Magistratura democratica
Magistratura e società

Per fare un magistrato ci vuole...

di Nicola Russo
Consigliere della Corte di Appello di Napoli e già componente del comitato direttivo della SSM con funzione di coordinatore della formazione iniziale

Il difficile equilibrio nella scelta dei contenuti della formazione iniziale tra approfondimento tecnico e riflessione culturale più ampia costituisce da sempre la più complessa opera di dosaggio rimessa alla formazione professionale. Opera, questa, ancor più complessa quando rivolta ai neo-magistrati. Nello scritto il racconto dell’esperienza di un componente del precedente direttivo della SSM con una riflessione sui “bisogni” della magistratura.

È ormai trascorso quasi un anno dal termine dell’esperienza nel comitato direttivo della Scuola della Magistratura. Forse è un tempo sufficiente per poter guardare a ciò che si è fatto con il giusto equilibrio tra sensazioni personali e distaccato giudizio, tra ricordo e riflessione.

In queste righe non c’è un monito né una traccia per il futuro, ma più semplicemente un racconto di ciò che si è cercato di realizzare, pur coscienti dell’incompiutezza dell’obiettivo finale.

Potrà apparire quasi stravagante ciò che sto per dire: ritengo questo “non compiuto” assolutamente un Bene. È un bene che il solco sia aperto e ci sia ancora molto da seminare.

Aldo Moro diceva «Tanto è stato fatto e tanto resta da fare». Questa frase mi è risuonata in testa due volte durante il quadriennio: il primo e l’ultimo giorno del mio incarico alla Scuola e non stava a segnalare che tra questi due termini nulla si fosse mosso. Al contrario. 

Era, sul primo versante, la presa d’atto (rassicurante) di muoversi su una traccia che altri avevano iniziato a segnare e, sul secondo e più recente, che si lasciava una testimonianza comunque utile a chi avrebbe proseguito quel percorso.

Perché ho detto che è un Bene che la formazione, soprattutto quella iniziale, non sia un percorso chiuso? Se la volessimo rappresentare geometricamente, non bisognerebbe ricorrere ad un cerchio (né ricercare la sua quadratura), bensì occorrerebbe rappresentarla come una retta impegnata nel suo infinito percorso.

Una formazione iniziale verso la professione del magistrato, che non fosse in grado di cogliere i mutamenti giuridici, ordinamentali e sociali del suo ruolo, delle funzioni esercitate, del confronto con nuove categorie di diritti si presterebbe ad essere un vuoto simulacro e sia i neo magistrati, che i futuri destinatari del loro ius dicere, non troverebbero in essa alcuna rispondenza con le esigenze dell’attualità.

Da questo punto in poi del mio scritto, consapevolmente passerò da una dimensione espositiva al “singolare” ad una espressa al “plurale” perché mi pare corretto rendere atto di scelte che nel comitato direttivo abbiamo fortemente condiviso.

Un importante riferimento iniziale per quella che è stata la nostra visione di formazione può rinvenirsi nell’affermazione contenuta in una risoluzione del CSM del 14 maggio 2003, in cui, con un linguaggio decisamente illuminato, si è scritto: «la formazione professionale dei magistrati non è, e non deve essere, rivolta alla conformazione dei magistrati e della loro attività ad un unico modello imposto dall’alto e dall’esterno e neppure dallo stesso Consiglio superiore della magistratura (ed aggiungo oggi: nemmeno dalla Scuola Superiore della Magistratura ndr.). Essa è invece diretta, oltre che all’acquisizione delle necessarie capacità tecniche, anche a suscitare consapevolezza dei termini culturali dei problemi, dei valori sottesi ad ogni scelta operativa, al libero confronto ed al reciproco approfondimento tra i rispettivi orientamenti, proprio al fine di rendere consapevole... l’esercizio dell’autonomia di ciascuno».

