Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Più di un morto al minuto

di Daniele Chiti
master in giornalismo, Università di Padova

Il lato oscuro della prossima kermesse iridata: i mondiali in Qatar sono un affare per tutti ma hanno un costo in vite umane che non era stato preventivato. I migranti sono le vittime silenziose del clima inospitale e del sistema della kefala

I campionati del mondo di calcio in Qatar saranno i primi a disputarsi in Medio Oriente, i primi a disputarsi a fine autunno (quando le temperature sono meno torride), e i secondi dopo vent’anni a svolgersi in Asia, secondo una convenzionale alternanza dell’ospitalità tra i diversi continenti.

L’impiego del Video Assistant Referee, più comunemente noto come Var, è iniziato ai campionati del mondo del 2018 in Russia, e ha fatto molto per restituire credibilità e trasparenza alla FIFA dopo il flop del mondiale nippo-coreano del 2002, rovinato da corruzione e arbitraggi pilotati. Dopo essersi ulteriormente affinato questo strumento verrà riproposto anche nel secondo mondiale asiatico, sperando che garantisca la trasparenza della competizione.

Che l’Asia sia diventata il motore dell’economia globale è ormai risaputo, e l’emiro del Qatar non fa certo mistero della ricchezza del suo patrimonio, ma a qualcuno probabilmente sarà sfuggito il motivo per cui una piccola monarchia assoluta di due milioni e mezzo di abitanti e una superficie corrispondente a poco più di un terzo del Belgio, dal clima inospitale e senza le infrastrutture adatte, sia riuscita a ottenere la candidatura per organizzare un evento di tale portata.

A partire dalla fine degli anni ’80 l’emirato qatariota ha investito moltissimo nel cd. soft power, termine coniato negli anni ’90 per indicare la capacità attrattiva e persuasiva di un potere politico tramite risorse intangibili come la cultura e i valori piuttosto che con la coercizione, e che trova nello sport un veicolo ideale di legittimazione. Tanti grandi eventi sportivi, inclusa la Supercoppa italiana di calcio, si sono disputati a Doha dal Gran Premio di MotoGP al Qatar Masters di golf, dal Mondiale di Calcio Under-20 del 1995 ai Giochi Asiatici del 2006 alla Coppa d’Asia del 1988 e del 2011. Ma di qui a vedersi assegnare i campionati del mondo di calcio, specie per un paese privo di storia calcistica, ce ne corre.

La candidatura del Qatar per il 2022 fu presentata a sorpresa nel 2009, quando si preparava per la prima volta nella storia della FIFA una doppia assegnazione per il 2018 (all’Europa) e il 2022 (al resto del mondo fatta eccezione per il Sud America). Il 2 dicembre 2010 a Zurigo la Russia con 13 voti si aggiudicò il mondiale del 2018, in un momento storico in cui Vladimir Putin puntava molto sulla legittimazione che gli avrebbero portato le Olimpiadi invernali di Sochi previste per il 2014. Sappiamo come andarono invece le cose.

La Russia sbaragliò la concorrenza di candidature congiunte molto forti (Belgio/Olanda, Spagna/Portogallo, Inghilterra), ma la vera sorpresa fu la vittoria del Qatar, la cui avveniristica candidatura (con stadi climatizzati e annesso piano di sviluppo economico) superò con 14 voti finali quelle di Australia, Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. La trasparenza di quella votazione fu successivamente certificata da un’indagine interna della FIFA successivamente definita un whitewash, ovvero un’insabbiatura da parte del comitato etico.

