Magistratura democratica

Protezione umanitaria una e trina

di Paolo Morozzo della Rocca

Nei suoi diversi profili la “protezione umanitaria” è figura di diritto soggettivo, salvo nei casi in cui l'Amministrazione attraverso il suo riconoscimento persegua un diverso interesse pubblico comunque coincidente con l'interesse personale del beneficiario. I “seri motivi” per l'attribuzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituiscono un catalogo aperto, ordinato al fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali oppure conseguenti al rimpatrio dello straniero.

1. Il contesto

Tenere conto dei dati di realtà che fanno da contesto ad una regola può facilitare il compito d'interpretare la norma rendendola adeguata (od almeno meno inadeguata) rispetto alla realtà su cui questa incide pur senza contraddirne l'enunciato.

Tra gli attuali dati di contesto spicca, sul piano normativo, l'assenza pressoché totale di politiche pubbliche di ingresso legale e sicuro, ad eccezione dei ricongiungimenti familiari (peraltro sofferenti dal punto di vista burocratico); della porzione domestica del programma europeo di reinsediamento; e dei “Corridoi umanitari”, dal cui esempio sembra peraltro ormai avviato un processo, purtroppo ancora iniziale, di reintroduzione a regime di politiche di sponsorship potenzialmente rivolte a soggetti non eleggibili alla protezione internazionale ma meritevoli di asilo[1].

Sul piano meramente fattuale vanno invece considerate le caratteristiche e le dimensioni dei flussi migratori che interessano il nostro Paese. Flussi originati soprattutto da paesi africani (solo in misura minore asiatici e latinoamericani) nei quali la privazione dei diritti e delle libertà fondamentali si coniuga spesso con la fragilità, il dissolvimento o la corruzione degli apparati statali; e si intreccia con progetti migratori miranti ad un risultato economico a beneficio di nuclei familiari non sempre tra i più poveri del Paese.

In tale contesto la distinzione tra migranti volontari (che hanno scelto di emigrare, potendo viceversa scegliere di rimanere nel loro Paese, al fine, ad esempio, di acquisire un maggior reddito o un migliore standard materiale di vita) e migranti forzati (privi della possibilità di scegliere di rimanere in condizioni di vita sicure e dignitose nel proprio Paese) deve essere mantenuta ma anche aggiornata, nella consapevolezza che la linea di confine è tutt'altro che lineare. Ed è allora opportuno osservare come per navigare questa frastagliata frontiera l'utilizzo sapiente e non restrittivo della cosiddetta protezione umanitaria sembri indispensabile benché forse non ancora sufficiente.

Appartiene al piano fattuale, oltre e più che a quello giuridico, anche l'impossibilità di rimpatriare la maggior parte degli stranieri irregolarmente soggiornanti e tra di essi soprattutto quelli che, anche per mancanza di alternative giuridiche, hanno richiesto il riconoscimento della protezione internazionale ricevendo un provvedimento di diniego assieme all'invito a lasciare il territorio nazionale.

Un'Europa complessivamente più musclée potrà, nei mesi o anni a venire, incrementare la percentuale delle espulsioni effettivamente eseguite, ma i risultati ottenuti non potranno che essere relativi determinando, per il congiunto effetto di politiche amministrative tendenti a non facilitare la regolarità del soggiorno, l'ingresso in clandestinità ed il conseguente soggiorno irregolare, ma permanente, di una massa significativa di ex richiedenti asilo denegati.

Vero è che già da ieri i rimpatri figuravano tra le priorità dell'agenda europea dell'immigrazione. Ma è lecito sospettare che all'attuazione pratica questi non possano che rimanere un obiettivo secondario ancorché legittimo. Ne è forse riprova il fatto che nel 2016 in tutta l'Unione abbiamo avuto 247.165 rimpatri, a costi direttamente proporzionali con l'efficacia del rimpatrio stesso. Ed infatti ad essere rimpatriate sono state soprattutto le persone meno problematiche (dunque più facilmente identificabili) e quelle dei Paesi più vicini, che potrebbero più facilmente tornare una volta espulse. La prima nazionalità degli espulsi è stata infatti quella albanese (42.640 rimpatri effettuati) e la seconda è stata quella ucraina (22.635 rimpatri).

