Magistratura democratica
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Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione

Dopo la fase del costituzionalismo politico che, superando la concezione dell’applicazione burocratica del diritto, aveva immesso la giurisdizione nell’attuazione dell’indirizzo politico-costituzionale, ponendo all’inizio dell’interpretazione del diritto i valori dell’interprete, nell’odierna stagione del costituzionalismo per principi l’imparzialità dell’interprete è affidata all’assunzione di un dovere di indipendenza da se stesso. Che il magistrato debba anche apparire imparziale non significa però astenersi dal prendere parte al dibattito democratico, cui il magistrato partecipa esprimendo le proprie scelte politiche al pari di ogni cittadino, ma significa essere ed apparire indipendente da formazioni politiche e soggetti operanti nel settore economico o finanziario, perché la sostanza dell’imparzialità è l’indipendenza.

1. Sapere tecnico e sterilizzazione politica del giudiziario 

Nella cultura giuridica statunitense è quasi ovvio identificare nella Supreme Court una componente progressista e una conservatrice, attribuendo queste qualifiche ai suoi singoli componenti, senza che il loro status di giudici supremi venga compromesso. Perché nella cultura giuridica dell’Europa continentale, e segnatamente nel nostro contesto nazionale, una simile qualifica offuscherebbe, a dir poco, l’aura di imparzialità del magistrato? Molte cose vanno messe a punto per rispondere a questa domanda, a partire dalla fondamentale differenza fra mondo anglosassone e continente europeo sul piano della civiltà giuridica. Partiamo da quest’ultimo elemento di base.

La cultura giuridica americana non si è evoluta nel senso della specializzazione tecnica della teoria e della prassi del sapere giuridico, ma è cresciuta in continuità con altri saperi e lo stesso ethos collettivo. La mancata sublimazione tecnica del sapere giuridico nell’universo anglosassone, tanto deprecata da Max Weber, è l’esito della continuità di diritto, costume e cultura sociale, che invece in Europa l’ingresso della forma codice ha spezzato. La nozione di «morale costituzionale», al centro del pensiero giuridico di Ronald Dworkin, il più influente teorico del diritto in Occidente nell’ultimo quarto del secolo scorso, non è che il precipitato della logica pre-positiva che presiede alla continuità, nel mondo statunitense, fra diritto e società. Se il diritto è specchio immediato, senza soluzione di continuità, di quello che ribolle nella sfera materiale dei rapporti sociali, non sorprende che progressismo, o conservatorismo, giuridico siano ancora diritto.

In Europa continentale non viene reputato che sia così. Un magistrato progressista, o conservatore, è colui che antepone la propria scelta politica alla mediazione giuridica. C’è un’ideologia giuridica alla base di questo giudizio. L’apparizione del codice civile, al principio del XIX secolo, ha separato il diritto dalla cultura sociale e ne ha fatto un sistema rigorosamente tecnico, improntato alla razionalità formale, che Weber, meglio di tutti, ha descritto. È giocoforza che un diritto siffatto non possa essere applicato da un giudice che sia espressione della comunità. Ad esso si adatta perfettamente il funzionario di estrazione napoleonica, che provvede all’applicazione burocratica del diritto, sine ira et studio. Deriva da qui non solo la «sterilizzazione politica del giudiziario»[1], ma anche la peculiare collocazione di quest’ultimo rispetto al sistema politico. Mentre nella tradizione europea l’ordine/potere giudiziario è privo di capacità di indirizzo politico, nella Costituzione americana il potere giudiziario «si attribuisce continuamente una sorta di potere costituente che mostra la “forza politica” complessiva della costituzione»[2].

Il giudice-funzionario che applica burocraticamente il diritto, sine ira et studio, non possiede una vera teoria dell’interpretazione giuridica. La sua dottrina ermeneutica è rappresentata dalla scuola dell’esegesi che, nel XIX secolo, fece della massima aderenza alla formulazione letterale della legge, in particolare quella del codice, il canone della esatta, “vera” interpretazione del diritto. Ben lungi dalla nota distinzione crisafulliana, non c’è qui distinzione fra disposizione e norma, enunciato linguistico e precetto: il significato normativo deve coincidere con il significante linguistico. 

