Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Fortezze Italia e USA alla prova della democrazia

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

Nulla, come il timore che la fortezza - eretta dal nord del mondo contro chi prova a varcarne i confini - possa cedere, è in grado di sovvertire quei principi che - da Montesquieu in poi - sono stati posti a base delle democrazie occidentali.

1. Di fronte a un esodo massiccio di esseri umani in cerca di sopravvivenza (e non mi soffermo qui sulle responsabilità macroscopiche in relazione a questo dramma di chi oggi si chiude nella sua fortezza) che mette in crisi New York come Lampedusa, è in particolare il principio della separazione dei poteri che -tanto negli Stati Uniti quanto in Italia-  oggi si scioglie come neve al sole. In entrambi i casi un esecutivo eccedente usurpa o tenta di usurpare le prerogative altrui, pur di arrestare il flusso di chi cerca aiuto oltrepassando i confini nazionali. La questione del muro al confine con il Messico negli Stati Uniti e la vicenda italiana della giudice di Catania, che osa ritenere illegittimi i trattenimenti previsti dal decreto Cutro e per questo viene aggredita dal potere politico alla guida del paese che la intimidisce, sono due volti di una stessa medaglia.  Si tratta della pretesa di sovranità assoluta da parte del governo in carica, che sconfina allegramente sulle attribuzioni altrui – rispettivamente, nei due casi, ai danni del potere legislativo e del potere giudiziario- pur di imporre la sua volontà.

Nota è la vicenda italiana, su cui in tanti si sono pronunciati per porne in luce la gravità, giacché - come scrive Luigi Ferrarella sul Corriere della sera del 9 ottobre- un giudice, che sia anche solo subliminalmente orientato nelle sue decisioni dal timore del potere politico, ne diviene inevitabilmente succube, perdendo così quell’indipendenza che sta alla base del nostro sistema democratico per la tutela di tutti noi.  

Meno nota è forse la vicenda statunitense, venuta di recente alla ribalta con la decisione a sorpresa di Joe Biden di riprendere la costruzione di quel muro al confine con il Messico voluto da Trump, che da subito il nuovo presidente aveva osteggiato.  «La politica della mia amministrazione sarà che neanche un dollaro dei contribuenti americani sarà mai più dirottato sulla costruzione del muro» aveva solennemente proclamato Biden il giorno della sua entrata in carica, il 20 gennaio 2021, bloccandone immediatamente i lavori. 

La questione del muro è particolarmente cruciale, perché durante la presidenza Trump ha rappresentato il vulnus forse più pesante che la storia statunitense ricordi alla struttura-che sta alla base di quel sistema democratico-dei poteri e contropoteri (così detti checks and balances). La ripresa di quel progetto da parte di Biden, che per di più fa all’uopo uso di una retorica pelosa, lo pone dunque oggi inevitabilmente nella stessa posizione di usurpatore dei poteri altrui, che aveva a suo tempo caratterizzato l’azione sovversiva di Trump. 

Un rapido flashback può aiutare a capire quanto si viene dicendo. 

 

2. E’ noto come la Costituzione nord-americana, nell’ambito della ripartizione delle prerogative fra poteri dello Stato, attribuisca al Parlamento il compito di finanziare le attività dell’esecutivo. «Solamente una legge del Parlamento può consentire l’uso del denaro da parte del tesoro» recita la clausola 7 (detta anche Appropriations Clause), del paragrafo 9 del primo articolo della Costituzione: quello dedicato al potere legislativo. Nel gioco dei checks and balances, ossia dei poteri e dei contropoteri su cui si basa l’equilibrio democratico nordamericano, mentre al governo spetta la spada, al parlamento è infatti attribuita la borsa.

La Appropriations Clause sta al cuore della democrazia statunitense, poiché garantisce che i fondi pubblici americani siano spesi in base alle valutazioni, a volte difficili da effettuare, del Congresso, ossia del popolo, e mai dei desideri dei singoli governanti. Al Parlamento spetta perciò non soltanto il compito di stanziare i fondi da allocare ai singoli dipartimenti, ma anche quello di stabilire come i soldi vadano utilizzati, perché solo così le scelte di politica legislativa sono davvero espressione soltanto dei rappresentanti dei cittadini.