I sospetti si addensano attorno ai nomi dei membri delle federazioni che presero parte alla votazione, tra cui diversi successivamente coinvolti in scandali o condannati per corruzione a seguito dell’indagine dell’FBI del 2015 (tra cui spiccano l’ex presidente della FIFA Sepp Blatter e l’ex presidente dell’UEFA Michel Platini, costretti a dimettersi dopo l’accusa di corruzione da parte del comitato etico FIFA). Dopo il successo del mondiale in Sudafrica nel 2010 era il Qatar la nuova Eldorado da conquistare, un outsider in grado di mettere sul piatto investimenti in infrastrutture per 138 miliardi di dollari; per l’appunto la penisola affacciata sul Golfo Persico rispondeva anche all’ecumenico slancio di Blatter, fiero sostenitore dell’allargamento dei confini del calcio a zone geografiche ancora vergini, e in particolare ai paesi arabi fino ad allora esclusi dall’organizzazione dell’evento. L’allora presidente della federazione asiatica Mohammed bin Hammam (squalificato a vita dalla FIFA per corruzione nel 2011) diede alla candidatura la spintarella finale, ma è probabile che il fondo sovrano del Qatar non ne avesse nemmeno bisogno per assicurarsi la vittoria.

Dal 2010 la Qatar Sports Investments, controllata del fondo sovrano del Qatar con investimenti nello sport e nell’intrattenimento, sotto la guida del presidente di BeIN Media Group e del Paris Saint Germain (PSG), Nasser Al-Khelaifi, dal 2011, ha iniziato ad annoverare tra le sponsorizzazioni molti grandi club europei, quali appunto PSG e Bayern Monaco; in quel periodo aveva appena messo sotto contratto il Barcellona di Lionel Messi, un testimonial della prima ora. Con altri testimonial prestigiosi come Pep Guardiola, attuale allenatore del Manchester City ed ex allenatore proprio del Barcellona, legatosi a doppio filo alla Qatar Foundation, o ad esempio David Beckham, il Qatar si è fatto portavoce di progetti educativi e di inclusione sociale che poco hanno a che vedere con i milioni pagati ai loro alfieri. Grande il successo della Aspire Academy, più che una scuola calcio internazionale un’autentica fabbrica di giocatori nata nel 2004 per decreto dell’emiro, già fucina di molti talenti approdati in squadre satellite del vecchio continente e di alcuni dei nazionali qatarioti vincitori della Coppa d’Asia del 2019.

Ma a che costo è legittimo che la politica insegua una narrativa di successo? I complici vanno cercati in giro per il mondo: France Football ha ipotizzato che in cambio dell’appoggio di Platini alla candidatura del Qatar l’emirato abbia fatto promesse di grandi investimenti, poi mantenuti, nel calcio francese (rinverdendo i fasti del PSG); anche l’Inghilterra aveva forti interessi affinché il mondiale si disputasse in Qatar, e non solo per la progressiva colonizzazione della Premier League da parte dei magnati arabi: le quattro principali società beneficiarie degli appalti per l’organizzazione dell’evento e la costruzione delle infrastrutture hanno sede a Londra. Sono risultati poi sospetti anche i compensi da capogiro per un’amichevole di lusso disputata nel 2010 a Doha tra Brasile e Argentina, e riscontrati contatti impropri con alcune federazioni africane. Hanno destato inoltre sospetti di corruzione anche i pagamenti alla FIFA da parte di Al Jazeera, emittente qatariota finanziata dall’emiro, per l’assegnazione dei diritti televisivi dell’evento. Infine, è relativamente recente l’inchiesta dell’Associated Press da cui emerge addirittura lo spionaggio di dirigenti e delegati da parte di un ex agente della CIA, Kevin Chalker.

Nonostante quella che si potrebbe eufemisticamente definire la scarsa limpidezza del processo di assegnazione del mondiale, l’obiettivo comune fu raggiunto. Nessuno temeva di dover insabbiare future inchieste: una volta messa in moto la macchina organizzativa il risultato del bando non sarebbe più stato messo in discussione. Da allora il Qatar ha basato tutto il proprio piano di sviluppo economico degli ultimi due lustri sulla costruzione di stadi (molti ex novo, altri da ammodernare), strutture ricettive, trasporti. Il mondiale ha offerto l’occasione per innescare un’immigrazione di massa, che ha quasi triplicato la popolazione del paese, passata dal milione di abitanti del 2006 agli ormai quasi tre milioni del 2020.

