sicuramente vulnerata da giudici che esercitano il loro compito muovendo dal preconcetto della colpevolezza dell’imputato[7], la violazione può scaturire anche da dichiarazioni o prese di posizione di “autorità pubbliche” che presentino l’imputato come colpevole, esercitando così una indebita influenza sull’opinione pubblica e rischiando di condizionare l’attività degli stessi organi giudicanti[8].

La Corte europea dei diritti umani esercita la giurisdizione nei confronti di Paesi con regimi giuridici profondamente diversi e perciò deve spesso far ricorso a locuzioni estremamente “comprensive” (come quella di autorità pubbliche) in grado di abbracciare, in una sola formula, realtà istituzionali che nei differenti ordinamenti sono oggetto di più specifiche e dettagliate denominazioni. 

Ma un problema analogo si pone, sia pure su scala più ridotta, anche nel diritto dell’Unione che non ha esitato perciò ad attingere non solo ai principi ma anche al vocabolario della CEDU. 

La locuzione «autorità pubbliche» è perciò utilizzata a cascata nel Considerando n. 17 della Direttiva n. 343/2016[9], poi ripresa nell’art. 4 della Direttiva[10] e infine riprodotta nell’art. 2 del decreto legislativo in esame che recita: «E’ fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». 

Non vi è dubbio che i primi e naturali destinatari del divieto in discussione siano le autorità in vario modo coinvolte nel procedimento penale relativo ad un determinato reato e cioè pubblici ministeri[11], giudici, dirigenti delle forze di polizia incaricate delle indagini. 

Ma è altrettanto certo che il divieto non è circoscritto a questa sfera specifica e relativamente ristretta e che esso, in virtù della dizione normativa, è estremamente più esteso, risultando applicabile, da un lato, a tutti gli attori del giudiziario (singoli magistrati o uffici) ed alla intera dirigenza degli organi di polizia e, dall’altro, agli organi del potere esecutivo nelle sue diverse articolazioni (Ministeri e Uffici territoriali aventi rilevanza esterna). 

Di più. Se la finalità dell’innovazione normativa è inibire e sterilizzare gli influssi pregiudizievoli sullo status dell’indagato e dell’imputato che possono provenire da soggetti istituzionali a vario titolo dotati di autorità pubblica e operanti in posizione di preminenza rispetto alla generalità dei cittadini, allora l’elenco dei destinatari del divieto si allunga notevolmente. 

Sino a ricomprendere gli esponenti di Agenzie pubbliche, di Autorità indipendenti, di Enti pubblici territoriali che, interloquendo impropriamente sulla vicenda penale di un imputato, lo presentino come già colpevole prima dell’esito di un processo[12]

Del tutto opportunamente il Considerando n. 17 della Direttiva si dava cura di sottolineare che resta impregiudicato «il diritto nazionale in materia di immunità». 

Un dato, questo, che sebbene non presente nel testo del decreto legislativo può ritenersi implicitamente recepito e comunque operante nel nostro ordinamento sulla base dei principi generali. 

Con la conseguenza che saranno sottratti alla sfera di applicabilità del divieto ed alla procedura di rettifica i parlamentari (beninteso nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni) o i componenti di organi collegiali come il CSM che godono della insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nello svolgimento dei loro compiti istituzionali. 

Per i soggetti assistiti da “immunità” il rispetto della presunzione di innocenza resterà dunque una regola etica affidata al loro senso di responsabilità e presidiata, in caso di violazione, solo dalla eventuale riprovazione dei cittadini. 

 

5. L’impatto delle nuove norme sulla “comunicazione” degli uffici di Procura e degli organi di polizia

Un altro capitolo del decreto legislativo è riservato alla “comunicazione” delle Procure e degli ufficiali di polizia incaricati dello svolgimento di atti di indagine. 