E’ proprio questo principio – basilare, lo si vuole ripetere, per il gioco democratico - che il governo Trump, con l’aiuto di una Corte Suprema Federale a maggioranza conservatrice, era riuscito a scardinare: una vittoria dell’esecutivo autoritario sulla democrazia, di cui oggi si avvantaggia l’amministrazione Biden. 

La questione dell’allocazione dei fondi necessari per la costruzione del muro al confine con il Messico, cavallo di battaglia della campagna elettorale di Trump, era stata al centro di un confronto così pesante con il Parlamento da produrre lo shutdown più lungo della storia degli Stati Uniti. A fronte di un Congresso che non riteneva opportuna l’edificazione del muro e di un Presidente che viceversa domandava che per essa venissero stanziati 5 miliardi e 700 milioni (più tardi la somma sarebbe cresciuta), il compromesso raggiunto il 14 febbraio del 2019 vedeva l’emanazione da parte del Congresso di un Consolidated Appropriations Act (CAA), che per quell’opera attribuiva al dipartimento della sicurezza interna solamente 1 miliardo e 375 milioni. «Il muro sarà costruito in un modo o nell’altro!» aveva però giurato qualche giorno prima il Presidente, indispettito dall’argine parlamentare che la Costituzione imponeva ad un suo agire idiosincratico.

Così mentre il 15 febbraio 2019 firmava la legge di stanziamento dei fondi votata dal congresso (il CAA per l’appunto), Trump proclamava nel contempo l’emergenza nazionale al confine con il Messico -indicato come luogo pericoloso per la sicurezza nazionale a causa della crisi umanitaria, del traffico illecito di droga e dell’ingresso di criminali che lo avrebbe caratterizzato- per modo da allocare surrettiziamente alla costruzione del muro la cifra che il Parlamento gli aveva appena negato. Nel sistema statunitense la dichiarazione di emergenza nazionale consente, infatti, al dipartimento di sicurezza interna di richiedere alle forze armate, ossia al dipartimento della difesa, l’aiuto -anche economico- necessario a far fronte alla situazione di pericolo. Sempre, tuttavia, che alcune condizioni siano rispettate.

Per la prima volta nella storia americana l’emergenza nazionale veniva, dunque, proclamata allo scopo di assicurare fondi a un progetto che il Parlamento aveva respinto, con il risultato che per la prima volta nella storia americana il Congresso si opponeva a quella proclamazione, palesemente strumentale, votando contro la stessa. Dal 1985 però, per un emendamento alla normativa -anticipata nel 1983 da una decisione della Corte Suprema Federale- contro l’opposizione congiunta del Congresso alla dichiarazione presidenziale dello stato di emergenza (che da allora prende le forme di una legge) è possibile il veto del Presidente. Il 15 marzo 2019 Trump poneva dunque il veto alla risoluzione del parlamento, il quale provava invano a superarlo andando vicino alla maggioranza qualificata dei necessari due terzi. Un vero nuovo braccio di ferro fra Parlamento e Presidente, in cui il tentativo del secondo di sottrarre al primo la prerogativa della borsa, che la Costituzione gli attribuisce, pareva riuscito.

Perché la proclamazione dello stato di emergenza dia luogo a un legittimo trasferimento di somme da un dipartimento all’altro occorre però, come si diceva, che alcune condizioni siano rispettate. Il confronto sulla questione del muro si doveva, quindi, spostare sul piano dell’interpretazione di quelle norme che, in caso di dichiarazione di emergenza nazionale, permettono il passaggio di fondi dal budget della difesa a quello della sicurezza interna. Il terzo potere dello Stato, quello giudiziario, era stato così chiamato in causa per valutare in particolare se due fra i paletti posti dalla legge al trasferimento fossero stati rispettati.  