Nella selezione degli obiettivi indicati nella risoluzione, quando abbiamo dovuto rapportarci a quello più complesso di «suscitare consapevolezza dei termini culturali dei problemi e dei valori sottesi ad ogni scelta operativa» ci siamo chiesti quale fosse il registro giusto su cui muoverci, come quest’operazione potesse compiersi senza ricadere nel rischio di una “infusione di principi” e, quindi, come portarla avanti nelle forme quasi di una “istigazione alla loro ricerca”. In altre parole, come potessimo, in questo specifico e delicatissimo ambito, indicare ai m.o.t. un metodo piuttosto che fornire loro un risultato. Questa era la vera sfida!

Il resto dei compiti della formazione iniziale risultava senza dubbio meno complicato. L’acquisizione delle necessarie capacità tecniche e l’approfondimento tra i rispettivi orientamenti, potevano contare su conoscenze metodologiche e giuridiche da noi già possedute e sperimentate nei rispettivi ambiti di competenza. Inoltre, l’attività di istruzione tecnica offerta dalla Scuola centrale era inserita in una più complessa rete formativa costituita dal tirocinio presso gli uffici giudiziari e dalle attività delle strutture decentrate di formazione (realtà, entrambe, preesistenti alla SSM).

Perciò non ci ha meravigliato che le maggiori difficoltà nel confronto tra noi e i nostri magistrati in tirocinio si siano concentrate proprio su quell’aspetto della formazione in apparenza meno direttamente attinto dalla tecnica giuridica; su quella che potremmo chiamare la “cassetta degli attrezzi”, cioè il lavoro sulle precondizioni della conoscenza giuridica.

Dalle mie parti un proverbio dialettale (che traduco per semplicità), dice che “è l’attrezzo che fa il bravo artigiano”. Lasciata a sé stessa l’affermazione può apparire opinabile; tuttavia, se l’attrezzo incarna i “termini culturali dei problemi”, quelli che spesso si ignorano o si danno per secondari rispetto al dominio delle cognizioni tecniche, il rischio è quello di “costruire” figure di magistrato incapaci di atti di giustizia perché ignari delle premesse culturali che alimentano di senso la norma giuridica.

Nel ricercare, allora, la strada in grado di suscitare nello spirito di ciascun neo-magistrato quell’evocazione individuale del “metodo giusto”, anche in ragione della guida sapiente del nostro presidente Silvestri, non potevamo che muovere dalla Costituzione.

Come spiegare, dunque, a persone che si affacciavano all’esercizio di questa nostra professione il cambiamento di visuale imposto dallo svolgimento della funzione giudiziaria? Qual è il distinguo tra “il prima” della fatica concorsuale ed il “dopo” del doversi orientare nella scelta degli attrezzi giusti da mettere in cassetta per fare il magistrato? Come far comprendere che già non era più il tempo per soffermarsi sulla gloria del risultato conseguito e che l’unico alloro da custodire era proprio quello della percezione della fatica che quell’esito aveva richiesto?

Ancora, come far sentire che quel senso d’inquietudine che aveva animato, fino a poco prima, il precariato e l’attesa e che aveva alimentato quotidianamente l’impegno non era da dismettere in ragione di comode certezze, ma al contrario si sarebbe rivelato il miglior alleato per coltivare il dubbio? Proprio quel dubbio che fa da stimolo alla ricerca, all’approfondimento, e che ti costringe a scavare fino a raggiungere «lo strato duro della roccia che è la Verità», per dirla con Wittgenstein.

La risposta l’abbiamo trovata nella Costituzione all’art. 54 e nella distinzione che questa disposizione pone tra il dovere gravante su ciascun cittadino e quello aggiuntivo richiesto dall’esercizio di pubbliche funzioni.

In un contesto di lettori com’è quello della Rivista che mi ospita non è certo necessario riprodurre il contenuto della norma. Tuttavia, quali sono le indicazioni che ne traiamo tutti, esperti e non del diritto?

1) Il magistrato è e resta un cittadino;

2) come tutti i cittadini è tenuto all’osservanza della Costituzione e delle leggi dello Stato

3) è tenuto, in aggiunta, ad un attento rispetto delle regole sia nello stretto svolgimento dei suoi compiti che nel modo di apparire nell’adempimento dei suoi doveri.