Comunicazione particolarmente delicata perché di regola interviene nella fase delle indagini preliminari - in occasione dell’adozione di misure cautelari o dell’attivazione di mezzi di ricerca della prova - e quindi nella fase più unilaterale del procedimento, nel quale non sono ancora entrate in campo le difese e l’unica versione dei fatti è quella offerta dagli inquirenti. 

Il legislatore delegato apporta significativi ritocchi alla disciplina dettata in materia dall’art. 5 del decreto legislativo n. 106 del 20 febbraio 2006[13] intervenendo sulle forme, sui presupposti e sui contenuti dell’informazione resa dagli Uffici di Procura. 

5.1.La scelta dell’ufficialità

Sul primo versante - quello dei canali di comunicazione - la scelta è nel senso della formalità e dell’ufficialità. 

Gli Uffici di Procura potranno informare «esclusivamente» attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, attraverso conferenze stampa. 

E le stesse modalità comunicative – comunicati ufficiali e conferenze stampa - dovranno essere adottate dagli ufficiali di polizia giudiziaria quando siano espressamente autorizzati dal Procuratore a fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. 

Sui procedimenti in corso non sarà dunque consentito (né al capo dell’Ufficio di Procura, che pure è il dominus dei rapporti con la stampa, ed a maggior ragione ai singoli magistrati del pubblico ministero o agli ufficiali di polizia giudiziaria) di fornire informazioni, (beninteso legittime) sullo stato di un procedimento in corso di trattazione attraverso conversazioni informali o interviste alla stampa o alle televisioni. 

Colloquialità e informalità nei rapporti con la stampa sono bandite e l’informazione, in molti casi necessaria e “dovuta” sull’azione degli uffici del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, dovrà fluire attraverso i canali degli scritti ufficiali o delle parole pronunciate dinanzi alla platea dei giornalisti convocati per una conferenza stampa. 

Sia chiaro: a tutti i magistrati era già precluso dal codice disciplinare «il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati»[14].

E nella stragrande maggioranza degli Uffici la prassi delle conferenze stampa era già improntata a canoni di correttezza, in conformità del resto alle delibere del CSM in questa delicata materia[15]

Ma oggi il legislatore compie un passo ulteriore, inquadrando la relazione tra procure e polizia giudiziaria e gli organi di informazione, in stampi estremamente rigidi e predefiniti. 

E ciò accettando il rischio - e pagando il prezzo - di una comunicazione ingessata e difficilmente comprensibile ai cittadini o di più o meno prolungati vuoti di informazione su indagini complesse, magmatiche e suscettibili di svolte repentine. 

L’esperienza dirà se la via prescelta è quella migliore e se debba essere liquidata l’alternativa, a lungo perseguita, di dar vita, in seno alla magistratura, ad una matura cultura della comunicazione in grado di coniugare la correttezza dell’informazione con l’esigenza di dar conto all’opinione pubblica delle più significative attività di indagine[16]

5.2. I presupposti dell’informazione

Rigida   nelle forme, l’informazione è regolata in termini limitativi anche nei suoi presupposti. 

Essa infatti sarà consentita solo quando «strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini» o in presenza di «rilevanti ragioni di interesse pubblico». 

E poiché tali ragioni non potranno che essere individuate dagli attori del procedimento (magistrati e polizia giudiziaria) non si può escludere il rischio che al possibile arbitrio della parola si sostituisca un “arbitrio del silenzio”, che sottragga, per tempi più o meno lunghi, alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica informazioni non coperte da alcun segreto, che vengono mantenute riservate solo per valutazioni di opportunità compiute dagli inquirenti. 

5.3. Una informazione “situata”

Del tutto condivisibile è l’esplicita previsione che le informazioni fornite nella fase delle indagini rispettino il diritto dell’indagato e dell’imputato a non essere indicato come colpevole. 

Ma è assolutamente decisiva l’ulteriore prescrizione che ogni comunicazione debba essere accompagnata dalla precisa individuazione della «fase in cui il procedimento pende». 

