Magistratura democratica
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La protezione complementare dopo il dl 113/2018: inquadramento sistematico, questioni di legittimità costituzionale *

di Fabrizio Gallo
presidente della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Crotone
Un tema difficile, uno sguardo diverso. L'analisi della riforma dall'angolo visuale della Pubblica amministrazione

Io non dico che la legge del 1865

non avrebbe potuto interpretarsi

così; dico solo che la legge del 1865 …

non è stata interpretata così

Mario Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983

 

***

 

1. Premessa

Dopo un quadriennio di approfondimenti dottrinali e giurisprudenziali sulla protezione umanitaria, (che farei convenzionalmente decorrere da Cass., VI, 15466/2014), ed in particolare sui requisiti di inclusione per il riconoscimento del diritto da essa sancito, l’entrata in vigore del dl 113/2018, poi convertito nella legge 132/2018, ha avuto, per gli studiosi della materia, lo stesso effetto di un brusco risveglio. Ciò che intendo dire è che, per coloro che seguivano la traiettoria del dibattito e le conclusioni sempre più avanzate della suprema Corte in materia, la nuova normativa rappresentava un radicale cambiamento della grammatica su cui articolare il discorso.

La caratteristica di atipicità che la norma sostanziale fondante dell’istituto recava nella sua formula [1] è, infatti, stata eliminata dall’art. 1, comma 1, lett. b), n. 2, del dl 113/2018, come convertito dalla legge 132/2018.

Dopo un periodo di discussione pubblica, soprattutto venata di riflessioni metagiuridiche e di approfondimenti sul diritto transitorio [2], si avverte il bisogno di levare lo sguardo oltre la fase attuale, per tentare di comprendere in quale mondo legislativo vive oggi, e di quali strumenti l’operatore pratico dispone nello svolgimento quotidiano del suo lavoro giuridico.

Una tale ricognizione è massimamente importante soprattutto per i cittadini stranieri a cui l’ordinamento offre diversi mezzi di tutela e, tuttavia, solo una compiuta e razionale ricognizione ne potrà consentire un pieno dispiegamento.

In un contesto del genere, dunque, le domande più rilevanti da porsi sono, a mio parere, le seguenti:

1) qual è, ad oggi in Italia, il campo della protezione dello straniero?

2) esiste una ratio unificante degli istituti che costituiscono quel campo?

3) l’assetto legislativo attuale è coerente con i parametri costituzionali ed internazionali che limitano la discrezionalità del legislatore oppure permangono delle lacune?

Lo scopo dello studio che segue, è quello di tentare di mettere in fila gli elementi disponibili per un primo abbozzo di risposta.

Chi scrive è ben consapevole del divario presente tra le proprie forze ed il compito che si è auto assegnato, cionondimeno esso appare oltremodo necessario e, pertanto, quandanche la sintesi della ricerca che di seguito si espone dovesse dare luogo solo ad osservazioni critiche (che però fossero maggiormente aderenti alla realtà dell’ordinamento, secondo l’insegnamento delle corti superiori,) lo sforzo sarebbe stato ben ripagato.

Si deve, altresì, aggiungere, che la scelta di organizzare l’esame in questione attorno all’endiadi “protezione complementare”, superando quella di “protezione umanitaria” a cui si era adusi prima della riforma, deriva dalla necessità, al netto di qualsiasi posizione valutativa, di prendere atto della profonda innovazione al riguardo operata dal sistema legislativo.

Si sottolinea, infine, che l’argomento esaminato concerne esclusivamente i requisisti che l’ordinamento prescrive al fine di ottenere la protezione dal rimpatrio, escludendo ogni approfondimento sul contenuto positivo di questa residuale forma di protezione, svolto unicamente con marginali rilievi confinati nelle conclusioni.

2. La protezione umanitaria prima del dl 113/2018

2.1. La ricognizione del problema in Cass., VI, 7 luglio 2014, n. 15466

Al fine di procedere ad una ricognizione dei requisiti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria, nel regime previgente, è doveroso ricorrere alla suprema Corte nella sentenza della n. 15466 del 7 luglio 2014. La precedente elaborazione giurisprudenziale in materia, fatta salva la capitale importanza della sentenza delle Sezioni unite n. 11535/2009 nella quale, invece, si rilevano indicazioni precise al fine di individuare la ratio sottostante l’istituto, era, infatti, caratterizzata dai tentativi della Cassazione di prendere le misure esatte dei contorni di tale istituto [3].

Nel 2014, invece, la Corte affronta, per la prima volta in termini chiari, il tema dei requisiti necessari ai fini del riconoscimento della misura tutoria, ed afferma, preliminarmente, che: «Si tratta del riconoscimento da parte delle Commissioni territoriali o del giudice del merito dell’esistenza di situazioni “vulnerabili” non rientranti nelle misure tipiche o perché aventi il carattere della temporaneità o perché vi sia un impedimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, o, infine, perché intrinsecamente diverse nel contenuto rispetto alla protezione internazionale ma caratterizzate da un’esigenza qualificabile come umanitaria (problemi sanitari, madri di minori ecc.)».

Dal breve inciso della sentenza, integralmente trascritto, si potevano trarre le seguenti conclusioni:

1) le fattispecie rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria erano diverse da quelle prese in considerazione dalle due forme di protezione internazionale, status di rifugiato e status di protezione sussidiaria;

2) si doveva trattare di situazioni di vulnerabilità;

3) l’ipotesi di vulnerabilità ricorreva anche in presenza di un impedimento al riconoscimento della protezione internazionale, si cita ad esempio una causa di esclusione;

4) doveva verificarsi un’esigenza qualificabile come umanitaria; a tale ultimo riguardo si esemplificavano i problemi sanitari e la condizione di madre e di minore.

2.2. La ricognizione del problema nella circolare della Commissione nazionale per il diritto d’asilo, 30 luglio 2015, n. 3716

Ad un anno di distanza dalla sentenza sopra menzionata, la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, (di seguito CN), attraverso la Circolare n. 3716 del 30 luglio 2015 [4], faceva un’ulteriore sintesi sull’istituto, individuando le fonti internazionali di riferimento ed i procedimenti previsti dall’ordinamento legislativo allora vigente, e delineando i presupposti rilevanti ai fini del riconoscimento.

Pur potendo essere oggetto di osservazioni, come qualunque cosa nell’ambito di questa materia incandescente, la circolare costituisce a tutt’oggi il punto di sintesi più avanzato in materia e, conseguentemente, un elemento di confronto necessario per chiunque voglia comparare la situazione attuale con quella esistente prima della riforma.

La circolare in esame individuava, in primo luogo, le principali fonti di diritto internazionale che venivano in evidenza nell’opera di enucleazione delle situazioni rilevanti e richiamava, pertanto, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo [5] (di seguito Cedu), il Patto internazionale sui diritti civili e politici [6] (d’ora in avanti ICCPR), nonché, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti [7] (d’ora in poi CAT).

Successivamente, passava in rassegna tutti i casi rilevanti per il riconoscimento della protezione umanitaria, con l’avvertenza che gli stessi non dovevano intendersi come esaustivi.

Il primo caso citato era quello dell’esposizione al rischio di tortura o di trattamenti inumani o degradanti in caso di rimpatrio del richiedente. Il fondamento giuridico era individuato nell’art. 3 della Cedu, nell’art. 7 dell’ICCPR e nell’art. 3 della CAT.

La circolare, inoltre, fondandosi sull’autorità della giurisprudenza della Corte Edu, rilevava come la proibizione in termini assoluti della tortura o di pene e trattamenti inumani e degradanti, fosse uno dei valori fondamentali delle società democratiche. In conseguenza di ciò, veniva sottolineato che, i comportamenti assunti dal richiedente ed il tipo di reato di cui lo stesso era ritenuto responsabile, dovevano ritenersi ininfluenti ai fini della valutazione di cui all’art. 3 della Cedu.

Il secondo caso era caratterizzato dalla presenza di gravi condizioni psico-fisiche o di gravi patologie di cui il richiedente era affetto, condizioni e patologie che non potevano essere adeguatamente trattate nel suo Paese di origine.

La terza fattispecie faceva riferimento alla temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del Paese o della zona di origine, non riconducibile alle previsioni dell’art. 14, lett. c), del d.lgs n. 251/2007.

La quarta ipotesi era collegata a gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità e sicurezza.

La quinta ipotesi, infine, metteva in evidenza la situazione familiare del richiedente protezione internazionale che doveva essere valutata ai sensi di quanto previsto dall’art. 8 della Cedu, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare. In tale ambito, si rilevava che i legami personali e familiari dovevano essere particolarmente significativi in termini di stabilità e durata.

Risulta chiaro come, nel breve volgere di un anno, i più elevati decisori giudiziali ed amministrativi, seppur nell’atipicità dell’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/1998, convergevano largamente nell’individuazione delle fattispecie rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. I diversi orchestranti del settore, pur con differenti e notevoli affinamenti, continueranno a suonare, ancora per tre anni ed oltre, sulla medesima partitura.