       

2. La stagione del costituzionalismo politico: la politica dentro la giurisdizione

L’organizzazione tecnica del sapere giuridico è stata trasformata nel profondo dalla comparsa delle costituzioni democratiche novecentesche. C’è una prima fase del costituzionalismo democratico a cui va dato un nome, ed è il costituzionalismo politico[3]. Essa contraddistingue il cd. “trentennio glorioso” (1945-1975), nel quale la politica non era solo il gioco degli attori politici, ma aveva anche, quale indirizzo fondamentale dell’intero tessuto istituzionale, un precipuo contenuto costituzionale. Tutti i soggetti istituzionali erano mossi dall’imperativo di politica costituzionale della trasformazione sociale, prescritto dall’art. 3 cpv. Cost. Fra questa politica costituzionale e il diritto, ben lungi dall’indifferenza politica del giurista ottocentesco, vi era finalmente continuità. La sfera giuridica diventava la leva privilegiata dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale, come testimonia l’evoluzione in quegli anni del diritto e del processo del lavoro. E la magistratura, che avevamo lasciato alla vulgata della scuola dell’esegesi?

La magistratura è specchio dei movimenti costituzionali complessivi. Essa agisce secondo le logiche materiali della costituzione in azione. Nella stagione del costituzionalismo politico la magistratura non poteva non essere partecipe della continuità di diritto e politica. «Giudici a sinistra», per riprendere il titolo di una storia di Magistratura democratica[4], era segno di parzialità? L’endiadi “giudici e sinistra” non esprimeva la parzialità del gioco politico, ma intercettava “i segni dei tempi”, la tendenza fondamentale della stagione costituzionale, nella quale la politica dell’attuazione dell’art. 3 cpv. era niente di meno che la chiave di volta del costituzionalismo democratico, affermatosi dopo l’epoca dei totalitarismi. C’era un vento nella storia e quei magistrati lo colsero. Era una magistratura che faceva una scelta politica, quella in favore della politica come forma della costituzione. Nel costituzionalismo politico la politica entra nella giurisdizione perché è la costituzione stessa che si fa attraverso la politica. L’imparzialità del giudice riposa qui sull’assunzione dell’indirizzo politico-costituzionale. Per una generazione di magistrati quell’indirizzo corrispose anche alla loro scelta politica in qualità di cittadini. 

È nella stagione del costituzionalismo politico che nasce una vera teoria dell’interpretazione. Alle spalle vi è il grande pensiero filosofico novecentesco sull’ermeneutica. Il problema interpretativo non è più quello della verità e oggettività, ma è quello della trasparenza. L’interprete non può liberarsi dalle assunzioni di valore che condizionano la sua indagine. L’importante è la consapevolezza delle proprie precomprensioni di senso allo scopo di renderle pubbliche e, così, controllarle[5]. Anche la filosofia analitica del diritto, in quegli anni, va nella medesima direzione. Scrive Luigi Ferrajoli nella sua prima opera (1970) che le scelte politiche, alla base del sistema giuridico teorizzato, «sono tenute rigidamente distinte dal discorso teorico che ne consegue, onde risultino chiaramente esposte alla critica e alla discussione», rendendo consapevole il giurista «della convenzionalità delle sue assunzioni e delle loro inevitabili implicazioni ideologiche, e sollecitandone quindi l’impegno non solo scientifico, ma anche civile e politico, in una loro fondazione argomentata, coerente e controllata»[6]. Il precetto normativo non è più appiattito sull’enunciato linguistico, ma diventa l’oggetto di un’interpretazione che, muovendo da quell’enunciato (la cd. “disposizione”),ritrova la norma a partire dal punto di vista in cui l’interprete è collocato, e che diventa preciso dovere etico-epistemologico di quest’ultimo dichiarare.

La storia del Novecento europeo non termina però, come è noto, con il costituzionalismo politico. Già a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, nella temperie del sovranazionalismo e internazionalismo giuridico avanzante, un nuovo modello costituzionale si fa avanti e prende il sopravvento. Non è la sede questa per una analisi del complesso contesto storico-sociale in cui quel mutamento prende forma. Articolati processi, ovviamente non solo giuridici, sono alle sue spalle. Si tratta del costituzionalismo giuridico, nel quale l’indirizzo politico-costituzionale non ha più il monopolio della scena, ma sconta l’irruzione dei principi, la cui struttura è intimamente pluralistica. È la nostra stagione.