Una informazione “situata”, dunque, che consenta ai giornalisti specializzati che si occupano di cronaca giudiziaria e agli altri media di chiarire all’opinione pubblica quando si è di fronte ad una informazione di fonte unilaterale o a notizie relative a fasi connotate da un contraddittorio anticipato o, ancora, a dati concernenti l’esito di procedimenti incidentali. 

5.4. Scongiurare le suggestioni colpevoliste

A completare il quadro sta una norma diretta a scongiurare le suggestioni colpevoliste che possono scaturire dalle denominazioni date ai procedimenti pendenti. 

Nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti «denominazioni lesive della presunzione di innocenza». 

Certo nessuno rimpiangerà i nomi fantasiosi e talvolta truculenti attribuiti, prevalentemente dalle forze di polizia, alle indagini di maggior rilievo. 

Così come nessuno potrà impedire alla stampa di coniarne per conto suo. 

Ma in questo caso, almeno, non ci sarà alcun avallo degli inquirenti e la forza suggestiva dei nomi non avrà il crisma dell’ufficialità di cui ha sin qui goduto. 

 

6. Il terreno più spinoso: presunzione di innocenza e motivazione dei provvedimenti

Alla tutela della presunzione di innocenza sul fronte mediatico si affiancano norme intese a garantire tale presunzione nel corso del procedimento e del processo. 

Il decreto legislativo, infatti, introduce nel codice di rito una nuova norma, l’art. 115 bis, che, «nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità dell’imputato», preclude ai giudici[17]di indicare l’indagato o l’imputato come colpevole e, «nella valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza», delimita i riferimenti alla colpevolezza ai soli requisiti previsti dalla legge per l’adozione del provvedimento.

La presunzione di innocenza penetra dunque nel cuore della motivazione e può determinarne la modifica o la correzione. 

In caso di violazione delle previsioni del nuovo art. 115 bis c.p.p. è infatti previsto un procedimento di “correzione” mirante a «salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo», articolato in tre successivi passaggi: a) istanza di correzione dell’interessato rivolta al giudice che procede (il gip nella fase delle indagini preliminari); b) tempestivo decreto motivato emesso entro 48 ore dal giudice, notificato alle parti e comunicato al pubblico ministero; c) eventuale opposizione al decreto, oggetto di decisione in camera di consiglio. 

E’ sin troppo facile rilevare come le “buone intenzioni” del legislatore rischino di generare un contenzioso dai contenuti incerti, labili e sfuggenti in grado di appesantire procedure che, per altro verso, si proclama di voler semplificare e snellire. 

Né sembra saggio ed opportuno innescare una o più scaramucce procedurali su passi o parole della motivazione che lascerebbero trapelare un pregiudizio colpevolista quando si potrebbe optare per soluzioni più lineari. 

Ad esempio prescrivendo che tutti i provvedimenti diversi da quelli di merito menzionino la «fase in cui il procedimento pende», sottolineando in premessa che il convincimento e le motivazioni del giudice hanno in tale fase un carattere solo relativo e sono suscettibili di smentita e di correzione nel successivo corso del procedimento. 

Ciò eviterebbe il ricorso, nelle motivazioni, a goffe acrobazie verbali o a esercizi di ipocrisia argomentativa che in casi limite potrebbero risultare addirittura paradossali. 

Naturalmente anche chi abbia confessato o addirittura rivendicato il fatto commesso ha diritto alla presunzione di innocenza, se non altro perché il suo processo potrebbe comunque concludersi con un proscioglimento o con una pronuncia di estinzione per prescrizione. 

Ma ciò non richiede che i giudici siano costretti ad ogni passo a coniugare la rigorosa e doverosa analisi degli indizi e degli elementi di prova della colpevolezza con il richiamo alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato o dell’imputato. 

Invece di disseminare di “insidie” motivazioni attente e complete (sempre adottate – lo si ripete – allo stato degli atti) si dovrà ricordare che le vere falle di una motivazione stanno nel ricorso ad epiteti, aggettivi, qualificazioni moralistiche degli indagati e degli imputati in luogo della ricostruzione minuziosa dei fatti e delle modalità dell’azione. 