2.3 Sviluppi giurisprudenziali successivi

Una vivace fioritura della giurisprudenza della Corte di Cassazione si è avuta negli anni successivi, nel corso dei quali la Corte, pungolata da una crescente mole di ricorsi, ha progressivamente meglio precisato i limiti ed i requisiti necessari per il riconoscimento della protezione umanitaria, giungendo, gradatamente, a risolvere ambiguità presenti nelle precedenti prassi amministrative e giurisprudenziali.

2.3.1 Protezione per ragioni sanitarie

I requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria per ragioni di salute sono tra i più indagati dalla recente giurisprudenza della Corte di cassazione. Sul solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalla Corte Edu, negli ultimi anni gli arresti della suprema Corte hanno fissato principi di grande rilievo.

In una prima sentenza la Corte a Sezioni unite [8], nel valutare la legittimità del provvedimento di espulsione emesso nei confronti di un ricorrente affetto da gravi patologie, ha riaffermato che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero presente nel territorio nazionale impedisce l'espulsione nei confronti di colui il quale dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, stabilendo altresì che tale garanzia comprende non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita.

Nel suo recente sviluppo, la giurisprudenza della suprema Corte, si è andata consolidando nel ritenere, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria per motivi sanitari:

1) la necessità di violazione di diritti umani in patria;

2) il raggiungimento di una particolare soglia di gravità della malattia.

In ordine al primo aspetto, si è affermato che: «Il diritto alla protezione umanitaria non può essere riconosciuto per il semplice fatto che lo straniero versi in non buone condizioni di salute, necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza» [9].

Per ciò che concerne il secondo, si è, invece, rilevato che: «(…) questa Corte (ha) più volte ribadito che la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero, che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedisce l'espulsione nei confronti di colui che dall'immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d'urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita» [10]. Con la presente pronuncia si è, inoltre, affermato che: «Il divieto di espulsione temporanea dello straniero per motivi di salute, previsto nell'art. 35 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, è correlato ad una condizione di necessità d'intervento sanitario non limitato all'area del pronto soccorso o della medicina d'urgenza, ma esteso, perché la garanzia normativa sia conforme al dettato costituzionale, all'esigenza di apprestare gli interventi essenziali “quoad vitam”» [11].

Ai fini del presente lavoro, risulta, altresì, rilevante una recente decisione della Cassazione penale [12], relativa ad un decreto emesso dal magistrato di sorveglianza di Perugia che ordinava, ai sensi dell'art. 16, comma 5, d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, ed a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, l'espulsione del soggetto dal territorio nazionale. Nella decisione appena citata, la Cassazione ha rilevato che l’art. 19, comma 1 e comma 2, del Testo unico dell’immigrazione (d’ora in avanti TUI), deve essere letto in una prospettiva costituzionalmente orientata, alla luce dei principi affermati in materia dalla Corte costituzionale [13], oltre che dalla Corte Edu.

Solo successivamente la Corte ha distinto due diversi profili della questione, stabilendo nello specifico:

1) che la soglia che la patologia deve raggiungere per comportare l’impedimento all’espulsione è data dall’irreparabile pregiudizio per la salute dell'individuo, valutata sulla base della tutela costituzionalmente garantita dagli artt. 2 e 32 della Costituzione;

2) che, sulla base dei principi espressi dalla Corte costituzionale e dalla Corte Edu, la necessità di accertare la possibilità dell’incorrere nei confronti dell’interessato di una lesione del diritto alla salute costituzionalmente tutelato, deve essere effettuata caso per caso [14].

2.3.2 Temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del Paese o della zona di origine, non riconducibile alle previsioni dell’art. 14, lett. c), del d.lgs n. 251/2007

La Corte di cassazione si è anche espressa con chiarezza, negli ultimi anni [15], in ordine alla possibilità che situazioni di insicurezza del Paese d’origine, che non integrino i requisiti di cui all’art. 14, lett. c) del d.lgs n. 251/2007, possano integrare i requisiti necessari al riconoscimento della protezione umanitaria. In proposito, è parere di chi scrive che la rilevanza del conflitto e delle situazioni di insicurezza correlate sia assorbita integralmente nella suddetta norma del d.lgs 251/2007.

Tali norme costituiscono l’attuazione nel nostro Paese degli artt. 2 f) e 15 c), della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 (Direttiva Qualifiche Rifusione).

La Corte di giustizia dell’Unione europea (di seguito Cgue), con la Sentenza, Grande Sezione, del 17 febbraio 2009, emessa nella causa C-465/07, cd. “Elgafaji”, nel delineare l’esatta portata della norma in questione ha, come noto, stabilito che:

a) la predetta norma deve essere interpretata nel senso che la sussistenza di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile non necessiti della prova che il richiedente sia oggetto di specifica minaccia per motivi peculiari alla situazione personale;

b) la minaccia si considera, infatti, provata, eccezionalmente, quando il conflitto armato in corso nel Paese del richiedente è di tale gravità che la sola presenza del civile in quel Paese rappresenta di per sé un rischio effettivo di subire la minaccia;

c) occorre bilanciare specificità e generalità.; tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico in virtù di elementi peculiari connessi alla sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria (cd. sliding scale).

In questo caso, pare evidente a chi scrive, che qualunque situazione di insicurezza generata da situazioni conflittuali può essere rilevante. Tale rilievo può essere generalizzato, cioè a prescindere da un’esposizione individuale, nei casi di particolare gravità indicati alla lettera b), oppure individualizzato ed allora, in questi casi, maggiore è l’esposizione individuale e minore dovrà essere il livello di conflittualità, al fine di integrare i requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Alla luce delle valutazioni di pocanzi, non pare possa residuare uno spazio di protezione complementare.

Sulla questione suddetta, la recente giurisprudenza di Cassazione ha avuto modo di esprimersi.

In una prima decisione [16], la suprema Corte ha affermato che: «Il riconoscimento della protezione umanitaria è consentito solo in presenza dei presupposti previsti dalla legge, fra i quali non rientra la situazione di instabilità di un paese o la generica limitazione delle libertà civili, mentre anche la previsione generale di cui all'art. 19, comma 1, D.Lgs. cit. richiede la riscontrata sussistenza del pericolo di persecuzione, ai danni del richiedente, “per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”, nei limiti in cui tale persecuzione non giustifichi addirittura il riconoscimento dei più favorevoli status di rifugiato o di protezione sussidiaria».

Con una più recente decisione [17], la Corte ha rimarcato la necessaria rilevanza del profilo individuale ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria ed ha quindi stabilito che: «…il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz'altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente: tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell'istante, perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d'origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui all'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998».

2.3.3 Protezione per integrazione sociale

Come è noto, la protezione umanitaria per integrazione sociale, sebbene non prevista espressamente dalla norma vigente, costituisce un’innovazione pretoria derivante dall’interpretazione dell’art. 5, comma 6, d.lgs 286/1998. In alcune delle sentenze più significative in materia, il riconoscimento di tale forma di protezione umanitaria è ancorato all’accertamento di un percorso integrato di inclusione socio-lavorativa che dovrebbe articolarsi su una serie di parametri quali l’esistenza di uno stabile e regolare rapporto di lavoro, la conoscenza della lingua italiana, la presenza di legami affettivi ed amicali in Italia) ed altre esperienze di integrazione (per citarne alcune: l’adesione ad associazioni di volontariato e partecipazione alle relative attività) [18].

Da ultimo, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4455/2018, ha stabilito che: «Il riconoscimento della protezione umanitaria, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d'integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l'esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine». Ne consegue la necessità di effettuare una valutazione comparativa tra la situazione del richiedente nel Paese di origine e quella relativa alla permanenza in Italia, ciò al fine di acclarare se il rimpatrio del richiedente esporrebbe il predetto alla «privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza». In tali casi, secondo la suprema Corte, sarebbero integrati i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

3. Un’ipotesi ricostruttiva

Al fine di procedere con la formulazione di un’ipotesi ricostruttiva, è doveroso chiedersi se una ratio unificante di tutte le ipotesi che hanno concorso a popolare il campo della protezione umanitaria negli ultimi anni esiste, e, più precisamente, se è possibile definire con esattezza i cardini della forma di protezione in discorso.

La risposta di chi scrive è che una tale ratio esiste, e se non esistesse sarebbe auspicabile che lo fosse, in particolare nella presente fase storica in cui, abrogata la clausola atipica dell’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/1998, per poter leggere con maggiore coerenza l’ordinamento è necessario dotarsi di più affinati strumenti.

L’ipotesi che si vuole formulare è la seguente: tutte le forme di protezione che l’ordinamento riconosce al cittadino straniero sono tenute insieme da un contenuto indivisibile e valido per tutte le tipologie. Tale contenuto è dato dall’esigenza di impedire il rimpatrio del cittadino straniero nel caso in cui il rientro nel Paese d’origine dovesse comportare la grave violazione di un diritto umano fondamentale, o parimenti il patimento di misure ad esso paragonabili, in assenza di un’effettiva protezione delle autorità di detto Paese.