E per tirar su 7 nuovi stadi alla periferia di Doha che potranno ospitare da 40,000 a 86,000 spettatori, più la città artificiale di Lusail attorno allo stadio dove avrà luogo la finale, il Qatar non si è limitato ad ingaggiare archistar del calibro di Zaha Hadid o ad appaltare le opere ai grandi partner dalla City, ma si è dotato di una manodopera a basso costo proveniente da un raggio di migliaia di chilometri, assoggettata al tradizionale sistema di sponsorizzazione dei migranti detto kefala[1].

I diritti dei lavoratori stranieri in Qatar non sono garantiti (leggi “regolarmente calpestati”) in quanto il permesso di soggiorno è garantito dal datore di lavoro, che di solito è anche padrone dell’alloggio: pur essendo nominalmente liberi di cambiare lavoro, i migranti (provenienti soprattutto dal Nepal e dall’India) subiscono il ricatto dello stipendio da fame in un paese dal costo della vita elevato, trovandosi costretti a scegliere un più economico stato di semi-schiavitù, con orari di lavoro sfiancanti in condizioni climatiche estreme. Un’indagine del Guardian riporta le cifre sconcertanti del numero di morti registrate dalle ambasciate dei paesi che più forniscono forza lavoro al Qatar (principalmente India, Nepal, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka): secondo l’inchiesta uscita a inizio 2021 (Revealed: 6,500 migrant workers have died in Qatar since World Cup awarded) il conteggio delle vittime collegate ai lavori per i mondiali ammontava a 6751 in undici anni, in media circa 12 la settimana. Un dato impressionante se rapportato al numero di morti bianche registrate ogni anno in Italia, e ancor di più ai numeri di morti associate ai lavori per le Olimpiadi (dalla quarantina di morti per la realizzazione di Atene 2004 alle 0 morti registrate per Londra 2012).

Preso atto delle lacrime di coccodrillo del comitato organizzatore della FIFA, che dichiara il numero di morti in linea se non più basso di quelli di altri grandi eventi sportivi, l’inchiesta del Guardian fa notare come la maggior parte dei decessi sia stato ricondotto dalle rispettive ambasciate a “cause naturali”, quali ad esempio gli arresti cardiaci: ma che ad esempio l’80% dei 2.711 migranti indiani deceduti abbia subito un arresto cardio-respiratorio non sembra affatto naturale, a meno che non si considerino naturali anche le temperature in Qatar nel periodo estivo (a volte oltre i 50 gradi) e le condizioni di vita dei lavoratori. E la tragedia collettiva di questi morti “invisibili” si nasconde proprio dietro la “causa naturale”, che giganteggia accanto alla più piccola ma non trascurabile percentuale di morti in cantiere, in incidenti stradali, per suicidio o malattia.

Le pressioni internazionali hanno spinto il governo qatariota a prendere l’iniziativa per contrastare il sistema della kefala, ma le riforme sono state giudicate insufficienti dalle associazioni non governative. È vero che a fine 2020 è stata abrogata la necessità del permesso del datore di lavoro per ottenere il visto di uscita dal paese, ma è rimasta in vigore la legge che prevede l’assenso del datore precedente se si intende cambiare lavoro (pena arresto e deportazione) e l’incremento del salario minimo equivalente a 275 dollari al mese non appare allineato al costo della vita nel Paese.

Tornando ai numeri del mondiale in Qatar, se tutte le gare della fase a eliminazione diretta finissero ai tempi supplementari si sarà giocato complessivamente per 6240 minuti. Questo significa che ogni minuto della rassegna iridata è costato almeno una vita umana. Un prezzo davvero inaccettabile anche per chi considera il calcio una ragione di vita.

 


[1] Kefala (o kafala) è un istituto del diritto islamico traducibile come "adozione".

25/02/2022
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