Il primo termine usato dal dettato finale della norma costituzionale è disciplina.

L’ossequio alla disciplina impone conoscenza e studio delle norme giuridiche.

Ma la Costituzione, nel consegnarci l’esercizio di un così importante compito, ci chiede molto di più. Lo fa utilizzando una parola che, pronunciata in una società disorientata sui valori come appare essere quella attuale, rischia di essere intesa come un generico richiamo morale. 

Invece, si tratta di un’espressione assolutamente fondamentale per descrivere il ruolo del magistrato: onore.

L’onore, qui inteso come capacità di farsi interprete e tutore dell’autorevolezza dello Stato, impone un insieme di presidi, culturali e comportamentali, di cui si deve dotare chi ha scelto (ed è stato scelto) per svolgere il mestiere del magistrato: dignità, indipendenza, fermezza, coraggio, equilibrio, umiltà, gentilezza ed umanità.

Queste sono solo alcune delle componenti in cui si declina l’onore che ci è richiesto dalla Costituzione. Tante altre sono però le qualità aggiuntive che occorre possedere e coltivare quotidianamente per poter essere capaci di prestare fede al giuramento che si è fatto.

È proprio dal momento del giuramento che siamo chiamati all’ossequio della disciplina ed alla manifestazione dell’onore. Quest’ultimo è un abito che ci è posto sulle spalle ma spetta a noi adeguarci alla taglia. Non possiamo e non dobbiamo cercare di renderla conforme alla nostra, di adattarlo alle nostre abitudini.

Ossequio alla disciplina ha significato, per noi del direttivo, anche sforzarci nel cercare di far comprendere e far rispettare le regole che presidiavano alla proficuità del tirocinio, all’impegno richiesto, al rispetto dei criteri di formazione della graduatoria ecc.

Anche in questo era necessario che si capisse da subito che occorre muoversi con onore. Perché anche in questo mostriamo e dimostriamo se il nostro modo d’essere è veramente conforme al ruolo che la Costituzione e la collettività ci ha assegnato.

Siamo e restiamo cittadini. Lo abbiamo ripetuto quasi quotidianamente, in maniera diretta e attraverso gli attori scelti per l’interlocuzione con i magistrati in tirocinio.

Questo essere e rimanere cittadini secondo la visione del primo comma dell’art. 54 Cost. ci impone un continuo confronto con i fenomeni sociali, un dovere di umiltà e di conoscenza, una attitudine all’ascolto prima ancora che alla parola, una propensione all’impegno che, esercitato nelle forme e nei modi opportuni, può rivelarsi una positiva testimonianza  per la società.

Hobbes, nel Leviathan, così individuava le qualità del giudice: «Le cose che fanno un buon giudice o un buon interprete delle leggi sono: in primo luogo una giusta comprensione di quella principale legge di natura chiamata equità che, dato che non dipende dalla natura degli scritti di altri uomini, ma dalla bontà della ragione naturale e della capacità meditativa di un uomo, si presume che appartenga soprattutto a chi ha avuto più tempo e maggiore inclinazione per meditare su di essa; in secondo luogo, il disprezzo per la ricchezza superflua e per le promozioni; in terzo luogo, la capacità di spogliarsi, quando si giudica, di ogni paura, ira, odio, amore e compassione; quarta ed ultima cosa, la pazienza di ascoltare, l'attenzione diligente quando si ascolta e la memoria per ricordare, assimilare ed applicare ciò che si è ascoltato».

Il nostro è, insomma, un mestiere particolarissimo in cui le prerogative sono in realtà solo una manifestazione di doveri che sono a noi imposti ed in cui le garanzie sono a tutela non nostra ma di valori che ci sovrastano.

Ad esempio, a differenza di altre professioni complesse noi non possiamo scegliere i destinatari delle nostre decisioni e, al tempo stesso, questi ultimi non possono scegliere a chi affidarle.

Se devo farmi visitare, posso scegliere il medico secondo le sue capacità specifiche. Se devo costruire un immobile, posso selezionare il progettista che mi offre le migliori garanzie.