In altre parole si potrebbe affermare che tutte le forme di protezione del cittadino straniero si fondano su tre pilastri:

1) l’impedimento all’espulsione;

2) la possibile grave violazione di diritti umani fondamentali in caso di rimpatrio;

3) l’assenza di protezione da parte delle autorità del Paese d’origine.

Viene a formarsi, in questo modo, un insieme costituito da tutte le situazioni che danno luogo alle misure di protezione che integrano le condizioni suddette. In questo insieme, se ne colloca uno interno, in cui, oltre alle condizioni sopra dette, se ne aggiunge una ulteriore, ovvero quella della necessità di un agente persecutore. Risulta evidente che, il sub-insieme in questione racchiude al suo interno tutte le fattispecie rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Ma in esso, attraverso l’individuazione di un’ulteriore condizione, si può definire un successivo sottoinsieme, concentrico ai precedenti, che corrisponde ai soli casi dello status di rifugiato. La condizione in questione è che il grave danno temuto, che allora si qualifica come persecuzione, sia collegato da nesso causale ad uno dei cinque motivi di cui all’art. 1 A della Convezione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato.

Se volessimo quindi sintetizzare graficamente, avremmo un insieme con all’interno, uno dentro l’altro, due sottoinsiemi.

Nel nucleo più interno riposano i casi rilevanti ai fini dello status di rifugiato, più all’esterno, quelli utili ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ancora all’esterno, entro i confini dell’insieme più ampio, i casi di protezione complementare.

A sostegno dell’ipotesi sopra formulata vorrei portare, anzitutto la posizione espressa dalla dottrina anglosassone [19] più influente in materia di protezione internazionale, con riguardo al rapporto tra protezione dei diritti umani ed il riconoscimento dello status di rifugiato. Nel trattare l’argomento della limitazione del riconoscimento dello status predetto alle sole persone che si trovano fuori dal loro Paese d’origine, l’autore citato evidenzia con precisione che la denominazione di rifugiato non ha semplicemente la funzione di identificare un gruppo di persone che necessitano e meritano assistenza internazionale, ma è «piuttosto di identificare un sottoinsieme di tali persone con specifiche esigenze che possono essere soddisfatte solo con l’attribuzione di diritti specifici». Ne consegue l’affermazione che la Convenzione di Ginevra del 1951(a seguire CG) distingue i rifugiati dagli altri migranti forzati solo in relazione alla differenziazione delle loro esigenze [20].

Nella posizione dell’autore, molto rilevanti appaiono due elementi centrali: il richiamo alla possibile lesione dei diritti umani quale base comune alle persone a cui l’ordinamento internazionale riconnette differenti protezioni e la presenza di sub-gruppi all’interno di un insieme comune di soggetti a cui il medesimo ordinamento riconduce la titolarità di diverse situazioni giuridiche.

Parimenti autorevole dottrina [21], nel nostro panorama giuridico, rileva come: «Per motivi “umanitari”, infatti, dovrebbero intendersi quelli attinenti alla violazione dei diritti umani».

Non sfugge, in quella impostazione, il carattere atipico che la clausola di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs 286/1998 aveva prima dell’abrogazione, ma si ritiene che, in ogni caso «la casistica ad essa riconducibile non può prescindere dal presupposto – ricavabile sia dalla denominazione di tale tipo di protezione (“umanitaria”) sia dal disposto dell’art. 10, comma terzo, Cost. – della “grave” (art. 32, comma 3, d.lgs. 251/2007) violazione dei diritti umani, cui il richiedente sarebbe esposto in caso di rimpatrio».

Anche qui, la forte affermazione della necessaria potenziale compromissione di un diritto umano, essenziale alla configurazione della protezione umanitaria, mi appare funzionale alla verifica di uno dei presupposti fondamentali dell’ipotesi ricostruttiva in discorso.

Infine, ad ulteriore comprova dell’ipotesi in discorso, propongo le formule con cui la giurisprudenza di Cassazione ha, negli ultimi anni, presentato la protezione umanitaria in rapporto alle altre forme di protezione del cittadino straniero.

In questo senso, appare ancora di capitale importanza lo studio e la comprensione piena della sentenza a Sezioni unite, n. 11535 del 2009, con cui la Corte di cassazione ha attribuito al giudice ordinario la competenza a decidere in materia di protezione umanitaria.

Nell’articolata motivazione, la suprema Corte rilevava, tra l’altro, che la sostanza valutativa della protezione umanitaria doveva ricondursi allo scrutinio «della sussistenza del quadro di controindicazioni al rimpatrio formulate dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia». Quindi, le controindicazioni, o gli impedimenti, al rimpatrio costituiscono un elemento distintivo della protezione umanitaria.

La stessa Corte, nella coeva sentenza Sez. unite, 19393/2009, evidenziava «l'identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali».

La più recente, e ben nota, sentenza resa dalla Prima sezione civile della suprema Corte, n. 4890 del 2019, si è occupata del regime intertemporale conseguente alla successione nel tempo delle leggi in materia di protezione complementare, determinata dall’emanazione del dl 113/2018, convertito nella legge 132/2018.

In un passaggio della suddetta decisione, la Corte stabilisce che: «Il permesso di soggiorno sostenuto da ragioni di carattere umanitario costituisce parte integrante del sistema di protezione internazionale» [22]. Si fa quindi strada l’idea che le tre forme di protezione del cittadino straniero vivano sostanzialmente in uno stesso ambito giuridico, con caratteri comuni e con criteri di differenziazione che, nell’ipotesi che si propone, consente di raffigurare il sistema con tre sottoinsiemi concentrici, accomunati da tre caratteri comuni − l’impedimento all’espulsione, il rischio di grave violazione di diritti umani in caso di rimpatrio e l’assenza di protezione del Paese d’origine – e che si differenziano, in via gradata, per la presenza necessaria di un agente persecutore (propria dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria) e per la connessione causale ad uno dei cinque motivi enumerati all’art. 1 A della Convenzione di Ginevra del 1951 (caratteristica peculiare dello status di rifugiato).

Questo inquadramento complessivo delle forme di protezione del cittadino straniero, ci consente di fare un ulteriore passo esplicativo, questa volta connesso alla necessarietà della mancanza di protezione da parte del Paese di nazionalità del richiedente (o di precedente stabile residenza, in caso di apolidia).

Faccio riferimento, anche su questa capitale questione, all’autorevolezza della già citata dottrina anglosassone [23] per la quale «il proposito del diritto internazionale dei rifugiati non è quello di rimpiazzare la regola primaria per la quale gli individui devono guardare al proprio Stato di nazionalità per la protezione ma semplicemente di fornire una rete di sicurezza nel caso in cui lo Stato fallisca nell’adempimento delle sue fondamentali responsabilità di protezione». Ed è lo Stato di nazionalità a dover dare protezione perché esso nasce proprio in considerazione della necessità della persona di trovare una forza idonea a proteggere la propria vita, la propria incolumità ed i propri beni. Una tale idea è esplicitata nella giurisprudenza del Consiglio di Stato francese il quale afferma [24] che l’esistenza e l’autorità dello Stato sono concepiti e giustificati in quanto esse sono i mezzi attraverso i quali i membri della comunità nazionale sono protetti dalle aggressioni, siano esse provenienti da concittadini sia da forze esterne allo Stato.

Da ultimo, a mio giudizio, l’ipotesi sopra formula riceve un – non voluto − supporto anche dalla posizione di autorevole dottrina [25] che mira, per altro verso, ad una ricostruzione interpretativa innovativa dell’asilo costituzionale.

In quell’impostazione, ci si chiede quale possa essere il senso giuridico di far refluire l’art. 10, comma 3, Cost., nello status di rifugiato, nella protezione sussidiaria e/o nella protezione umanitaria aggiungendo che, quasi per assurdo, questa operazione potrebbe riguardare anche tutti gli altri consimili istituti che il legislatore statale o sovranazionale dispongono in tale direzione.

In effetti, proprio lo sforzo compiuto da detto autore nell’individuare fattispecie che abbiano un minimo comune denominatore, sia pure allo scopo di confutare il senso dell’operazione, è la base per ricostruire il campo della protezione complementare che, però, deve essere assistita dalla valutazione dei tre parametri sopra indicati.

3.1 Un corollario

Non sfugge, conclusivamente sul punto, che, in alcune ipotesi che popolano complessivamente il campo della protezione complementare, fermo il carattere dell’impedimento all’espulsione, non si ravvisano le ulteriori condizioni che abbiamo sopra riportato. Per inquadrare, con una certa sistematicità, anche questo aspetto della vicenda, può essere utile verificare l’esperienza normativa maturata, in materia, da altri Paesi europei.

Una forma di protezione complementare, ulteriore rispetto alla protezione internazionale, esiste diffusamente in Europa [26]. I requisiti previsti dalle leggi nazionali per il riconoscimento della protezione complementare attengono a motivi basati su obblighi internazionali e a motivi di carattere discrezionale.

La prima categoria è quella che potremmo ritenere inclusa nella definizione di protezione complementare che abbiamo cercato di impostare.

