The Zone of Interest di Jonathan Glazer ha vinto, pochi giorni fa, l’Oscar 2024 come miglior film internazionale e per il miglior utilizzo del suono.
L’opera era già stata presentata in concorso a Cannes e nella sezione Best of 2023 della Festa del Cinema di Roma, raccogliendo grandi consensi dalla critica e dal pubblico.
Il film è un adattamento cinematografico dell’omonimo libro[1], anche se la trama è stata modificata, in quanto lo sguardo del regista si è soffermato, attraverso ulteriori ricerche biografiche, sulla storia della famiglia di Rudolf Höss, il più longevo ed efficiente ufficiale nazista che rese drammaticamente “funzionante” il campo di concentramento di Auschwitz, diventando un punto di riferimento per l’organizzazione delle tecniche di annientamento degli ebrei che avrebbero condotto alla c.d. “soluzione finale” e cioè l’operazione di completo sterminio, pensata e cinicamente realizzata da Hitler e da tutti coloro che sostenevano la sua politica.
Il film si apre e si conclude con una lunga schermata nera durante la quale si ascoltano suoni inquietanti e malevoli che lo accompagnano: magistrale ed agghiacciante, con molti silenzi accompagnati da rumori macabri, racconta freddamente la quotidianità del luogo in cui Höss e la sua famiglia trascorrono le loro giornate.
Rudolf, sua moglie Hedwig e i loro cinque figli vivono in una splendida villa, confinante con il campo di concentramento di Auschwitz.
Intorno a questa casa, con un giardino grandissimo che degrada verso il corso d’acqua vicino, l’intera famiglia, a tratti anche allargata, può passare con piacere una vita bucolica, tra corse nei prati e bagni nel fiume, assistita da numerosa servitù.
Quindi, mentre Hedwig ed i loro bambini stanno giocando in un splendida cornice, dall’altra parte del muro le persone vengono carbonizzate mediante una tecnica messa a punto proprio da Rudolf.
Hedwig è orgogliosa della sua serra, del suo frutteto e della piscina dove i figlioletti possono giocare: ridacchia mentre sceglie gli oggetti più preziosi dei prigionieri ebrei assassinati, dando la sensazione di essere impermeabile all’orrore, ostentando il suo status appena raggiunto, come una pelliccia di visone rubata; e dicendo freddamente alla sua cameriera ebrea una frase agghiacciante, con tono colloquiale: «Potrei chiedere a mio marito di spargere le tue ceneri attraverso i campi di Babice».
La donna non lascerebbe mai la villa fuori città che ha sempre sognato con Rudolf: tanto che quando lui è incaricato di una missione ancora più impegnativa - e cioè organizzare un corposo spostamento di ebrei dall’Ungheria in un altro campo di concentramento – decide fermamente di non seguirlo per non abbandonare la splendida dimora che la sua condizione (di moglie di un ufficiale nazista) gli ha consentito di ottenere: Hoss parte per la missione ma il resto della famiglia rimane lì, nella “zona d’interesse”, dove la notte è illuminata dai fumi rossi degli inceneritori.
La magistrale interpretazione di Sandra Huller – perfetta nell’incedere con la durezza del passo militare, pur se femminile - crea un impatto da togliere il fiato.
I muri sono una componente cruciale di questo film, che mostra i dettagli quotidiani della vita di una coppia nazista in ascesa sociale e dei loro cinque bambini.
La famiglia Höss è cresciuta secondo i principi di un movimento tedesco anti-urbano che sosteneva un ideale agrario ed il rispetto per il mondo naturale ma la totale indifferenza per i crimini perpetrati oltre il sentiero che separa la loro casa dal campo di concentramento: Rudolf, un uomo che presiede agli omicidi di migliaia di persone ogni settimana, dando indicazioni ingegneristiche sulle modalità di canalizzazione delle ceneri, detta, per contro, una invocazione addolorata per la mancanza di rispetto delle sue pregiate piante di lillà.
Ma attraverso l'incredibile e coinvolgente operazione di ingegneria del suono (per la quale, anche, è stato riconosciuto al film l’Oscar 2024), il rumore ambientale generato dagli orrori all'interno del campo viene evocato con un'intensità soffocante che corrisponde alla cappa di fumo che si alza continuamente dai camini delle fornaci.
