Di nuovo un Otto marzo, che siamo tutte molto contente di trascorrere insieme, anche se sappiamo che questa non è (non è solo) un’occasione di festa, ché se avessimo da festeggiare ci sentiremmo libere di essere altrove, a fare altro, qualsiasi cosa forse, tranne che lavorare o ragionare di lavoro. Di nuovo un Otto marzo in cui di parlare di lavoro non si può fare a meno, perché il lavoro per le donne come diceva Simone de Beauvoir, se non è la panacea, è pur sempre la prima condizione dell’indipendenza, e dunque della libertà di scegliere. Infatti, è davvero il caso di ragionarci su, se dicono il vero i dati più recenti a proposito della persistente inadeguatezza della presenza femminile nel mondo del lavoro, e soprattutto del costante divario retributivo che separa i generi.
Eppure, nel nostro ordinamento la parità, anche retributiva, è consacrata nella nostra Costituzione, all’art. 37, e poi comunque ripresa a livello normativo a partire dalla legge del 1977.
Proprio dall’art. 37 vorrei iniziare: non va mai dimenticato che dopo la prima parte, ove appunto troviamo l’affermazione della parità tra i generi, anche retributiva, nella seconda parte l’assolutezza del principio trova come una attenuazione, una precisazione che incide su quella parità un segno ambiguo e anche un po’ disarmonico: «Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua (della donna) essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione».
Il lavoro sì, ma purché resti salvo l’adempimento dei compiti (a questo punto, dei doveri) familiari; il lavoro sì, ma secondo un’ottica protettiva che ha ad oggetto non solo la maternità biologica (riguarda dunque il corpo delle donne), ma anche di quella che viene indicata come l’essenziale funzione familiare della donna lavoratrice.
Sono passati molti anni, è vero. E soprattutto un po’ sono tramontati i modelli. Da questo impianto protettivo, che indubbiamente valorizzava la necessarietà dell’impiego femminile nel lavoro di cura, collocando dunque la figura femminile nel lavoro produttivo solo in via eventuale, seppure tutelata, si è passati al modello emancipatorio, fondato essenzialmente sul principio di non discriminazione di fonte eurounitaria.
Vediamo di dare un ordine, ove possibile, a queste categorie. La Costituzione ribadisce il principio di parità già affermato in esordio, all’art. 3, e dunque su questo fonda la piena inclusione delle donne nella sfera del lavoro. Parità di diritti, parità di retribuzione, apparentemente senza eccezioni, né esitazioni. Difficile combinare l’assolutezza di questa affermazione con il portato della seconda parte, che in sé contiene tanto il richiamo al dovere di protezione della maternità, quanto la perpetrazione di una forma di segregazione nel ruolo di cura, “essenziale” e dunque per la donna senza scampo, senza alternative.
Il cambiamento ha inizio quando nel nostro ordinamento, a partire dai tardi anni ’70, iniziano a trovare attuazione i principi di stampo antidiscriminatorio, di origine eurounitaria, principi che avevano trovato la prima affermazione già nel Trattato di Roma essenzialmente nella forma del divieto di disparità di trattamento retributivo, come mezzo per garantire il pieno dispiegarsi della concorrenza attraverso il contrasto ad ogni forma di dumping salariale.
La sintesi non è e non può essere di facile attuazione. Il contrasto tra modelli esplode in due vicende che in sede giudiziaria hanno rappresentato la diversità di visione sottesa alle due impostazioni di principio, quando l’Europa sanziona due misure diverse ma entrambe ispirate alla protezione della donna lavoratrice, il divieto di lavoro notturno per le donne, che si giustificava in Italia in base ad esigenze di sicurezza, ma che risultava penalizzante sul piano strettamente economico, e il diritto al pensionamento di vecchiaia, in allora secondo la legge italiana accessibile per le donne in età meno avanzata rispetto agli uomini, anche in questo caso in un’ottica protettiva in aperto conflitto con il rigore del principio di parità.
Il risultato di questo contrasto, risoltosi nel senso del doveroso rispetto dell’ordinamento sovranazionale, quale è? Che ora le donne, salvo le eccezioni giustificate principalmente in ragione della condizione di madre, non possono sottrarsi a condizioni di lavoro sempre più disagevoli, e per un arco di tempo lavorativo sempre più lungo.
La parità ha dei costi, che, vorrei ne fossimo tutte ben consapevoli, oggi sono pesantemente aggravati dalla progressiva precarizzazione e dalla verticale perdita di garanzie per la condizione di lavoratrice e di lavoratore, in generale. Il lavoro è sempre meno garantito e sempre meno pagato, ha sempre meno valore, e in questa caduta le donne comunque paiono subire le conseguenze peggiori.
Lottare per un lavoro migliore per le donne vuole dire, deve dire, lottare per un lavoro migliore per tutte e tutti. E viceversa, naturalmente.