I requisiti per il riconoscimento della protezione complementare legati a motivi discrezionali sono di diversa natura e tipologia e possono essere ricondotti a motivi pratici, all’integrazione sociale, all’interesse pubblico, segnatamente a quello di giustizia, e ad altre cause [27].

Esistono, dunque due forme di protezione complementare: la prima, che potremmo individuare come il nucleo duro ed indefettibile, è determinata dalle tre caratteristiche sopra indicate; la seconda è sempre contrassegnata dal carattere dell’impedimento all’espulsione ma si connota per la finalizzazione a diversi interessi e pertanto caratterizzata anche da un grado variabile di discrezionalità in capo ai decisori.

4. La protezione complementare dopo il dl 113/2018

Una volta precisata la definizione della protezione complementare, possiamo passare ad una fase successiva, e cioè, a verificare quale sia lo stato attuale della protezione complementare in Italia, a seguito dell’entrata in vigore del dl 113/2018, così come convertito dalla legge 132/2018.

In proposito, si può partire dalla lettura dello stesso atto normativo sulla base delle indicazioni contenute nella relazione di accompagnamento [28]. È notorio che l’intervento normativo ha avuto il primario obiettivo di eliminare il carattere di atipicità della protezione umanitaria, così come era concepita nell’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/1998. Ciò che più ci interessa, a questo stadio dell’esame, è però verificare in che modo il legislatore d’urgenza ha inteso ricostruire il sistema.

4.1 La protezione speciale

In primo luogo, si legge nella citata Relazione, si è inteso salvaguardare, anzitutto, il potere-dovere delle Commissioni territoriali di valutare l'eventuale sussistenza dei presupposti del principio di non refoulement, nel rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali, quali, l’art. 3 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, dell’art. 3 della Convezione delle Nazioni Unite contro la tortura e l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A tale scopo, l’art. 32, comma 3 del d.lgs 25/2008, come innovato dall’art. 1, comma 2, lett. a) del citato decreto legge, introduce una nuova forma di protezione complementare, la protezione speciale, che viene ricondotta alla sussistenza dei requisiti di cui all’art. 19, commi 1 ed 1.1 del d.lgs 286/1998.

Come è noto, il comma 1 dell’articolo sopra menzionato, prevede che «in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione...»; il comma 1.1, fa invece riferimento all’ipotesi di fondati motivi per ritenere che una persona, in caso di rimpatrio nel proprio Paese di origine, rischi di essere sottoposta a tortura.

Appare pertanto chiaro, che si tratta di casi, astrattamente riconducibili, rispettivamente all’ipotesi dello status di rifugiato ed all’ipotesi della protezione sussidiaria in cui, all’evidenza, deve palesarsi una condizione ostativa al riconoscimento che, tuttavia, non può condurre al provvedimento di espulsione, proprio per l’operatività del principio di non refoulement sancito dalle norme sopraindicate.

Il campo della protezione complementare si compone, perciò, di un primo considerevole elemento, la protezione speciale.

4.2 I permessi di soggiorno per casi speciali

Il secondo elemento di rilevo, continuando a citare la Relazione sopraindicata, si compone di «ipotesi eccezionali di tutela dello straniero che, pur non rientrando, ai sensi della vigente normativa, nelle ipotesi di protezione internazionale (…), non consentirebbero di eseguire il provvedimento di espulsione senza determinare una violazione dei principi fondamentali dell'ordinamento italiano e internazionale».

Tali esigenze sono individuate nelle condizioni di salute di particolare gravità e nelle situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine, che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza.

Nella prima ipotesi, sancita dall’art. 19, comma 2, lett. d-bis del d.lgs 286/1998, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, le condizioni di salute di particolare gravità devono essere accertate mediante documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale (SSN), ed il rientro nel Paese d’origine deve comportare alla salute della persona interessata un rilevante pregiudizio.

La seconda, disciplinata all’art. 20-bis del medesimo decreto, fa riferimento ad una situazione di contingente ed eccezionale calamità nel Paese d’origine del richiedente, tale da non consentire che il rientro e la permanenza del medesimo avvengano in condizioni di sicurezza.

A tali casi, si aggiunge una ipotesi con finalità premiale per il cittadino straniero che abbia compiuto atti di particolare valore civile (art. 42-bis, d.lgs 286/1998); in tal caso, il permesso di soggiorno è rilasciato dal questore, a seguito di autorizzazione del Ministro dell’interno e su proposta del prefetto.

I tre casi suddetti sono accomunati dalla tipologia di permesso di soggiorno da rilasciare, definito per «casi speciali».

Le prime due ipotesi, come si può vedere da un raffronto con i paragrafi precedenti, sono sovrapponibili alla prassi amministrativa e giurisprudenziale che era maturata in vigenza della precedente formula normativa della protezione umanitaria; la terza fa, invece, riferimento ad una logica premiale che induce a ritenere l’ipotesi eccentrica rispetto al campo della protezione complementare, in particolare al suo nucleo duro ed indefettibile, così come lo abbiamo cercato di definire.

L’intervento di riforma inquadra tra i “casi speciali” anche i preesistenti permessi di soggiorno rilasciati alle vittime di tratta, di violenza domestica e di grave sfruttamento lavorativo.

Il primo caso, come noto, fa riferimento a situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero, quando emerga un pericolo connesso al tentativo di sottrarsi al condizionamento di associazioni dedite ai delitti di cui alla legge 75/1958 o di quelli previsti dall’art. 380 cpp. In tali casi, il questore rilascia il permesso di soggiorno, oggi per “casi speciali”, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, ovvero su segnalazione dei servizi sociali degli enti locali, ovvero delle associazioni, enti od altri organismi di cui all’art. 27, dPR 394/1999.

Il secondo, la cui base normativa si trova nell’art. 12-quater del d.lgs 286/1998, attiene ad ipotesi di grave sfruttamento lavorativo; il permesso di soggiorno è rilasciato dal questore, su proposta o parere favorevole del procuratore della Repubblica. La persona interessata deve aver presentato denuncia e deve cooperare nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro/dello sfruttatore.

La terza ipotesi, relativa al rilascio di permesso di soggiorno in favore di vittime di violenza domestica, è disciplinata all’art. 18-bis del d.lgs 286/1998. In questi casi, deve essere stato attivato un procedimento penale per specifici reati, comunque commessi nel territorio nazionale e concernenti ipotesi di violenza domestica, devono emergere nello specifico situazioni di violenza o abuso nei confronti dello straniero, oltre ad un concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità. Il permesso di soggiorno è rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica.

Nelle fattispecie in questione, che costituiscono in qualche modo uno specifico comparto all’interno dei “casi speciali”, il diritto umano fondamentale è desumibile dalla fonte di diritto internazionale od europeo da cui esse discendono, cito in particolare: la Direttiva 2011/36/Ue sulla prevenzione e la repressione della tratta; la Direttiva 2009/52/Ce sulle sanzioni per i datori di lavoro che impiegano stranieri irregolari; la Convenzione sulla lotta contro la tratta di esseri umani siglata a Varsavia il 16 maggio 2005; la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica sottoscritta ad Istanbul l’11 maggio 2011.

L’impedimento all’espatrio, che pure è insito nella previsione del rilascio di un permesso di soggiorno, non pare, tuttavia, riconnesso all’impossibilità della protezione nel Paese d’origine, ma piuttosto ad interessi di giustizia propri dell’ordinamento nazionale. In proposito, particolare rilievo assume l’esame dei procedimenti delineati per il rilascio del titolo di soggiorno, nel corso dei quali, è sempre previsto, (sia pure con particolarità specifiche determinate dall’ipotesi disciplinata dall’art. 18, d.lgs 286/1998) [29], l’intervento vincolante del procuratore della Repubblica [30].

4.3 La protezione dei minori stranieri

L’impedimento all’espulsione del minore straniero è, anzitutto, previsto da una norma cardine in materia, l’art. 19 del d.lgs 286/1998. Il comma 2, lettera a), stabilisce, infatti, che non è consentita l’espulsione nei confronti dei minori di anni 18, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi.

In termini positivi, l’art. 10 della legge 47/2017, prevede che al minore straniero non accompagnato sia rilasciato un permesso di soggiorno fino al compimento della maggiore età.

Il principio del «superiore interesse del minore» si invera nella legislazione vigente anche attraverso percorsi di inclusione e prevede, al raggiungimento della maggiore età, la possibilità di prosecuzione di tali percorsi fino al compimento del ventunesimo anno di età (art. 13, legge 47/2017).

Infine, sempre nella logica degli strumenti attuativi dei diritti umani posti in capo al minore, si colloca, a mio avviso, quanto disposto dall’art. 31, comma 3, d.lgs 286/1998.

Detta norma prevede, infatti, che il Tribunale per i minorenni possa, in virtù del rispetto del superiore interesse del minore, autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare dello stesso, per un periodo di tempo determinato ed in deroga alle disposizioni del TUI. Il provvedimento può essere irrogato per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del medesimo, già presente sul territorio italiano.