Se queste ultime, per rispecchiare la realtà effettuale, possono e debbono essere analiticamente descritte - di volta in volta come ingannevoli, astute, feroci, o semplicemente incaute ed imprudenti – sarà prova di professionalità evitare la scorciatoia ed il pessimo surrogato delle definizioni sprezzanti di chi è sottoposto a processo. 

Sul punto, dunque, sarebbe necessario un più maturo ripensamento per evitare che ogni provvedimento generi una “guerra dei topi e delle rane”, improduttiva a fini di giustizia e in grado solo di appesantire il corso dei procedimenti. 

 

7. Un cenno sui riflessi sulla giustizia disciplinare

La nuova normativa è naturalmente destinata ad avere riflessi anche sul fronte della giustizia disciplinare dei magistrati. 

Come è noto l’art. 2, comma 1, lett. v) del codice qualifica come illecito disciplinare commesso nell’esercizio delle funzioni le «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetti a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui». 

Sembra allora evidente che una pubblica dichiarazione – beninteso deliberatamente e consapevolmente “colpevolista” - resa da un magistrato prima di una pronuncia definitiva, possa dar luogo ad una incolpazione disciplinare perché indebitamente lesiva del diritto dell’imputato a non essere indicato come colpevole sino alla conclusione del processo. 

Assai diverso è invece il quadro che si presenta nei casi in cui si ritenga che la presunzione di innocenza non sia stata adeguatamente salvaguardata nella parte motiva di provvedimenti giudiziari diversi da quelli che decidono nel merito. 

Da un lato, infatti, la eventuale correzione apportata dal giudice a seguito dell’istanza dell’interessato sarà da considerare integralmente satisfattiva della sua pretesa e avrà perciò l’effetto di eliminare ogni ragione di doglianza. 

Dall’altro lato, il comportamento del giudice potrebbe assumere rilievo disciplinare solo ove tanto il tenore della motivazione adottata quanto il rifiuto di emendarla fossero riconducibili – per le loro concrete modalità – al novero dei «comportamenti gravemente scorretti nei confronti delle parti e dei difensori», sanzionabili ai sensi dell’art.2, comma 1, lett. d) del codice disciplinare. 

Una ipotesi, questa, che non può essere esclusa a priori ma che verrà in considerazione solo in casi limite nei quali la condotta del giudice si risolva nella vera e propria negazione della garanzia procedimentale prevista dalla nuova normativa (articolata, come si è detto, nella sequenza istanza – decreto - opposizione al decreto). 

 

8. La presunzione di innocenza e il mondo dell’informazione

Per chiudere il cerchio di queste prime sommarie notazioni occorre rivolgere lo sguardo alle inevitabili ripercussioni delle nuove norme sulla stampa. 

Come si è detto la specifica finalità perseguita dal legislatore è quella di impedire che i pubblici poteri possano gettare, nella vicenda umana e giuridica dell’imputato, il peso truccato di una anticipata raffigurazione in chiave colpevolista. 

Nei confronti degli organi di informazione continueranno ad operare le norme ordinarie in tema di diffamazione, oggetto, come è noto, di vivaci discussioni, di tentativi di riforma sino ad ora falliti e di interventi della Corte costituzionale diretti a circoscrivere a casi limite l’applicazione di sanzioni restrittive della libertà[18].

Ma la più avanzata frontiera di tutela della presunzione di innocenza non mancherà di incidere in profondità sulla cronaca giudiziaria e sulla complessiva rappresentazione degli indagati e degli imputati da parte degli organi di informazione. 

Il diritto a non essere indicato come colpevole prima di un giudizio definitivo esce dalle nebbie dell’opinabile, del discutibile, della “valutazione caso per caso”, nelle quali è stato sin qui immerso, per essere esplicitamente riconosciuto come parte integrante del patrimonio giuridico di ogni cittadino e componente del suo onore personale e professionale e della sua reputazione. 