 

3. Il costituzionalismo giuridico: il ritiro della politica dalla giurisdizione

Rapportati al caso concreto, i principi sono necessariamente controversi. Si deve a Dworkin, già a partire dagli anni settanta del secolo scorso, la prima individuazione di questo nuovo campo teorico: «quando i principi si intersecano (per esempio, la politica di proteggere i consumatori di automobili può confliggere con i principi della libertà contrattuale), per risolvere il conflitto, occorre prendere in considerazione il peso relativo di ciascun principio»[7]. La tecnica per saggiare il peso e l’importanza dei singoli principi in relazione alle circostanze del caso concreto, dice Dworkin, enucleando un concetto che sarà decisivo nella giurisprudenza costituzionale dei successivi decenni, è quella del “bilanciamento”. Il costituzionalismo giuridico, o per principi, restaura una separazione fra diritto e politica, ovviamente diversa dal formalismo giuridico che ha preceduto il costituzionalismo politico.

La norma è il risultato del bilanciamento fra principi costituzionali cui provvede il legislatore. Si tratta di una scelta politica perché politica è l’opzione in favore di un determinato principio, piuttosto che in favore di un altro, e politica è anche la concreta forma del bilanciamento, il quale è espressione del principio scelto dalla maggioranza politica. Interamente giuridico è invece il controllo di legittimità, sul piano costituzionale, della scelta politica di bilanciamento. Il criterio di valutazione è riposto nel canone di proporzionalità, il quale, in quanto pari considerazione delle ragioni di ogni principio, rinvia alla suprema regola dell’eguaglianza. In base a tale canone, la compressione del principio soccombente deve avvenire nello stretto necessario per realizzare il principio prevalente e in modo che il nucleo indisponibile del principio perdente lasci una traccia e non sia del tutto sacrificato. Risiede in ciò la discontinuità fra diritto e politica che il costituzionalismo giuridico introduce: politica è la scelta tanto del principio prevalente quanto della forma del bilanciamento; giuridico è il sindacato di proporzionalità sulle modalità di prevalenza del principio vincente nella disciplina normativa.

La valutazione di proporzionalità non è solo opera dei tribunali costituzionali. Anche i giudici comuni vi provvedono quando si tratta di interpretare in modo conforme a costituzione la norma ordinaria o quando, nei casi di assenza sia della fattispecie legale che della riserva di legge, provvedono alla diretta attuazione dei principi costituzionali. Il bilanciamento del legislatore è politico, quello del giudice, come quando identifica il diritto del caso concreto per la mancanza della fattispecie legale, è giuridico: il primo fissa ciò che è bene per la comunità in base a una particolare concezione di vita buona, il secondo ha di mira ciò che è giusto, per riprendere una distinzione che risale a John Rawls[8]. Il sindacato di proporzionalità, proprio perché interamente giuridico, ha carattere tecnico e ben può quindi essere affidato a giudici che sono un corpo di funzionari, senza optare per il giudice espressione della comunità. Il sistema giudiziario concepito due secoli fa in Europa è ancora attuale, perché la forma del giudice-funzionario, grazie al costituzionalismo, si è caricata, in base a una virtuosa eterogenesi dei fini, di significati ignoti al tempo della sua elaborazione. Nel costituzionalismo giuridico la politica non entra più nella giurisdizione perché, attraverso il controllo di proporzionalità del bilanciamento fra principi, la scelta politica non è più parte della valutazione giuridica, ma ne diventa l’oggetto[9].

La ricerca della giusta proporzione nella compressione del principio soccombente impone un cambiamento nella teoria dell’interpretazione. Anche in questo caso vi è uno sfondo filosofico ed è il subentro, al modello di ragione storico-ermeneutico basato sul punto di vista, situato e contestuale, del singolo interprete, di un modello di ragione normativa, del quale il principale alfiere è stato Jürgen Habermas, seguito poi da autori come Robert B. Brandom, nel campo della filosofia teoretica, e Robert Alexy, nel campo di quella giuridica. Ragione normativa non vuol dire ritorno alla verità oggettiva della scuola dell’esegesi. Dopo che, con la filosofia ermeneutica, è stato affermato che la norma non è specchio dell’enunciato linguistico, ma è il risultato di un’attività interpretativa, non si può più tornare indietro. L’enunciato linguistico resta silente per ciò che concerne la norma. Lo svelamento di quest’ultima è affidato all’interprete. Il testo senza l’interpretazione è muto e tuttavia, come scriveva Umberto Eco, dice dei “no”, impedendo determinate ricostruzioni interpretative[10]. È noto, del resto, che il limite dell’interpretazione conforme risiede proprio nei “no” che l’enunciato linguistico oppone.