Anche questo strumento determina l’impedimento all’espulsione, ed è preordinato alla tutela di diritti umani del minore, diritti che verrebbero, nel caso di mancata presenza del familiare sul territorio italiano, pretermessi.

4.4 La tutela del diritto alla vita privata e familiare

Come è noto, l’art. 8 della Cedu individua e disciplina il diritto alla vita privata e familiare.

Il meccanismo stabilito della norma citata, prevede, in linea generale, il divieto di ingerenze da parte dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, fatte salve quelle previste dalla legge e necessarie alla tutela di ulteriori interessi pubblici, espressamente indicati nella norma.

La prassi giurisprudenziale adottata dalla Corte di Strasburgo, ha dato luogo ad una copiosa giurisprudenza, grazie alla quale disponiamo di plurimi e concreti parametri applicativi che consentono un corretto esercizio del bilanciamento che l’interprete deve operare con riguardo alla fattispecie in questione [31].

Nel nostro ordinamento, con riguardo agli impedimenti all’espulsione, appaiono essere diretta conseguenza di tale assetto normativo internazionale, l’art. 5, comma 5 e l’art. 13, comma 2-bis del d.lgs 286/1998.

La prima norma, (art. 5, comma 5), prevede che: «Nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale».

La seconda, (art. 13, comma 2-bis), stabilisce che, nell’adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o del familiare del familiare ricongiunto, si tenga anche conto dei seguenti elementi:

1) della natura ed effettività dei vincoli familiari dell’interessato;

2) della durata del soggiorno nel territorio nazionale;

3) dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Le norme in questione che, per il loro tenore testuale, fanno riferimento esclusivamente a stranieri che soggiornano in Italia in relazione ad uno specifico titolo abilitativo connesso a ragioni familiari, sono state oggetto di profondi e significativi interventi interpretativi da parte della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.

La Consulta, chiamata a verificare la legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, d.lgs 286/1998 [32], ha preliminarmente affermato due principi che, lo vedremo in seguito, costituiscono i cardini entro i quali effettuare ogni valutazione della conformità a Costituzione della legislazione ordinaria in materia di immigrazione.

La Corte ha, in primo luogo, ribadito che al legislatore è riconosciuta un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, ciò in considerazione della pluralità degli interessi che tale regolazione riguarda. In secondo luogo, la stessa, ha evidenziato che «tale discrezionalità legislativa non è assoluta, dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disciplina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei confronti del cittadino e del non cittadino».

In ragione di ciò, alla luce dell’articolo 8 della Cedu e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale ha evidenziato che la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati.

La Corte, per le ragioni sopra esposte, è pervenuta alla dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, d.lgs 286/1998 nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita non si applichi anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato». In altri termini, tale valutazione deve essere effettuata anche nei confronti dello straniero che non abbia un valido titolo di soggiorno.

La Corte di cassazione, nel porsi sulla linea interpretativa della Consulta, ne ha approfondito ed ampliato l’ambito interpretativo.

In una recente sentenza, la suprema Corte [33], ha ben riassunto i principi normativi che essa ritiene applicabili, sulla base di una sequenza giurisprudenziale coerente che viene fatta decorrere da Cass., I, 15362/2015.

Tali principi, per ciò che è d’interesse di questo scritto, possono essere così elencati:

1) l'art. 13, comma 2-bis, d.lgs 286/1998 ha introdotto un temperamento nell'applicazione automatica delle cause espulsive previste dall'art. 13, comma 2, lett. a) e b), imponendo di tenere conto, anche nell'ipotesi dell'ingresso irregolare, tra gli altri fattori rilevanti, della natura e dell'effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese di origine;

2) la suddetta norma è considerata applicazione del sedimentato orientamento giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale, non può aversi interferenza di un'autorità pubblica nell'esercizio del diritto alla vita privata e familiare, a meno che questa ingerenza non sia prevista dalla legge e costituisca una misura necessaria per la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, la prevenzione dei reati e la protezione della salute e della morale;

3) la decisione relativa al rimpatrio di un cittadino di un Paese terzo deve fondarsi anche su di un'attenta valutazione della situazione personale, ciò al fine di tenere nella debita considerazione la sua vita familiare, le sue condizioni di salute e il rispetto del principio di non refoulement;

4) in sede di adozione della misura espulsiva e della sua esecuzione, l'organo pubblico cui è demandata la decisione amministrativa e/o giurisdizionale deve operare − alla stregua del principio di proporzionalità tra il sacrificio del diritto individuale e la salvaguardia dell'ordine pubblico statuale − un corretto bilanciamento, tra il diritto dello Stato membro alla conservazione di un regime di sicurezza e di controllo del fenomeno migratorio, ed il nucleo dei diritti della persona connessi all'applicazione del principio di non refoulement, ai divieti di cui all'art. 3 ed all’art. 8 della Cedu;

5) la sentenza della Corte costituzionale n. 202/2013, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 5, comma 5, d.lgs 286/1998, ha chiarito che, anche nei confronti dello straniero che non fruiva di permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, deve tenersi conto della durata del soggiorno e del quadro dei legami non solo familiari, ma anche sociali; prospettando espressamente l'adozione dell'interpretazione della giurisprudenza della Corte Edu relativa all'art. 8 come parametro interposto di costituzionalità della norma impugnata.

Quanto sopra riportato, determina, a giudizio della Cassazione, due importanti conseguenze:

a) il giudizio di bilanciamento di cui all'art. 13, comma 2-bis, d.lgs 286/1998, deve operarsi anche nei confronti del cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché questi non si trovi nelle condizioni di richiedere formalmente il ricongiungimento familiare, secondo un ampliamento del diritto all'unità familiare formatosi in sede di giurisprudenza della Corte Edu sull'art. 8;

b) a tali fini, occorre equiparare integralmente vita privata e vita familiare, in conformità al paradigma interpretativo dell'art. 8 della Cedu, che non prevede gradazioni o gerarchie tra le due estrinsecazioni del diritto fondamentale contenuto nella norma [34].

Nella stessa logica di protezione dei diritti umani legati alla vita privata e familiare vanno ricondotte le ipotesi di divieto di espulsione di cui all’artt. 19, comma 2, lett. c) e lett. d) relative, rispettivamente, agli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado, o con il coniuge di nazionalità italiana ed alle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.

5. Le ricadute del quadro normativo vigente sulle questioni di costituzionali

5.1 I principi costituzionali

Anche questo paragrafo si apre con una domanda; ciò che chiedo è in che modo può definirsi il quadro costituzionale nel quale valutare l’attuale assetto legislativo della protezione complementare nel nostro Paese.

Evidenzio immediatamente che le coordinate essenziali di questa parte finale dello studio derivano in gran parte dalle risultanze di un seminario dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, svoltosi a Cagliari il 16 e 17 ottobre 2009, avente a tema Lo statuto costituzionale del non cittadino [35]; traggo, inoltre, una sintesi degli argomenti che occuperanno la Corte costituzionale sul tema in questione dai ricorsi fino ad ora presentati da alcune regioni.

Da ultimo, preciso di avere esaminato la questione esclusivamente sotto il profilo dei requisiti per ottenere la misura di protezione in questione, senza avere avuto riguardo al contenuto della protezione, argomento diverso, sul quale proverò a fare una notazione marginale nelle conclusioni.

Nella sua relazione introduttiva al convegno, il Presidente emerito della Corte costituzionale Onida [36] pone le domande essenziali per inquadrare l’argomento, che qui integralmente riporto: «Davvero le autorità dello Stato – di ogni Stato – sono pienamente libere (intendo, libere dal punto di vista dei principi costituzionali e del rispetto delle norme internazionali) di stabilire quanti e quali esseri umani, e provenienti da dove, e per fare che cosa, sono ammessi ad entrare nel territorio di propria pertinenza? Davvero sono libere di stabilire fino a quando questi esseri umani possono restare in quel territorio, indipendentemente dalle concrete situazioni personali, dalla durata del soggiorno pregresso, dall’esistenza e dal rilievo di legami familiari o sociali stabiliti nel territorio o invece perduranti con la terra di origine?».

A queste domande ha riposto, a più riprese, la Corte costituzionale evidenziando, in primo luogo, che la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione, e che il legislatore, cui tale ponderazione spetta in via primaria, possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli. La Consulta ha chiarito che il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione si applica anche allo straniero quando si tratti di rispettare i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione.

Scendendo nel concreto, poi, l’Autore evidenzia come, in realtà, l’espansione della tutela dei diritti umani non tragga immediata forza e propulsione dal nostro testo costituzionale, ma piuttosto attraverso il richiamo di fonti di diritto internazionale posteriori [37]. Si evidenzia, infatti, che la Costituzione, in materia non è caratterizzata «dalla stessa lungimiranza che lo connota per altri profili. Come si è ricordato, la Costituzione non si occupa del fenomeno della immigrazione, e sul trattamento giuridico dello straniero ha una posizione tradizionale, limitandosi a rinviare al diritto internazionale (art. 10, secondo comma), oltre che ad affermare il diritto di asilo. La vera apertura, indiretta, del testo costituzionale in questa materia sta nelle sue clausole internazionalistiche quella dell’art. 10, primo comma, quelle dell’art. 11, e, oggi, dell’art. 117, primo comma, attraverso cui il diritto comunitario e, rispettivamente, il diritto internazionale pattizio hanno acquistato un rango e un ruolo prevalenti quanto meno sulla legislazione ordinaria».