Quanto agli africani può fare riflettere la constatazione di come si sia rivelata più agevole l'espulsione verso la Nigeria (un gigante demografico che non teme contraccolpi politici dal ritorno di qualche migliaio di clandestini) mentre pare evidente che in altri Paesi l'adesione agli accordi per il rimpatrio, in mancanza di adeguate contropartite, provocherebbe l'ulteriore delegittimazione politica dei governi locali[2].

In questo contesto l'interesse nazionale sembrerebbe andare nel senso, per un verso, della riapertura di canali di ingresso legali (i cui costi diretti ed indiretti sono infinitamente più bassi di quelli illegali e sarebbero entusiasticamente sostenuti dai migranti stessi) ma anche di una politica opportunamente volta a decidere quali persone espellere e quali regolarizzare nel folto stock degli stranieri irregolarmente giunti e/o soggiornanti.

Una selezione, questa, che fatta al momento della valutazione della domanda di asilo costerebbe meno (anche all'interessato), che se fatta in sede giurisdizionale o, ancora più in là, mediante un provvedimento di sanatoria sopraggiunto dopo molti anni di irregolarità e dunque di distorsione del mercato del lavoro e delle relazioni di comunità sul territorio.

2. Sui molteplici presupposti di attribuzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari

Molti stranieri oggi chiedono asilo dando voce ad un bisogno di legittimazione del proprio soggiorno fondato su ragioni umanitarie anziché politiche. Ma quello delle procedure di asilo non è l'unico percorso seguito. Altri, infatti, perseguono il medesimo obiettivo avendo il diverso ma non dissimile problema di ottenere il rinnovo dell'autorizzazione al soggiorno per lavoro (nel frattempo venuto meno o insufficientemente retribuito) in mancanza di effettive possibilità di rientro nel Paese di origine; altri, ancora, dopo un più o meno prolungato periodo di irregolarità chiedono direttamente al Questore un permesso di soggiorno sulla base di gravi motivi umanitari. Altri, addirittura, ricevono un permesso di soggiorno per motivi umanitari per l'effettiva iniziativa (di certo corrisposta dal beneficiario che se ne fa di conseguenza richiedente) della stessa amministrazione.

Pur dandosi una ben più affollata tassonomia dei tipi di permesso di soggiorno riconducibili a finalità esse pure umanitarie[3], la figura che qui interessa, con la quale il legislatore ha inteso delineare la disciplina comune del permesso di soggiorno per motivi umanitari è quella contenuta nell'art.5, co.6, d.lgs n.286 del 1998.

Sembra ormai prevalso l'orientamento volto a configurare il permesso di soggiorno per motivi umanitari come una fattispecie (pur sempre suddivisa nei due tipi del permesso di soggiorno suggerito dalla Commissione territoriale e di quello rilasciato direttamente dal Questore[4]) cui l'interessato, avendone i requisiti, ha diritto, spettando dunque all'amministrazione solo una discrezionalità tecnica relativa all'accertamento dei requisiti medesimi[5], sicché in presenza dell'evidenza dei presupposti per il rilascio ne è dunque illegittimo il diniego, atto lesivo di un diritto soggettivo giustiziabile davanti al giudice ordinario che ha il potere di accertare il diritto e di ordinare all'amministrazione convenuta il rilascio del permesso di soggiorno.

3. Il permesso di soggiorno umanitario per meriti particolari o nell'interesse della collettività

Non sembra però contraddittorio rispetto a tali conclusioni ammettere altresì l'esistenza di una terza tipologia dell'umanitario caratterizzata invece da un'area di discrezionalità piena: quella del permesso di soggiorno eventualmente rilasciato allo straniero dal Questore sulla base di considerazioni solo latamente umanitarie e non necessariamente ascrivibili alla formula degli “obblighi” elencati alla fine dell'art.5, co.6, d.lgs 286/1998.