La disastrosa liberalizzazione del mercato del lavoro, attuata a partire dagli anni 1990 con la sostanziale legittimazione dello schema interpositorio, ha prima di tutto dimostrato che meno regole non vuol dire più lavoro: vuol dire solo lavoro più precario, meno sicuro, meno dignitoso. E in questo meno ci sta un ancor meno del meno, che riguarda le donne.
Un esempio concreto: quello che è avvenuto durante la pandemia. Le donne si sono trovate per lo più rinchiuse in casa ad assolvere al lavoro gratuito di cura, sommato e sovrapposto al lavoro retribuito da svolgere in modalità “agile”; sono state private dal lavoro in maggior numero rispetto agli uomini, perché impiegate in prevalenza con contratti non stabili. Secondo i dati ISTAT, dei 440 mila occupati in meno nel 2020, il 70% è costituito da donne: la percentuale di donne che ha perso il lavoro è doppia rispetto a quella degli uomini rimasti disoccupati.
Non basta: le donne risultano più penalizzate nelle nuove assunzioni, e hanno registrato un minor numero di reingressi nel mercato del lavoro (su 67 mila persone rientrate, solo il 42,2% è di genere femminile). La crisi, anche in questo caso, ha comportato per le donne non solo la difficoltà momentanea, ma la causa di una regressione sensibile, e rapidissima, a fronte degli sforzi di lunga durata che avevano portato alle relative conquiste. E’ l’esempio di come sia fragile (non solo nel campo della parità, sia chiaro) il terreno del cammino dei diritti, e come spesso la caduta sopraggiunga rapidissima, travolgendo decenni di lente conquiste.
Più in generale, è vero che, come ha osservato Eva Cantarella, le crisi determinano sempre una regressione delle conquiste femminili: e così puntualmente è avvenuto.
Tengo molto a ritornare sulla questione retributiva: dopo l’affermazione di principio dell’art. 37 della Costituzione, e gli altri interventi sul piano legislativo, l’art. 28 del cd. Codice delle pari opportunità del 2006 impone l’eliminazione di ogni discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione della retribuzione, a parità di lavoro.
Nonostante questo convincente e consolidato apparato normativo, in Italia esiste e persiste un significativo gender pay gap, come d’altronde esiste in tutta l’Unione europea. Secondo gli ultimi dati Eurostat riferiti al 2020, infatti, tra i salari di uomini e donne vi è nell’ambito dell’Ue un differenziale medio rapportato alla paga oraria del 13,0%, con un’oscillazione molto ampia tra i diversi Paesi, mentre il dato dell’Italia è del 4,2%. A differenziare significativamente lavoratori e lavoratrici come gruppi è il fatto della concentrazione del lavoro femminile in settori dove le retribuzioni sono più basse e la sindacalizzazione minore (il lavoro domestico, ma più generalmente le attività legate alla cura delle persone; nel settore manifatturiero, l’industria tessile).
La Commissione Europea nella comunicazione del 20.11.2017 di accompagnamento alla presentazione del Piano europeo di azione 2017-2019 Affrontare il divario retributivo di genere, aveva già evidenziato che «i settori nei quali le donne sono raggruppate sono spesso retribuiti in misura minore rispetto a quelli in cui sono raggruppati gli uomini», ancorché rappresentino settori chiave per il futuro della società e dell’economia europea, quali istruzione, assistenza infermieristica e assistenza alla persona. I lavori di cura appaiono particolarmente penalizzati: e non possiamo non pensare che fra le donne a basso reddito vi sono quelle che consentono alle altre donne di liberarsi di incombenze di cura e familiari. Non dimentichiamo che le badanti spesso in quanto migranti sono vittima di discriminazioni multiple.
Ma non è solo un problema che riguarda il lavoro meno qualificato: anzi, il gender pay gap si allarga al crescere del titolo di studio: è pari al 16,5% tra le persone che non hanno un diploma, al 17% tra i diplomati, ma è quasi il doppio tra i laureati (29%). Ancora, si amplia al crescere del livello gerarchico, in tutte le professioni: è massimo tra i dirigenti (33,5%) e tra i professionisti (29,3%).
Dato comune di esperienza è che l’art. 28 del C.p.o. arriva quasi mai nelle aule di giustizia: il diritto antidiscriminatorio ha avuto ed ha grosse difficoltà ad affermarsi (è solo di pochi anni fa l’acquisizione in cassazione che la discriminazione va repressa comunque, indipendentemente dall’intento soggettivo di chi la pone in essere, e permangono grossi ostacoli processuali, a partire dalla difficoltà di acquisire dati a sostegno della domanda, per esempio a proposito del livello retributivo dei colleghi maschi).