In conclusione, pertanto, in quell’impostazione poteva dirsi che i progressi registrati sul terreno del trattamento giuridico dello straniero, sono passati in questi anni, più che attraverso il ruolo garantista della Costituzione, attraverso «gli effetti dirompenti del nuovo diritto internazionale dei diritti umani».

In virtù di quanto detto in termini di principi generali, occorre ora verificare quali elementi concreti, rispetto ai requisiti per il riconoscimento della protezione complementare, possiamo dedurre dalla giurisprudenza costituzionale [38]. Si tratta, in altre parole, di verificare per quali casi, (e, pertanto, per quali diritti), la Corte costituzionale ha ritenuto che vi sia un impedimento all’espulsione di valenza super-primaria.

A giudizio di chi scrive, sono tre i precedenti effettivamente rilevanti al riguardo.

La prima pronuncia [39] capitale in materia, risalente al 2001, afferma la valenza costituzionale della tutela della salute del cittadino straniero.

Nel caso in esame, la Corte costituzionale si trovava ad esaminare un’eccezione di costituzionalità, proposta dal Tribunale di Genova, relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, del d.lgs 25 luglio 1998, n. 286 TUI, in relazione agli artt. 2 e 32 della Cost., nella parte in cui non prevedeva il divieto di espulsione dello straniero che, entrato clandestinamente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di terminare un trattamento terapeutico essenziale.

Nell’esaminare la questione, la Corte ha, dapprima, rilevato come sia principio costantemente affermato dalla giurisprudenza della medesima, che il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute sia «costituzionalmente condizionato» dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto» [40]. Questo «nucleo irriducibile» di tutela della salute, quale diritto fondamentale della persona deve, perciò, essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso.

Successivamente, ha rilevato che il legislatore del TUI ha dettato, per quel che concerne la tutela del diritto alla salute, alcune specifiche disposizioni, attraverso le quali, l’esercizio dello stesso è modulato con riguardo alla differente posizione giuridica del soggetto, facendo espresso riferimento all'art. 34 ed all'art. 35, comma 3, quest’ultimo, regolante la particolare fattispecie degli stranieri in condizione di irregolarità.

Dall’esame del suddetto quadro normativo, la Corte costituzionale traeva il convincimento che il diritto inviolabile alla salute dello straniero irregolarmente presente nel territorio nazionale, fondato sugli artt. 2 e 32 Cost., fosse già pienamente garantito, senza necessità della previsione di una specifica causa di inespellibilità da inserire nel testo dell’art. 19 del d.lgs 25 luglio 1998, n. 286. Pertanto, secondo il ragionamento della Corte «lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, secondo i criteri indicati dall'art. 35, comma 3 citato, trattandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito» [41].

La pronuncia in questione, dunque, nell’individuare una costituzionalmente necessaria integrazione all’art. 19, d.lgs 286/1998, delineava una fattispecie di protezione complementare che, sulla base di numerosi sviluppi giurisprudenziali e normativi, come abbiamo visto [42], si ripropone fin nell’ordinamento vigente.

La seconda sentenza rilevante, risale al 2011 [43], ed afferma il diritto fondamentale di contrarre matrimonio.

Nel caso di specie, la Corte costituzionale, era chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, primo comma, del codice civile, come modificato dall’art. 1, comma 15, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «nonché un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». La norma in questione, in sostanza, faceva carico allo straniero che intendesse contrarre matrimonio in Italia di produrre tale atto.

La sentenza, in primis, affermava [44] l’esistenza del diritto fondamentale «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

Successivamente, pur riconoscendo la ratio della disposizione censurata nella finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo”, al fine di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», riteneva non proporzionato a tale obiettivo il sacrificio imposto alla libertà di contrarre matrimonio, non solo degli stranieri, ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.

Veniva, infine, richiamata [45], la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. allo scopo si segnalava la sentenza della Corte Edu, 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom per la quale il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza).

Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.

Il terzo precedente di giurisprudenza costituzionale [46], avendo a parametro anche l’art. 8 Cedu, ha, infine, affermato il valore super-primario del diritto alla vita privata e familiare. Con quella pronuncia, come abbiamo visto sopra [47], la Consulta ha riconosciuto il diritto del cittadino straniero, anche senza titolo di soggiorno, alla valutazione ponderata dei suoi legami familiari nel territorio dello Stato, ai fini dell’adozione di un eventuale provvedimento di espulsione.

5.2 Le questioni di legittimità costituzionale nei ricorsi delle Regioni [48]

Otto regioni hanno presentato ricorso ex art. 127, comma 2 della Costituzione, alla Corte costituzionale, al fine di far dichiarare l’illegittimità di diverse disposizioni normative contenute nel dl 113/2018, convertito con legge 132/2018. Nel presente paragrafo, cercherò di individuare le principali tematiche su cui dovrà decidere la Consulta con specifico interesse per le questioni che attengono alla determinazione dei requisiti per il riconoscimento della protezione complementare.

Una prima censura è relativa alla tecnica che il Legislatore ha inteso adoperare nella riforma dell’istituto. Come noto, e come abbiamo notato sub paragrafo 1, una delle principali direttrici dell’intervento di riforma è data dalla tipizzazione dei casi di riconoscimento della protezione complementare, operata dall’art. 1 del provvedimento legislativo in questione. Nella logica delle ricorrenti, tale riformulazione, che elimina la clausola atipica della protezione umanitaria, non è compatibile con il vigente quadro costituzionale.

Il ricorso della Regione Piemonte, a cui va ascritto, a giudizio di chi scrive, una più lucida intelligibilità delle ragioni giuridiche in gioco, evidenzia che «i diritti fondamentali sono strutturalmente incompatibili con costruzioni che ne imbriglino preventivamente il contenuto e le possibili forme di violazione» [49]. Ciò discenderebbe dal fatto che: «La presenza di una fattispecie atipica, normativamente costruita come clausola flessibile, è infatti conseguenza diretta e necessaria della complessità e dell’imprevedibilità fattuale delle situazioni in astratto riconducibili a una forma di protezione complementare alle ipotesi (tipiche) di protezione internazionale. In altre parole, prevedere e catalogare le esigenze di carattere umanitario è un’opzione impercorribile: queste sono infatti dipendenti da condizioni di vulnerabilità della persona e da situazioni dei paesi di origine non tutte predeterminabili ex ante». In modo similare si esprime anche la Regione Emilia-Romagna [50] e la Regione Calabria si attesta su posizioni analoghe, evidenziando come le ipotesi dei «casi speciali» introdotti o disciplinati dal nuovo testo normativo non siano idonei a coprire l’ampio campo dell’asilo umanitario, anche in ragione della impossibile estensione analogica, atteso proprio il loro carattere di specialità.

La Regione Emilia-Romagna, in particolare, richiama un precedente della stessa Corte costituzionale per il quale: «Non sembra dubbio che i motivi di carattere umanitario debbano essere identificati facendo riferimento alle fattispecie previste dalle Convenzioni universali che impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione e garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia nella Costituzione, non solo per il valore di diritti inviolabili in forza dell'art. 2, ma anche perché al di là della coincidenza dei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano completandosi reciprocamente nell'interpretazione» (così la sentenza n. 388 del 1999). È opportuno a questo punto evidenziare che la Corte di cassazione, nell’ambito di due ordinanze interlocutorie [51] di simile contenuto, nell’affrontare la questione del diritto intertemporale connesso all’entrata in vigore del dl 113/2018, come convertito con legge 132/2018, ha assunto una posizione proprio sull’argomento della “costituzionalizzazione” della clausola atipica della protezione umanitaria, sia pure con obiter dictum. In proposito, la Corte ha ritenuto di non convenire con quella tesi secondo la quale non sarebbe più consentito al legislatore ordinario di abrogarla e neppure, come avvenuto, di tipizzarla mediante la previsione di permessi specifici per le diverse situazioni. Per la Cassazione, infatti, «si dovrebbe quantomeno dimostrare che la sommatoria delle forme di protezione attualmente vigenti (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione nei casi speciali previsti dalla nuova legge e altre forme di protezione derivanti da permessi di altro genere previsti dalla legge) sia insufficiente a garantire il nucleo minimo dell'asilo costituzionale garantito dalla Costituzione. Altrimenti si dovrebbe prendere atto che l'art. 10 Cost. prevede l'asilo “secondo le condizioni stabilite dalla legge” che possono evidentemente mutare nel tempo, essendo al legislatore garantita dalla Costituzione “un'ampia discrezionalità” in materia».