La cronaca ce ne ricorda l'esistenza nei tratti di un'Amministrazione benevola. A ottobre 2017 il Questore di Roma ha rilasciato, a pochi giorni di distanza, due permessi di soggiorno per motivi umanitari a due nigeriani entrambi senza fissa dimora, ma non certo a motivo delle loro difficili condizioni di vita. Nel primo caso si trattava di un giovane che aveva sventato una rapina al supermercato dove chiedeva l'elemosina; nel secondo caso si trattava di un signore, dedito alla pulizia dei marciapiedi in cambio di monetine, che aveva salvato una ragazza italiana disabile dallo sfruttamento sessuale gestito da un suo familiare. Permessi di soggiorno di carattere premiale, come pure quello rilasciato ad un giovane marocchino, pregiudicato e già espulso, per avere salvato una famiglia in pericolo di vita nel canale del Fucino[6]. Altre volte permessi di soggiorno miranti a politiche di coesione sociale (come nel caso del permesso di soggiorno rilasciato ad un “irregolare” per il suo centesimo compleanno, su richiesta della comunità peruviana) o con evidenti scopi risarcitori (come nel caso del permesso di soggiorno rilasciato ai familiari irregolarmente soggiornanti della vittima di un omicidio a sfondo razzista). Queste fattispecie ci dicono dell'utilità e legittimità del rilascio del permesso di soggiorno sulla base di motivi umanitari la cui gravità consiste piuttosto in una serie di valutazioni di pubblico interesse e di civismo in buona parte rimesse all'autorità procedente.

4. L'umanitario in relazione al sistema italiano della protezione internazionale

Secondo un attento studioso, con l'attuale sistema dell'asilo, risultante dal recepimento della Direttiva qualifiche con il d.lgs n.251 del 2007 e della Direttiva procedure con il d.lgs n.25 del 2008 (ove l'ulteriore messa a punto, al suo art.32, co.3, pure della protezione umanitaria) sarebbe stata “finalmente raggiunta una forma di completa attuazione del diritto d'asilo garantito dall'art.10, co.3, Cost”[7]. Nella sua nettezza l'affermazione, pur avallata dalla giurisprudenza[8], pare forse troppo ardita, benché l'autore abbia compiuto un rigoroso sforzo ricostruttivo per argomentarla.

Meriterebbe, al riguardo, di essere approfondita la questione relativa alla possibile extraterritorialità dell'asilo costituzionale, secondo alcuni comprensivo del diritto ad un ingresso legale e sicuro da parte degli aventi diritto (potenzialmente innumerevoli)[9]. V'è poi da chiedersi se un'attuazione almeno parziale del diritto all'asilo costituzionale non possa essere disciplinata mediante il rilascio di visti umanitari che precedano l'esame della domanda di protezione, in presenza di idonee garanzie (sponsorship).

Al netto di tali questioni il punto dolente è però costituito dalla vaghezza della formula utilizzata dall'art.5, co.6, d.lgs n.286/1998, che rimette il dispositivo alla mercé dell'Amministrazione, da sempre poco disponibile a comprendervi l'ingombrante figura dell'asilo costituzionale[10].

Vero è che l'art.10 Cost è in qualche modo comunque richiamato dall'art.5, co.6, ove è disposto che il permesso di soggiorno non può essere rifiutato o revocato, se ricorrono «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Ed infatti non s'è mancato di sottolineare come tra gli obblighi costituzionali richiamati dalla norma vi sia, in primo luogo quello di assicurare protezione al richiedente asilo ai sensi dell'art.10, co.3, Cost., sicché l'umanitario costituirebbe la misura minima necessaria di attuazione dell'asilo costituzionale, preceduta da due misure di più intensa ed articolata protezione, esse pure attuative dell'art.10, co.3, Cost[11].