Certo, la cultura antidiscriminatoria sta diffondendosi e sta per esempio passando il principio che trattamenti retributivi deteriori possano essere frutto anche di discriminazione indiretta: in questi casi si fa questione di regole apparentemente neutre, che tuttavia espongono (per quanto interessa) le lavoratrici al rischio di un particolare svantaggio (si pensi alle disposizioni di vari contratti collettivi che legano la corresponsione di talune voci retributive accessorie alla presenza effettiva in servizio per un tempo minimo nell’anno, senza operare alcuna “neutralizzazione” dei periodi di astensione per maternità o congedo parentale, disposizioni che possono determinare un particolare svantaggio per le lavoratrici madri, che usufruiscono in via esclusiva dell’astensione obbligatoria e, in misura largamente prevalente, dei congedi parentali).
Ma ecco, qui bisogna arrivare al punto. Il diritto antidiscriminatorio non può tutto, e questo vale in particolare nel settore del lavoro. Già anni fa, una studiosa molto attenta e attrezzata, anche politicamente (F. Guarriello), si chiedeva se «il diritto antidiscriminatorio non sia diventato l’ultimo baluardo di un sistema di garanzie giuridiche che perde sempre più peso rispetto agli imperativi dell’economia, estremo argine di protezione verso una possibile rimercificazione del lavoro». La profezia si è avverata, il diritto antidiscriminatorio ha sviluppato una sua parziale e limitata capacità incisiva, in tanto in quanto sono venute meno le tutele universali che l’ordinamento riservava alla generalità dei lavoratori e delle lavoratrici: un esempio, il riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento rappresenta una delle poche ragioni per la tutela completa, reintegra e risarcimento totale. Ma il giudizio sulle discriminazioni è essenzialmente un giudizio relazionale (salvo che in caso di molestie) e dunque nulla può contro la caduta dei diritti in generale: tant’è vero che non riesce nemmeno ad evitare che sul segmento più debole nei momenti di crisi si scarichino le conseguenze più penalizzanti.
Se dunque l’obbiettivo che ci sta a cuore e che ci prefiggiamo è quello del titolo – lavorare meno, lavorare meglio lavorare tutte – intanto bisogna lavorare perché il lavoro sia migliore per tutte e per tutti, che recuperi con urgenza e con forza quel valore, quel significato universale di emancipazione e di realizzazione della dignità umana.
Come sempre, il punto delle proposte arriva in fondo, quando è tempo di chiudere, il tempo stringe: e non a caso, è il punto più problematico e scivoloso.
E’ davvero difficile progettare una strategia di riscatto per il lavoro femminile, e per il lavoro in generale: ma non posso non fare cenno qui ad almeno due punti. Uno, che mi sta molto a cuore, più generale, volto a quel recupero universale di valore, anche economico, del lavoro, riguarda il tema salariale. Non è più rinviabile l’introduzione di un salario minimo per legge, capace di fronteggiare la progressiva perdita di capacità d’acquisto dei salari, che qui in Italia rispetto alle altre realtà europee in cui questa garanzia c’è, conosce una continua progressione negativa. L’autonomia collettiva non è stata capace di frenare la caduta, soprattutto in settori a maggiore femminilizzazione, come si diceva sopra, per cui non sono più differibili misure più stringenti e universali. A questo tema andrebbe naturalmente associato quello del limite, se non della fine, al lavoro precario, che penalizza da sempre soprattutto le donne, rende estremamente volatile la loro presenza nel mercato del lavoro. La precarizzazione ha reso la condizione di chi lavora sottoposta ad un perenne ricatto, non ha portato a nessun giovamento sul piano della produttività, ha solo indebolito ed impoverito, emarginandola, una classe sociale a cui pure la Repubblica, secondo Costituzione, avrebbe dovuto garantire la piena partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Venendo infine alle tematiche più strettamente di genere: è davvero immodificabile il modello per cui il lavoro di cura familiare spetta e continua a spettare soprattutto alle donne? Sono le donne che continuano a fruire in misura assolutamente preponderante dei congedi parentali, così come a ricorrere al part time: il che continua ad avere ripercussioni estremamente penalizzanti sul piano economico e di carriera nonostante il dispositivo antidiscriminatorio. Forse invece di perseguire nuovi strumenti di conciliazione, bisognerebbe cercare di coltivare il diverso percorso della condivisione delle responsabilità, in particolare nella coppia genitoriale. E allora, sarebbe il caso di cogliere anche in questo caso il modello che ci viene dall’Europa, e così estendere anche temporalmente i congedi obbligatori di paternità, perché non restino relegati al terreno del simbolico, ma diventino istituti su cui fondare una parità non solo nei principi, ma soprattutto nei fatti.
Il contributo riproduce il testo dell’intervento all’incontro promosso dal Comune di Torino dal titolo Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutte. Per gli argomenti ed i dati esposti, si rinvia all’articolo di Elisabetta Tarquini, Le discriminazioni economiche e di carriera delle donne nel mercato del lavoro, pubblicato sul n.4/22 di Questione Giustizia trimestrale, intitolato Il diritto femminile.