Sempre la Regione Piemonte cristallizza, a mio giudizio meglio di altri atti introduttivi delle questioni di legittimità costituzionale, i profili di asserito contrasto con due norme che sono, lo abbiamo visto sopra, essenziali nella delimitazione del campo della protezione complementare. In primo luogo il ricorso sottolinea la rilevanza del «diritto alla tutela della vita privata e familiare, assicurata dall’art. 8 della Cedu, che la nuova disciplina non permette di valutare ai fini di rilascio del permesso, in tal modo impedendo che i diritti che da tale norma discendono possano essere oggetto di valutazione (e conseguente bilanciamento) ai fini del riconoscimento di un valido titolo di permanenza sul territorio dello Stato».

Dello stesso tenore sono le argomentazioni al riguardo della Regione Calabria, mentre Sardegna ed Umbria delineano una consecutio, quanto meno testuale tra ipotizzata violazione dell’art. 8 della Cedu e pari lesioni agli artt. 2 e 3 della Convezione.

In relazione alla possibile violazione dell’art. 3 Cedu, la Regione Piemonte, nell’analizzare la fattispecie di cui all’art. 19, comma 1, d.lgs 286/1998 [52], che costituisce, allo stato, una delle due fattispecie per le quali le Commissioni territoriali possono riconoscere il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per «protezione speciale», rileva che «limitando la possibilità di concedere tale forma di permesso nei soli casi in cui sussiste il rischio che in caso di espulsione lo straniero sia esposto a “persecuzione” o “tortura”, l’attuale disciplina non consente di tenere conto di altre circostanze, quali il rischio di subire “trattamenti inumani e degradanti” (ex art. 3 Cedu) o altre severe violazioni dei diritti umani, che secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono ugualmente idonee a far sorgere il divieto di respingimento sancito dalla Cedu».

Entrambe le questioni sollevate, ed inerenti l’asserita violazione degli artt. 3 ed 8 Cedu, saranno senz’altro cruciali nella valutazione della Corte costituzionale che, si può ipotizzare, terrà conto del quadro normativo complessivo, alla luce dell’interpretazione della Corte di cassazione che abbiamo provato a sintetizzare nelle pagine precedenti.

Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è sollevato dalla Regione Toscana, con riferimento ai parametri degli artt. 2, 3 e 10 della Cost., in relazione alla situazione dei minori. In particolare, nel ricorso viene stigmatizzata la situazione dei minori in procinto di diventare maggiorenni e quella dei nuclei familiari in cui siano presenti minori. In proposito, si rileva come la nuova disciplina generi rischi di interruzione dei percorsi di inclusone sociale predisposti dai servizi sociali territoriali e dal Tribunale dei minorenni al compimento dei 18 anni, mentre invece, in precedenza, veniva rilasciato un permesso di soggiorno di due anni rinnovabile e convertibile. Anche qui, è presumibile che la valutazione di legittimità costituzionale non potrà prescindere dalla valutazione complessiva delle tutele approntate dai minori dall’ordinamento vigente.

In ultimo, il ricorso della Regione Emilia-Romagna, in particolare, evidenzia una serie di casi in cui le persone interessate sarebbero lese nei propri diritti “fondamentalissimi”. Tra tali casi sono individuati quelli dei disordini violenti o conflitti che non raggiungono la soglia per il riconoscimento della protezione sussidiaria, dell’instabilità politica e sociale, dell’estrema indigenza in patria, delle situazioni di salute che non raggiungono la soglia di gravità prevista dal nuovo art. 19, comma 2, lett. d-bis), d.lgs 286/1998 così come, analogamente, i casi di calamità nel Paese d’origine che non integrano i requisiti ora previsti dall’art. 20-bis, d.lgs 286/1998. Tutto ciò violerebbe, tra l’altro i parametri costituzionali dell’art. 2 Cost. ma anche l’art. 10, comma 2 e 3. Si tratta, in quest’ultimo caso, dell’asilo costituzionale con il quale, alla fine di questa trattazione, è venuto il momento di fare i conti.

5.3 L’asilo costituzionale

L’approfondimento dottrinario sull’asilo costituzionale è da sempre stato rilevante, non può, pertanto, meravigliare che oggi, in una fase di importante transizione del nostro sistema di protezione del cittadino straniero, gli studi sull’argomento si vadano intensificando [53]. In questo paragrafo, tuttavia, cercherò di evidenziare in che modo, allo stato attuale, le giurisdizioni superiori abbiano trattato l’argomento ed a quale conclusione le stesse siano arrivate.

Come noto, l’art. 10, comma 3, Cost., prescrive che: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».

Un primo arresto fondamentale in materia è costituito da una pronuncia delle Sezioni unite del 1997 (Cass., Sez. unite, 4674/1997), attraverso cui la suprema Corte doveva decidere un regolamento di giurisdizione proposto da un cittadino liberiano che assumeva di avere diritto d’asilo in Italia a norma della suddetta disposizione costituzionale. Nella sentenza in questione, a ben vedere, si trovano affermati, almeno in nuce tutti i principi che si sarebbero consolidati negli anni seguenti.

In primo luogo, la Cassazione affermava che l’art. 10, comma 3, attribuiva allo straniero che si trovasse nella situazione indicata dalla norma, un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento dell’asilo, anche in mancanza di una legge attuativa. Subito dopo, la suprema Corte, si affrettava a precisare che ad un tale cittadino straniero non si poteva riconoscere, allo stato dell’ordinamento allora vigente, che un diritto all’ingresso nello Stato, al contrario del titolare dello status di rifugiato, i cui requisiti di integrazione erano ritenuti diversi; infatti, mentre al secondo, ovvero al rifugiato, spettavano una serie di diritti previsti dalla CG del 1951, al titolare del diritto d’asilo competeva esclusivamente il diritto all’ingresso in Italia.

Dopo poco meno di dieci anni, nel 2005 (Cass., I, 25018/2005), la Corte approfondiva la sua riflessione sulla fattispecie e, utilizzando a piene mani il criterio dell’interpretazione testuale, rilevava come in una serie di leggi adottate sull’argomento vi fosse una chiara interferenza tra asilo e status di rifugiato, tale da far individuare una precisa relazione tra i due istituti. Tale relazione veniva così chiarita: «…alla luce di tali norme, non pare dubitale che il legislatore nazionale, nel recepire la suindicata Convenzione, abbia considerato la domanda di asilo come (elusivamente) finalizzata al riconoscimento dello status di rifugiato».

Nella logica della Cassazione si doveva, allora, individuare una «strutturale funzionalizzazione» del diritto d’asilo costituzionale al riconoscimento dello status di rifugiato, e, pertanto, in un’ottica evolutiva del dictum del 1997, si doveva affermare che il diritto d’asilo non doveva intendersi tanto come diritto all’ingresso nel territorio dello Stato, quanto come il diritto ad accedervi per potere domandare il riconoscimento dello status di rifugiato.

L’anno successivo [54], la suprema Corte tornava sui principi d’interpretazione dell’art. 10, comma 3, Cost., sottolineando, inoltre, la particolare importanza che deve assumere quella parte della formulazione normativa che lega il riconoscimento del diritto d’asilo alle condizioni stabilite dalla legge. Ciò è indice della «volontà del costituente di affidare solo al legislatore ordinario la disciplina attuativa (…) tesa a specificare requisiti e modalità del godimento del diritto e dei criteri di accertamento (…)». Questo significherebbe, per tradurre in un linguaggio più consono agli studiosi ed operatori della materia della protezione internazionale, che sia i requisiti d’inclusione, sia lo status conseguente al riconoscimento del rifugio sono di pertinenza del legislatore ordinario.

Successivamente, la Cassazione (Cass., VI, 10686/2012) [55] ha ritenuto di superare l’approccio funzionalistico, sviluppato sino ad allora, per rilevare che «il diritto d’asilo è oggi (…) interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale».

A conclusione, ed in sintesi, per ciò che è d’interesse ai fini del nostro studio, la giurisprudenza di Cassazione non ha mai enucleato, dalla formula costituzionale, i requisiti necessari all’integrazione del diritto, né ha ricollegato al diritto d’asilo costituzionale uno specifico status discendente, appunto, dall’ordinamento costituzionale, ed anzi, tutto lo sviluppo decisionale sopra riportato, sembra avere un punto di riferimento costante nel convincimento che requisiti e modalità di applicazione di quel diritto, siano determinabili esclusivamente al livello della legislazione ordinaria.

6. Possibili conclusioni

Il ragionamento appena terminato può forse essere riassunto nel senso che la normativa internazionale in materia di diritti umani, da cui il nostro ordinamento costituzionale trae linfa e vitalità, induce a ritenere che il cardine della protezione complementare ruoti intorno a dei parametri che si ripetono nei singoli ordinamenti nazionali.

Utilizzando la formula contenuta all’art. 5 della Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, relativa alle norme e procedure in materia di rimpatrio dei cittadini di Stati terzi il cui soggiorno è irregolare, possiamo individuare, in quattro ambiti, i diritti umani fondamentali tutelati:

1) l’interesse superiore del bambino, formula che racchiude i diritti dei minori come stabiliti nel diritto internazionale pattizio;

2) il rispetto della vita familiare, nell’ambito che abbiamo cercato sopra di illustrare;

3) il diritto alla salute;

4) il principio del non refoulement.