Ciò che differisce rispetto al passato è che l’interprete non estrae dalla disposizione la norma sulla base delle proprie assunzioni di valore, che rende esplicite al principio dell’attività interpretativa, ma assumendo la posizione dell’interprete ideale, libero da contaminazioni soggettive, posizione che non è uno stato di fatto, ma un dover essere cui tendere. Rispetto al silenzio, al livello del precetto, del testo quale complesso di segni linguistici, l’interprete assume un impegno normativo, che è quello di ascendere a una condizione ideale libera da condizionamenti, allo scopo di trasformare in fenomeno pubblico il precipitato giuridico che giace al fondo dell’enunciato. L’espressione “fenomeno” non è casuale perché, rispetto a quella essenza normativa che parla solo attraverso le interpretazioni, altri fenomeni potranno farsi avanti all’interno di una dinamica evolutiva, perché la verità non parla da sé, ma solo attraverso fenomeni[11]. Ciò che importa è l’impegno di ascensione a una condizione ideale che l’interprete deve assumere.

Proprio l’identificazione della proporzione ideale di compressione del principio soccombente, ferma la scelta politica in favore di un determinato bilanciamento di principi, rende evidente il dover essere cui l’interprete ha da sottoporsi. Il giudice, come ogni cittadino, fa le sue scelte politiche in materia di principi, ma quando deve dirimere la controversia su quale sia la giusta proporzione nel bilanciamento fra principi, in modo da adeguare a tale regola ideale il bilanciamento operato dal legislatore (salvo i “no” che l’enunciato linguistico possa opporre, dovendo a quel punto essere sollevato l’incidente di costituzionalità), deve essere imparziale. Per fare ciò deve assumere un impegno di indipendenza da se stesso, stendendo un velo di ignoranza sulle sue scelte politiche in favore di un principio, piuttosto che un altro, e sulle sue assunzioni culturali e di valore in generale, sospendendo così ogni precomprensione di senso[12]. L’indipendenza da se stesso non è uno stato di fatto, ma è l’ideale regolativo dell’attività interpretativa che l’interprete deve seguire, allo scopo di puntare al risultato dell’imparzialità. È il telos, l’idea-limite che contraddistingue la precipua prestazione professionale del giudicare nel contesto del costituzionalismo per principi. La sede del controllo pubblico di questo percorso di emancipazione dai propri pregiudizi è la motivazione del provvedimento.

 

4. Il cittadino-magistrato: anatomia di un attore politico sulla scena pubblica

Come la restaurazione di una separazione di diritto e politica, che il costituzionalismo giuridico comporta, non significa ritorno alla scuola dell’esegesi sul piano interpretativo, così il ritiro della politica dalla giurisdizione non ricaccia il magistrato nella vecchia società liberale, neutralizzata al livello dei conflitti politici. L’imparzialità dello ius dicere rispetto alle diverse scelte politiche non è sinonimo di neutralità politica del cittadino-magistrato. Il giudice funzionario del XIX secolo era organico alla concezione liberale di cittadino, titolare essenzialmente di diritti negativi nei confronti del potere pubblico e dei concittadini, a protezione della sua sfera di interessi privati. Fra il cittadino e il magistrato non si interponeva la sfera pubblica della partecipazione politica perché il modello liberale di società conosceva solo cittadini titolari di pretese negative nei confronti dello Stato. Quel magistrato era per davvero, anche come cittadino, neutralizzato sul piano politico, per cui all’esercizio della funzione sine ira et studio si accompagnava il perfetto anonimato dal punto di vista della politica.

È il costituzionalismo democratico del XX secolo che introduce una sfera pubblica della politica. Diritti costituzionali quali la libertà di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di manifestazione del proprio pensiero (art. 21) sono specchio di una società politicamente mobilitata, in cui la dimensione pubblica non è più mera protezione dalle altrui interferenze, ma è condizionamento attraverso la discussione democratica, e non solo l’esercizio dei diritti di elettorato, del processo della decisione politica. Il cittadino non è solo titolare di diritti negativi, ma è portatore dell’interesse a ciò che è pubblico, fa delle scelte politiche e queste, proprio perché relative alla sfera collettiva, per definizione entrano in un agone comunitario e sono rese visibili e trasparenti. A differenza del vecchio magistrato della società liberale, l’esperienza del magistrato della moderna società democratica è contrassegnata non solo dall’esercizio imparziale della funzione, ma anche dalla parzialità delle scelte politiche che, quale cittadino, esprime nel pubblico processo della politica. La controversia politica, che il pluralismo delle società contemporanee propone, è su quale principio costituzionale debba prevalere nei diversi contesti particolari, e come debba prevalere: è questo l’oggetto della scelta politica che il magistrato, come ogni cittadino, fa e che sottopone alla discussione pubblica. La scelta politica è in favore di un principio, piuttosto che un altro.