Questo non può dirsi per la funzione giudiziaria. Il cittadino non può scegliersi il magistrato. Non può indicare chi debba pronunciarsi sui suoi diritti, chi debba decidere su ambiti e questioni di rilevanza assolutamente primaria come la libertà, la proprietà, la filiazione, lo stato ecc.

Ciò, si badi bene, non vuol dire che, per compensare quest’apparente limitazione, il magistrato debba adeguarsi alle aspettative di chi è giudicato da lui o della comunità che a quella decisione guarda con variegata posizione. 

La giustizia è amministrata “in nome del popolo italiano” non “per conto del popolo italiano”.

Luigi Ferrajoli, nel suo interessante scritto Giurisdizione e consenso, ci avverte che è «il carattere non consensuale né rappresentativo della legittimazione dei giudici a fondarne i requisiti di imparzialità, di terzietà e di indipendenza da qualunque potere, inclusi i poteri rappresentativi della maggioranza. Proprio perché risiede nella garanzia dell'imparziale accertamento del vero, la legittimità del giudizio non può dipendere dal consenso della maggioranza.»

Dunque, se è vero che il consenso non è necessario a fondare la legittimazione della giurisdizione, v’è, però, un profilo del rapporto tra giudice e cittadini dal quale il primo non può prescindere. 

Ce lo ricorda sempre Ferrajoli; esso si sostanzia nell’espressione fiducia: è la fiducia dei cittadini: «fiducia nell'imparzialità di giudizio dei giudici, fiducia nella loro onestà e nel loro rigore intellettuale e morale, fiducia nella loro competenza tecnica e nella loro capacità di giudizio.»

Parlare tra magistrati di questi concetti può apparire scontato e celare un atteggiamento presuntuoso. Questo secondo, per chi mi conosce, sa che non mi anima e certamente non anima questo scritto. C’è negli eventi più recenti qualcosa che non si può più ignorare ed è la presa collettiva di coscienza che questi argomenti non possono più essere dati per scontati e messi da parte, sottraendoli alla centralità del dibattito associativo: questi stessi temi devono animare costantemente il fuoco di qualsiasi ambito della formazione, soprattutto di quella permanente e di quella dei direttivi.

In che cosa abbiamo cercato di sostanziare quella che prima si è definita l’istigazione alla ricerca?

Ci si è dovuti muovere nello spazio tra due pilastri: irrinunciabilità di questo tipo di formazione e percezione soggettiva del bisogno formativo.

Cercherò di spiegare meglio questo concetto utilizzando l’esempio che ero solito fare ai m.o.t. nel presentare la settimana introduttiva presso la Scuola: per giustificare lo iato tra la nostra scelta di alcuni contenuti e le loro ansie culturali parlavo del mio personale rapporto con I Promessi Sposi. Le sensazioni provate nei primi anni delle scuole superiori quando, da programma, ne veniva “imposta” la lettura ed il momento in cui, in seguito, avevo scoperto la grandiosità di quel romanzo. In molti ricorderemo quanto da studenti ci apparisse noioso e inutile leggere e commentare quella storia fatta di costumi ormai superati e di personaggi che sentivamo lontani. Non comprendevamo il senso di quello sforzo e accettavamo con scarso entusiasmo di dovervi soggiacere. Eppure, in quel momento si creava comunque un legame tra noi e quelle vicende, un “rapporto di prossimità” con le parole usate per raccontarle, con le storie di miserie umane che, a distanza di anni, ci ha fatto rinascere l’interesse (come a me capitato) a riprendere il vecchio libro del liceo ed a rileggerlo. Riappropriarsi di quel racconto è divenuta allora una scelta e il tempo trascorso ha attribuito la maturità giusta per apprezzare la bellezza di quella narrazione.

Perché quella scelta maturasse era però stato indispensabile quel primo contatto avvenuto anni prima, quando ancora non si percepiva il senso e l’utilità di quella conoscenza.