E come tale esso sarà suscettibile di tutela in tutte le sedi già prima e a prescindere dall’esito del processo. 

Se al cittadino viene attribuito il diritto di chiedere la “rettifica” di dichiarazioni di pubbliche autorità e la “correzione” di provvedimenti giudiziari per così dire interinali, ne sarà di riflesso rafforzato anche il diritto di chiedere la rettifica di informazioni inesatte, infondate e pregiudizievoli perché lesive della presunzione di innocenza. 

E del pari egli potrà chiedere tutela nei confronti dei processi televisivi nei quali vengano espressi espliciti giudizi di colpevolezza o elencati – veri o presunti - indizi di colpevolezza a suo carico. 

Ne scaturirà una sorta di rivoluzione culturale in grado di relegare in soffitta gli orrori del mostro sbattuto in prima pagina, dei processi mediatici sommari, della gogna? 

E come si concilierà, nel difficile lavoro dei giornalisti, il dovere di dare tutte le informazioni di cui dispongono con il rispetto della presunzione di innocenza? 

Occorrerà seguire con attenzione la cascata di effetti derivanti dall’intervento che il legislatore si accinge a compiere e le soluzioni che il “diritto dei libri” e il “diritto in azione” indicheranno. 

Qui ed ora vale la pena di accennare solo ad uno specifico profilo: la relazione tra il diritto di rettifica delle dichiarazioni di pubbliche autorità - modellato su quello previsto dalla legge sulla stampa - e il più generale diritto di rettifica regolato da questa stessa legge sin dal 1948. 

Già da una prima lettura del testo normativo emerge che la procedura con la quale l’interessato chiede, ed eventualmente ottiene, la rettifica di una dichiarazione dell’autorità pubblica impropria e lesiva della presunzione di innocenza è totalmente autonoma rispetto alle rettifiche disciplinate dalla normativa sulla stampa. 

Ne consegue che se i media si saranno limitati a riportare le parole “colpevoliste” dell’autorità pubbliche non solo – come è ovvio – non ne assumeranno la responsabilità ma non saranno neppure tenuti a riportare la eventuale rettifica dell’organo pubblico, che dovrà essere autonomamente pubblicizzata, a cura dell’autorità pubblica, nelle forme previste dal decreto legislativo. 

In altri termini la rettifica dell’autorità non produrrà un successivo onere di rettifica per gli organi di informazione che, riportando la dichiarazione, si sono limitati ad esercitare il diritto di cronaca. 

Soluzione, questa, che dovrebbe evitare un pernicioso effetto a cascata derivante dall’errore iniziale di una autorità pubblica, riportato per dovere professionale, dagli organi di informazione. 

Il diritto ad ottenere una rettifica ed un risarcimento del danno per diffamazione resterà perciò in vita solo se l’organo di informazione avrà “aggiunto” alla dichiarazione dell’autorità pubblica, dati di altra fonte e natura e proprie valutazioni che dovessero risultare in contrasto con la presunzione di innocenza. 

Allo stato, anche in considerazione del fatto che lo schema di decreto legislativo dovrà essere oggetto del previsto parere parlamentare, non è possibile superare il confine di una nota a prima lettura. 

Ma è certo che il vasto campo di problemi sollevato dalla nuova normativa richiederà ben altri approfondimenti sul versante giuridico ed una riflessione collettiva sulla cultura degli operatori del diritto e della informazione. 

Approfondimenti e riflessione cui la nostra Rivista intende partecipare stimolando, come sempre, quel confronto tra voci ed opinioni che ne fanno un luogo di pensieri diversi e di pensiero e non il semplice megafono di una “parte”. 

 

 
[1] La denominazione ufficiale dell’atto è «Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto a presenziare al processo nei procedimenti penali (285)». Trasmesso il 6 agosto 2021.

[2] Nell’art. 6 del codice etico, che regola i rapporti dei magistrati con la stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa, è stata aggiunta, in occasione dell’aggiornamento del codice avvenuto nel 2010, una specifica previsione al riguardo. Il magistrato – è scritto nel codice - «evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica». 