E tuttavia, noi sappiamo, che «l'esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di "essere" imparziale, ma anche di "apparire" tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni "parzialità", ma anche di essere "al di sopra di ogni sospetto di parzialità"»[13]. È questo l’ammonimento non solo delle sezioni unite della Corte di cassazione in sede di giudizio disciplinare, ma anche del giudice costituzionale: «va preservato il significato dei principi di indipendenza e imparzialità, nonché della loro apparenza, quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica»[14]. Rendere pubblica, nella discussione del processo democratico, la propria scelta politica, fa apparire non imparziale il magistrato?  

La questione non è quella dell’imparzialità, ma quella dell’indipendenza. Per un magistrato, che è anche un cittadino, il quale fa inevitabilmente le proprie scelte politiche, essere imparziale nell’esercizio delle funzioni vuol dire assumere il dovere di indipendenza da quelle scelte politiche. Essere imparziale fuori dall’esercizio delle funzioni vuol dire ancora essere indipendente, ma ovviamente non da se stesso, bensì da soggetti che, minando la sua indipendenza, offuscano la sua immagine di imparzialità. 

È il tema dell’iscrizione ai partiti politici, al centro della giurisprudenza appena richiamata, ma non solo. La norma sull’illecito disciplinare contempla non solo l’iscrizione ai partiti politici, e la partecipazione sistematica e continuativa ad essi, quale surrogato dell’iscrizione, ma anche «il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato» (art. 3, comma 1, lett. h, legge n. 109/2006), segno che ciò che mina l’indipendenza, come ha sottolineato la Corte costituzionale, è «l'insorgere di legami suscettibili di condizionare (anche per il futuro) l'esercizio delle funzioni»[15], a prescindere dalla natura di quei legami, politica, economica o finanziaria. È il vincolo a un soggetto che compromette l’indipendenza e, per conseguenza, l’apparenza di imparzialità.

È quanto affermano molto chiaramente la giurisprudenza costituzionale e quella comune: «il principio dell'indipendenza è volto a garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere»; «l'autonomia e l'indipendenza di cui gode la magistratura, lungi dal costituire privilegi dell'ordine giudiziario, sono funzionalmente necessarie per assicurare l'imparzialità del magistrato  nell'applicazione della legge, costituiscono cioè le "guarentigie" dell'imparzialità del giudice e della sua soggezione alla legge»[16]

Un magistrato che, quale cittadino, partecipi al processo democratico, difendendo e diffondendo la propria scelta politica in favore di uno dei principi che il moderno pluralismo propone, non fa mostra di parzialità se conserva la propria indipendenza dai soggetti collettivi che formano il mondo organizzato della politica. Quel che appare è ciò che il giudice è, cioè un cittadino che professa le proprie scelte politiche, ma quello che deve apparire (e deve naturalmente anche essere) è l’indipendenza da legami politici, economici o finanziari che possono «compromettere l'immagine del magistrato». Ciò che il magistrato deve evitare è che la sua partecipazione al dibattito democratico, per le particolari circostanze del caso, possa apparire come appartenenza a soggetti collettivi in grado di condizionarne l’autonomia e indipendenza, dove appartenenza non è solo iscrizione, come dimostra l’equiparazione a quest’ultima della «partecipazione sistematica e continuativa» a partiti politici nella norma sull’illecito disciplinare (art. 3 cit.). Una partecipazione a partiti, che non sia «sistematica e continuativa», non costituisce un illecito disciplinare, ma un magistrato che intenda non solo essere, ma anche apparire indipendente, e perciò imparziale, deve valutare se le circostanze del caso impongano di astenersi da quella partecipazione, se in grado di rinviare a un’appartenenza. Si tratta di un problema non disciplinare, ma di professionalità nell’esercizio della funzione. Per converso, nel limite sempre della preservazione dell’indipendenza, nessuno può dubitare che un magistrato, perseguendo le proprie scelte politiche, possa aggregarsi ad associazioni, esterne al circuito della politica organizzata, costituite per la difesa di determinati principi costituzionali. 