In realtà, il terzo e quarto punto possono essere riassunti nel diritto umano, fondamentale ed inderogabile, a non essere sottoposto a tortura o trattamento inumano o degradante.

Un ragionamento articolato su questa nuova partitura potrà presumibilmente condurre ad una più consapevole conoscenza dell’ordinamento in materia, e, ad esaminare conseguentemente, anche la questione del contenuto della protezione complementare che, come detto in premessa, volutamente è rimasto al di fuori dell’ambito qui esaminato.



[*] Lo scritto è frutto di ricerche e di opinioni proprie dell’autore ed impegnano esclusivamente la responsabilità di quest’ultimo. La supervisione finale del testo è opera della Dott.ssa Emanuela Romano, giudice presso il Tribunale di Catanzaro-Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea e della Dott.ssa Valentina Gigliotti, esperto di diritti umani e protezione internazionale presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Crotone

[1] Art. 5, comma 6, d.lgs 286/1998: «Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali (…) salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

[2] Tra questi ultimi, meritano particolare menzione due recenti studi, entrambi molto argomentati, seppure pervengano a conclusioni opposte: C.M. Bianca, La legge non dispone che per l’avvenire (art. 11 disp. Prel. cc): a proposito del decreto sicurezza, in questa Rivista on-line, 17 giugno 2019, http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-legge-non-dispone-che-per-l-avvenire-art-11-disp-prel-cc-a-proposito-del-decreto-sicurezza_17-06-2019.php; e S. Casciaro, La questione dell’applicabilità della nuova disciplina in tema di protezione umanitaria ai procedimenti in corso, 17 giugno 2019, https://www.magistraturaindipendente.it/la-questione-dellapplicabilita-della-nuova-disciplina-in-tema-di-protezione-umanitaria-ai.htm

[3] Pur nella consapevolezza che citare propri lavori è sempre difficoltoso, dovrò procedere a segnalare alcune mie precedenti ricerche di cui, questo scritto è l’ideale, provvisoria, conclusione. Sui primi sviluppi giurisprudenziali in materia, si veda F. Gallo, La protezione umanitaria nell’interpretazione delle corti territoriali calabresi e delle giurisdizioni superiori, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato n. 2/2013, pp. 90 ss.

[5] Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma, 1950, in https://www.echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf.

[6] Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York, 1966, in https://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx.

[7] Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, New York, 1984, in https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_contro_la_Tortura.pdf.

[8] Cass., Sez. unite, n. 14500/2013.

[9] Cass., VI, n. 26641/2016. In senso conforme, Cass., VI, n. 21035/2017.

[10] Cass., VI, n. 13252/2016.

[11] Cass., VI, n. 6000/2017.

[12] Cass. pen., I, n. 38041/2017.

[13] Corte cost., n. 252/2001, illustrata infra, sub § 6.1

[14] Nel caso di specie si trattava di persona affetta da una grave disabilità motoria, conseguente alla imputazione di un arto inferiore, che versava nella particolare situazione di un soggetto nei cui confronti non ricorreva la classica declinazione di diritto alle cure urgenti o essenziali.

[15] Vedi infra nel paragrafo.

[16] Cass. VI, n. 7492/2012.

[17] Cass., VI, n. 231/2019. In senso conforme, da ultimo ed a solo titolo d’esempio, Cass., VI, n. 10736/2019 e Cass., I, n. 11106/2019.

[18] Tra le prime decisioni di merito, in questo senso, vds. Tribunale di Genova, cause nn. 13651/2015 e 13652/2015, in https://www.meltingpot.org/IMG/pdf/20160524124030203.pdf.

[19] J.C. Hathaway e M. Foster, The law of refugee status, Cambridge University Press, 2014.

[20] Ibidem, p. 21.

[21] C. De Chiara, L’Unione europea e il diritto di asilo: da “Dublino” alla Turchia, https://www.unionedirittiumani.it/wp-content/uploads/2017/10/LUnione-Europea-e-il-diritto-di-asilo.pdf.

[22] Nello stesso senso, Cass. I, n. 4890/2019.

[23] J. C. Hathaway, International refugee law: the Michigan Guidelines on the internal protection alternative, University of Michigan Law School, 11 aprile 1999, p. 131.

[24] Conseil d'État de France, n. 42.074 27 maggio 1983, citata in J.C. Hathaway, art. cit., p. 131, nota 1.

[25] M. Benvenuti, La forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 2/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/la-forma-dell-acqua-il-diritto-diasilo-costituzionale-traattuazione-applicazione-eattualita_531.php.

[26] Per la protezione nazionale o complementare non è semplice reperire studi complessivi ed aggiornati sulla situazione. Una fonte rilevante di informazione è data da uno studio di ECRE (European Council on Refugees and Exiles) del 2009 che esamina dieci Paesi europei, sintetizzato in F. Gallo, Protezione umanitaria: natura e profili di diritto comparato, in Itinerari Interni, 3/2018.

[27] Un’aggiornata rassegna di esempi di protezione complementare in Europa si trova in Senato della Repubblica-Servizio Studi, Dossier n. 66 su A.S. n. 840, in http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DOSSIER/0/1076617/index.html?part=dossier_dossier1#r-w1aaab2ad205b1ac41b3

[28] Relazione al disegno di legge n. 840, recante Conversione in legge del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1076594/index.html?part=ddlpres_ddlpres1-frontespizio_front01.

[29] Per una lettura sistematica della fattispecie e dell’articolato procedimento previsto per il rilascio del permesso di soggiorno in questione, si veda la circolare del Ministero dell’interno del 28 maggio 2007, relativa al permesso di soggiorno per protezione speciale, in https://www.meltingpot.org/Art-18-T-U-Circolare-del-Ministero-dell-Interno-del-28.html#.XNLsrIkzaUk

[30] La protezione complementare per ragioni di interesse pubblico dello Stato ospitante, in particolare per ragioni di giustizia, si trova anche in altri ordinamenti. In particolare, è esemplificativo il caso tedesco, documentato in ECRE, Complementary protection in Europe, 2009, 47, https://www.refworld.org/pdfid/4a72c9a72.pdf.

[31] Per una sintesi sulla giurisprudenza della Corte Edu in materia, si veda European Court of Human Rights, Guide on article 8 of the European Convention on Human Rights, in https://www.echr.coe.int/documents/guide_art_8_eng.pdf.

[32] Corte cost., 18 luglio 2013, n. 202.

[33] Cass., I, n. 23957/2018.

[34] L’orientamento della suprema Corte in materia è stato confermato, da ultimo, in Cass., I, n. 5359/2019.

[35] Tutti i materiali possono essere reperiti in http://archivio.rivistaaic.it/materiali/convegni/aic200910/index.htm.

[36] V. Onida, Lo statuto costituzionale del non cittadino, ibidem.

[37] Sulla rilevanza delle norme internazionali quale strumento integrativo del quadro costituzionale, si veda anche B. Nascimbene, Asilo e statuto di rifugiato, 47, Ibidem.

[38] Sull’argomento, vds. L. Montanari, La giurisprudenza costituzionale in materia di diritti degli stranieri, in Federalismi, numero speciale 2/2019.

[39] Corte Cost., n. 252/2001.

[40] Si veda la parte di motivazione in diritto della sentenza citata, paragrafo 2.

[41] Ibidem, paragrafo 5.

[42] Vds. supra, paragrafo 4.2.

[43] Corte cost., 20 luglio 2011, n. 245.

[44] Ibidem, paragrafo 3.1

[45] Ibidem, paragrafo 3.2.

[46] Corte cost., 18 luglio 2013, n. 202

[47] Paragrafo 4.4.

[48] La ricerca sui ricorsi presentati dalle regioni in ordine alla legittimità costituzionale del dl 113/2018, come convertito con la legge 132/2018 è stata condotta con la collaborazione della Dott.ssa Lucia Della Valle, esperto di diritti umani e protezione internazionale presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Firenze, e la Dott.ssa Elisa Abbate, funzionario amministrativo istruttore presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Crotone, che ringrazio.

[51] Cass, I, nn. 11750/2019 e 11751/2019.

[52] «Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani».

[53] Per chi scrive, assume una rilevanza parametrica M. Benvenuti, La forma dell’acqua cit., in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 2/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/la-forma-dell-acqua-il-diritto-diasilo-costituzionale-traattuazione-applicazione-eattualita_531.php. Fra gli studi recenti, si segnalano anche P. Morozzo della Rocca, Protezione umanitaria una e trina, in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 2/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/2/protezione-umanitaria-una-e-trina_537.php; N. Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. 1/2018; S. Marchisio, Commento all’art. 10 Cost, in Codice dell’immigrazione e asilo, Milano, 2018, pp. 3 ss.

[54] Cass. I, n. 18940/2006.

[55] Posizione successivamente ribadita fino all’attualità e con riferimento al pregresso quadro normativo. Si veda l’elencazione delle sentenze rilevanti in M. Benvenuti, cit., p. 18.

05/07/2019
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