[3] CEDU, Del Giudice c. Italia, 6 luglio 1999.

[4] La relazione era prevista dall’art.12 della Direttiva secondo cui: «Entro il 1o aprile 2021, la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sull'attuazione della presente direttiva».

[5] Il recepimento è avvenuto con la legge n. 53 del 22 aprile 2021.

[6] Articolo 4 Direttiva n. 343 del 2016, Riferimenti in pubblico alla colpevolezza. 
1.Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell'indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità. 
2.Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell'obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l'articolo 10. 
3.L'obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale o per l'interesse pubblico. 

Articolo 5 Direttiva n. 343 del 2016, Presentazione degli indagati e imputati.
1. Gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. 
2. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi.

[7] CEDU, Barberà, Messeguè, Jabardo c. Spagna, 6.12.1988. Cfr. anche CEDU, Minelli c. Svizzera, 25 marzo 1983.

[8] CEDU, Allenet de Ribemont c. Francia, 10.2.1995.

[9] Nel “considerando” n. 17 della Direttiva n. 343 del 2016 si legge testualmente: «Per "dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche" dovrebbe intendersi qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato e proveniente da un'autorità coinvolta nel procedimento penale che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all'applicazione della legge, o da un'altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici, fermo restando che ciò lascia impregiudicato il diritto nazionale in materia di immunità». 

[10] A sua volta il testo della prima parte del comma 1 dell’art. 4 della Direttiva prevede: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole».

[11] Ci si riferisce qui solo alle «dichiarazioni pubbliche» dei magistrati del pubblico ministero. Di seguito si dirà della disposizione (il primo comma del nuovo art. 115 bis del codice di rito) che consente al pubblico ministero di non uniformarsi a questa regola «negli atti volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato».

[12] Al riguardo sembra ragionevole sostenere che il divieto riguardi tanto le dichiarazioni contenute negli atti (risoluzioni, delibere, mozioni, ordini del giorno) degli organi collegiali delle agenzie e degli enti pubblici quanto le dichiarazioni dei loro organi monocratici e dei dirigenti di uffici aventi rilevanza esterna. Si pensi ad esempio a pubbliche dichiarazioni “colpevoliste” di esponenti dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di un indagato o imputato per reati tributari o di dirigenti Consob nei confronti di un imputato dei reati di insider trading o di market abuse.

[13] Questo il testo dell’art. 5 del decreto n. 106 del 2006 interessato dalle modifiche del decreto legislativo in itinere
Rapporti con gli organi di informazione
1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione.
2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.
3. E' fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.
4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma

[14] L’art. 2, comma 1, lett. aa) del codice disciplinare (decreto legislativo n. 109 del 23 febbraio 2006) qualifica tali attività come illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle funzioni.

[15] Cfr. in particolare la Risoluzione del CSM del 18 luglio 2018 contenente le linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale.

[16] Sui molteplici aspetti del tema si rinvia all’Obiettivo Il dovere della comunicazione contenuto nel n. 4 del 2018 di Questione Giustizia, Rivista Trimestrale, curato da Donatella Stasio, con scritti di Maccora, Lingiardi, Ippolito, Cesqui, Rossi, Giunti, Giorgi, Pignatone, De Cataldo, Petrelli, Guglielmi, Giorgi, Lecca, Calandra, Spataro, Deidda, Ferrarella, Bruti Liberati, Fassone.

[17] Come si è già accennato il primo comma del nuovo art. 115 bis del codice di rito consente al pubblico ministero di non uniformarsi a questa regola «negli atti volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato».

[18] Su questi temi mi sia consentito rinviare ad un mio scritto, Magistrati e giornalisti. Le querele, il “cahier de dolèances”, l’infedeltà necessaria su Questione Giustizia on line del 12 maggio 2021. 

03/09/2021
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