La sostanza dell’imparzialità è l’indipendenza. Apparire imparziali vuol dire apparire indipendenti. Minate l’indipendenza e avrete dei giudici parziali. Si può essere imparziali, se si è indipendenti. Non possiamo dubitare dell’imparzialità di un magistrato, che discuta nell’arena pubblica le proprie scelte politiche, se quel magistrato è ed appare indipendente da legami di appartenenza in grado di pregiudicarne l’indipendenza e se nell’esercizio delle funzioni dimostri, attraverso la motivazione dei propri provvedimenti, di essersi fatto carico dell’imperativo categorico dell’indipendenza da se stesso. Riassumendo tutto questo in una battuta: il dover essere è l’imparzialità, l’essere e l’apparire sono l’indipendenza.

Per finire: il magistrato può manifestare legittimamente le proprie idee politiche, «a condizione che ciò avvenga con l'equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica»[17]. Ciò che qui esigiamo dal magistrato è quello che dovremmo esigere da ogni partecipante al dialogo democratico. Esigerlo espressamente dal magistrato, quale suo dovere extra-funzionale, costituisce un punto di collegamento, fra il cittadino e il magistrato, ulteriore rispetto a quello di apparire imparziale, ossia indipendente. Nel suo essere attore di un dibattito democratico il magistrato mette «equilibrio e misura». Non stiamo parlando della competenza che deriva dalla qualificazione tecnica, ma della dote che ha sviluppato chi, per professione, fa continui esercizi di auto-trascendimento, e che dovrebbe saper mettere a disposizione quando, da cittadino, si confronta con altri cittadini su ciò che è bene per la comunità.

 


 
[1] G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 476.

[2] A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, SugarCo, Varese, 1992, p. 204.

[3] Ho approfondito questa nozione in rapporto a quella di “costituzionalismo giuridico”, su cui più avanti nel testo, in Essere un potere costituzionale. I giudici, l’associazionismo e il costituzionalismo, in Questione giustizia online, 23 maggio 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/potere-costituzionale-giudici). Alla base di queste nozioni vi sono i fondamentali studi sui modelli costituzionali di Maurizio Fioravanti.

[4] G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di Magistratura Democratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000.

[5] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 316 ss.  

[6] L. Ferrajoli, Teoria assiomatizzata del diritto. Parte generale, Giuffrè, Milano, 1970, p. 10. Uberto Scarpelli, in quello che resta uno dei più bei libri della filosofia italiana del diritto, scrive che alla base della catena dei giudizi di validità che caratterizza il positivismo giuridico vi è una scelta politica, «la scelta liberale della maggiore libertà possibile di scelta contro la scelta che esclude ogni altra scelta» – Id., Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, p. 151.

[7] R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 96.

[8] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 367 ss.

[9] Il costituzionalismo è soltanto il limite della scelta politica, la quale, inverando il moderno concetto di autogoverno, rappresenta il cuore della democrazia – E. Scoditti, I diritti non sono la fine della storia, in Questione giustizia online, 21 settembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-diritti-non-sono-la-fine-della-storia).

[10] U. Eco, Ci sono delle cose che non si possono dire. Di un Realismo Negativo, in Alfabeta2, n. 17, marzo 2012, pp. 23-25.

[11] La verità, secondo la concezione cd. del “realismo esterno”, è uno spazio di possibilità: «l’esistenza di un modo in cui le cose sono nel mondo indipendentemente dalle nostre rappresentazioni di esse non è una condizione di verità, ma piuttosto una condizione della forma di intelligibilità che tali asserzioni hanno» – J.R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. 210.

[12] Per un approfondimento sul piano dei presupposti teorici, rinvio a E. Scoditti, Il giudice ed il dovere di indipendenza da se stesso, in Foro it., 2020, V, c. 217.

[13] Cass., sez. unite, 14 maggio 2020, n. 8906.

[14] Corte cost., 20 luglio 2018, n. 170.

[15] Ivi.

[16] Rispettivamente: Corte cost., 20 luglio 2018, n. 170 e Cass., sez. unite, 14 maggio 2020, n. 8906 (il divieto di iscrizione ai partiti politici «si correla ad un dovere di imparzialità» – Corte cost., 17 luglio 2009, n. 224).

[17] Corte cost., 20 luglio 2018, n. 170. 

22/11/2023
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