In base alla legge di stanziamento dei fondi fra le condizioni, la cui sussistenza è indispensabile per rendere legittimo in via di emergenza il trasferimento presso il dipartimento di sicurezza interna di somme che il Parlamento aveva invece stanziato a favore del dipartimento della difesa, compaiono in particolare la necessità non soltanto che le somme siano destinate a un’attività che corrisponda a un’imprevedibile esigenza militare, ma anche che non si tratti di un’attività per la quale il parlamento aveva precedentemente negato lo stanziamento. Ed è sul tema della sussistenza o meno di tali condizioni che a partire dal maggio del 2019 si apriva una doppia battaglia giudiziaria: nel merito, per l’accertamento di tali condizioni, da un canto, e in via di injunction, ossia di sospensiva delle attività di costruzione del muro, dall’altro.

In entrambe le partite, l’American Civil Liberties Union - che in rappresentanza del Sierra Club e della Southern Border Communities Coalition aveva fatto causa all’amministrazione Trump - segnava la propria vittoria a livello di Corti, tanto di primo quanto di secondo grado. Tuttavia, una Corte Suprema a maggioranza conservatrice aveva per ben due volte, sia pure in via interlocutoria, concesso a Trump di andare avanti con il trasferimento di fondi da un dipartimento all’altro. Una prima volta – nel luglio del 2019 - aveva annullato la sospensiva ai lavori concessa ai livelli inferiori (https://www.supremecourt.gov/opinions/18pdf/19a60_o75p.pdf); aveva poi – nel luglio successivo e sempre votando secondo linee strettamente partitiche- mantenuto ferma la propria decisione (https://www.scotusblog.com/case-files/cases/trump-v-sierra-club/), anche dopo che la Corte di appello del nono circuito si era pronunciata nel merito nel senso di un illegittimo scippo da parte di Trump del potere di borsa spettante al legislativo. Solo un giudizio nel merito da parte della Corte Suprema stessa a favore dell’attore avrebbe potuto condurre a un diverso risultato. Fu, tuttavia, proprio l’amministrazione Biden a domandare che, data l’interruzione dei lavori sul muro da lui disposta, la Corte non entrasse nel merito e ponesse altresì nel nulla le decisioni delle Corti inferiori che avevano dichiarato la piena illegittimità dell’operato di Trump, giacché ormai la questione appariva moot, ossia non più attuale. Nell’ottobre del 2021 la Corte Suprema fu ben contenta di accogliere la richiesta dell’amministrazione Biden e cancellò non soltanto le pronunce delle corti inferiori che avevano appurato lo sconfinamento di attribuzioni dell’esecutivo, ma - sempre su richiesta di Biden - anche un altro paio di decisioni, di primo e secondo livello federale, che avevano affermato il diritto della House of Representatives di opporsi in giudizio all’usurpazione dei propri poteri.    

 

3. E’ a fronte di tutto ciò che la mossa di qualche giorno fa da parte di Biden di far ripartire la costruzione del muro – per la cui edificazione il Presidente ha perfino scelto di sospendere ben 26 regolamentazioni ambientali - lascia interdetti. Soprattutto quando viene giustificata dicendo che è la legge a richiedere che i fondi (appropriati, però, dall’esecutivo Trump in maniera illegittima secondo ben due decisioni federali di primo e secondo grado, poi annullate proprio su richiesta di Biden!) siano usati e la costruzione completata entro il 2023 (https://apnews.com/article/biden-us-mexico-border-wall-immigration-texas-f99fd10257292a898618236df3613979).

La paura di un cedimento della fortezza - che sia Usa, Europa o Italia - fa novanta! Di fronte ad essa nessun principio, neppure il più basilare in democrazia quale quello della separazione dei poteri, regge più.  Il timore più grande è però allora che l’ossessione per la fortezza porti con sé l’eliminazione delle libertà di tutti, fuori e dentro la fortezza stessa.

 

13/10/2023
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