Le atrocità non si vedono; la vita familiare è totalmente indifferente a quello che accade a pochi metri di distanza ed è insensibile all’orrore; le immagini sono concentrate sull’organizzazione della vita quotidiana, come se tutto ciò che viene inquadrato fosse un semplice rumore di fondo, a cui ci si abitua dopo pochi minuti.
Nessuno, apparentemente, si accorge o parla di ciò che accade oltre il muro di confine che rappresenta l’unico sfumato riferimento alla drammatica vicenda: la “banalità del male” rimane un inevitabile richiamo letterario[2].
Il film comunica che lo sterminio, oltre alla tragedia umana e politica che ha rappresentato, è accompagnato da un altro aspetto disgustoso, costituito dalla normale quotidianità che vivevano i civili fuori dai campi di concentramento: esprime una lettura gelida e profonda di ciò che è stato l’Olocausto, con un ennesimo invito a non dimenticare.
Alla struttura filmica prescelta vengono accompagnate anche scene simboliche, in bianco e nero negativo, come per esempio quella, in sequenza ricorrente, di una bambina o giovane donna che nasconde del cibo fra la terra o in mezzo ad un mucchio di foglie senza alcuna spiegazione e senza un apparente legame con le vicissitudini che precedono e seguono la scena stessa.
In un’intervista rilasciata al quotidiano britannico The Guardian[3] il regista, Jonathan Glazer, si riferisce a quelle scene affermando di aver voluto fare un film sull’Olocausto per renderlo presente e, nel contempo, per creare uno stacco dall’oscurità di una storia tanto buia.
La giovane donna, infatti, mette sotto terra cibo e mele, sperando che i prigionieri il giorno dopo le trovino e abbiano qualcosa da mangiare: aver reso le scene con la fotografia in negativo, dotata di luce particolare, trasmette, secondo il regista, un messaggio di speranza.
Nell’intervista, Glazer spiega che il messaggio lanciato nel film, la cui realizzazione è durata circa 10 anni, è il riflesso della “sua” speranza di riuscire a realizzarlo, perché più volte aveva pensato di concludere l’esperienza, tanto era doloroso il percorso psicologico da seguire.
Ha raccontato di aver tracciato la storia narrata dopo l’incontro con una donna polacca di 90 anni, Alexandria, la quale durante l’Olocausto era poco più di una bambina e che aveva preso parte alla Resistenza nazionale: gli aveva raccontato che, nonostante la giovane età, andava in bicicletta vicino al campo di concentramento per lasciare le mele nascoste in mezzo alla terra, proprio come la figura anonima delle scene che illuminano la trama del film.
Glazer ha raccontato che la casa in cui aveva realizzato le riprese era quella in cui viveva Alexandria; che la bicicletta della scena era quella da lei usata e che era suo anche il vestito della protagonista, Hedwige Höss.
Le scene in negativo ispirate dal suo racconto non sono soltanto il simbolo dell’umanità che resiste e che cerca di continuare ad essere solidale, anche quando è circondata dalla morte: rappresentano lo strumento usato da chi intende farsi portavoce di una storia così tanto oscura da avere paura di interiorizzarla ed un messaggio peculiare per chi non vuole dimenticare.
Poco settimane dopo aver parlato con il regista al quale aveva tramandato la sua storia, Alexandria è mancata.
Proprio a lei, Glazer ha dedicato il film nel discorso di ringraziamento che ha pronunciato subito dopo aver ricevuto l’Oscar[4] nel quale, commosso, ha invocato la pace nel tremendo attuale conflitto fra Israele e Palestina.
[1] Cfr. La Zona di Interesse di Martin Amis, Einaudi, 2014.
[2] H. Arendt, La Banalità del Male, Feltrinelli.
[3] https://www.theguardian.com/film/2023/dec/10/jonathan-glazer-the-zone-of-interest-auschwitz-under-the-skin-interview
[4] https://www.theguardian.com/film/video/2024/mar/11/jonathan-glazer-oscars-speech-gaza-israel-video