Parlare di storia della magistratura, di valori costituzionali (e non semplicemente di diritto costituzionale), di etica e deontologia, di esperienze nelle singole articolazioni di questo mestiere, di rapporto tra il ruolo del magistrato e le altre categorie professionali fino a, introdurre, nell’ultimo anno del quadriennio, una finestra su come il resto della società ci vede è stato estremamente difficile e abbiamo spesso colto – negli sguardi e nei commenti- il senso di un’attesa rimasta delusa. Non per la qualità dei contenuti o dei relatori ma perché quei temi si davano per scontati o comunque si avvertivano come meno urgenti rispetto a ciò che la maggior parte dei magistrati in tirocinio riteneva essere il proprio bisogno formativo.

Ecco riemergere il problema da cui siamo partiti richiamando il proverbio: la scelta degli attrezzi.

Il saper “fare” anteposto, nella percezione di chi inizia, al saper “come fare”; per dirla in un altro modo, voler imparare come funziona un elettrodomestico limitandosi a ripetere pedissequamente le operazioni compiute dagli altri senza sforzarsi di leggere prima il manuale d’istruzioni, senza comprendere tutte le potenzialità dell’oggetto ma accontentandosi di sapere quali tasti e manopole servono a far svolgere a quella macchina tutti i giorni la stessa unica funzione.

Abbiamo scelto di remare controcorrente. Con questo però non voglio dire che non ci siamo posti il problema di far fronte anche a quell’urgenza, avvertita in maniera talvolta così ansiosa dai m.o.t., perché era senza dubbio giusto e necessario farcene carico e perché la finalità istruttiva fa parte degli scopi strutturali della Scuola (una volta scelti gli attrezzi è, ovvio, che bisogna iniziare usarli nel modo corretto). 

Però non abbiamo voluto cedere alle pressioni – da più parti avvertite e per lo più interne alla stessa magistratura- di abbandonare questa “istigazione alla ricerca del metodo”, convinti che presto o tardi la memoria di quelle “parole e di quelle narrazioni” sarebbe tornata utile ed apprezzata e se ne sarebbe fatto buon uso.

Abbiamo anche cercato di attualizzare quei messaggi mediante l’introduzione nella formazione di esperienze sociali su temi quali “l’antimafia sociale ed il riutilizzo dei beni confiscati” (a Favignana) l’immigrazione e gestione dei suoi flussi (a Lampedusa), la povertà ed il volontariato nelle aree depresse del pianeta (in Kenya).

Se lo spazio assegnato alle “premesse del giudicare” sia stato troppo o troppo poco non saprei dirlo. Il fine non era quello di mettere tutto ciò che serviva, perché non era possibile farlo e forse non era nemmeno proficuo farlo.

Ciò che serviva era far cogliere la complessità della visione richiesta al magistrato e segnalare su quali fondamenta poggiare il peso delle decisioni che si è chiamati quotidianamente ad assumere.

Per questo siamo stati consapevoli che quella nostra non poteva dirsi un’esperienza compiuta, che esaurisse in se stessa tutti i suoi scopi. Questi proseguono ben oltre il quadriennio di ciascun comitato direttivo e sono parte di un irrinunciabile e sempre nuovo percorso, come irrinunciabile e sempre nuova deve essere la Scuola Superiore della Magistratura se vuole essere adeguata al cammino.

Concludo questo mio scritto riprendendo quella che era una mia abitudine nel salutare i magistrati in tirocinio: la lettura di una poesia di uno scrittore e poeta francese, Charles Peguy. La ripropongo qui, convinto ora come allora, che in queste parole possa già trovarsi una traccia di risposta ai quesiti che la magistratura si sta attualmente ponendo o, se non ha deciso ancora di farlo, dovrebbe ricominciare a porsi.

«Un tempo gli operai non erano servi.

Lavoravano.

Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.

La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.

Era naturale, era inteso. Era un primato.

Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. 

Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.

Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.

Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia  fosse ben fatta.

E ogni parte della sedia fosse ben fatta. 

E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.

Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.

Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.

Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto».

30/12/2020
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