La prospettiva, quindi, non è tanto quella di enfatizzare l'avvenuta piena attuazione dell'asilo costituzionale, con tutti i limiti procedimentali e sostanziali già fissati dal legislatore ordinario (oltretutto svilendone la portata entro gli angusti limiti del diritto di accesso alle procedure già regolamentate[12]) quanto invece quella di esigere che il richiamo operato dall'art.5, co.6, d.lgs del Testo unico sull'immigrazione agli obblighi costituzionali abbia piena effettività riguardo soprattutto all'art.10, co.3, Cost., il cui diametro di protezione è notevolmente più ampio di quello assicurato dalla disciplina internazionale ed europea dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria.

L'ampio richiamo dell'art.5, co. 6, agli obblighi costituzionali reca però in sé un paradosso: per un verso quello di non avere sufficientemente sottolineato il vincolo costituzionale cui è in particolare sottoposto il legislatore dell'asilo riguardo all'art.10 Cost (sorprendentemente non richiamato); per altro verso quello di avere espressamente ampliato il vincolo costituzionale cui è sottoposta la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale nel suo operato anche oltre l'ambito dell'asilo costituzionale, includendo tra le ragioni del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ogni altra situazione oggetto di tutela per obbligo costituzionale, a partire innanzitutto dall'ampia formula dei diritti inviolabili di cui all'art.2 Cost.

Ed infatti emerge dallo studio dei casi come l'epilogo favorevole al richiedente sia spesso fondato su motivi connessi al mancato godimento di diritti umani fondamentali di natura sociale ed economica (ad esempio: il diritto di accesso a cure mediche adeguate nel caso di patologie gravi) od al rischio di pregiudicare relazioni familiari o appartenenze culturali nel caso di rimpatrio, come nel caso dei minori nati e/o cresciuti in Italia, o dello straniero che abbia ormai in Italia le sue relazioni familiari più significative.

5. L'umanitario come rimedio alle cause di esclusione dallo status di protezione internazionale o di ineleggibilità

L'art.3 della Direttiva qualifiche n. 95 del 2011 legittima gli Stati membri a «introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della presente direttiva». Nel considerando n.18 la Direttiva distingue però questa eventualità da quella, abbastanza diffusa nei Paesi membri, della concessione - eventualmente anche a richiedenti asilo privi dei requisiti - «di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale».

Non sembra a chi scrive che l'Italia si sia avvalsa in modo significativo dell'opportunità stabilita all'art.3 mentre, viceversa, si è fatto largo uso del permesso di soggiorno per motivi umanitari anche da parte delle Commissioni territoriali. In questo modo si è dunque perseguita la medesima funzione che si sarebbe potuta in modo diverso, ma forse più impacciato, assicurare mediante l'attività normativa autorizzata dall'art. 3, ampliando i confini dell'asilo in senso stretto. Ciò avviene in vari modi.

Una prima questione è stata posta dalle regole riguardanti le cause di esclusione dallo status di protezione internazionale, stabilite dalla Convenzione di Ginevra e dalle Direttive dell'Unione europea, puntualmente recepite dagli articoli 10 e 16 del d.lgs n.251 del 2007 con riguardo al richiedente asilo autore di crimini contro la pace; crimini di guerra o contro l'umanità; altri gravi reati; atti di crudeltà; atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni unite; oppure che rappresenti, se richiedente la protezione sussidiaria, un pericolo per la sicurezza dello Stato o per l'ordine e la sicurezza pubblica.

Come è noto, quando all'immeritevolezza dello status di protezione internazionale corrisponde l'effettività del bisogno di asilo soccorre a tutela dello straniero l'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (nonché, sul piano del diritto dell'Unione, l'art.19, par.2, della Carta dei diritti fondamentali), che ne impedisce sia il respingimento che l'espulsione e dunque richiede allo Stato di assicurare comunque una forma minima necessaria di asilo che, nel caso dell'Italia, è costituita dal rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, salva ovviamente la possibilità e doverosità, se ve ne sono gli estremi, per azioni giudiziarie e/o di restrizione della libertà personale dell'asilante anche in ragione del pericolo che egli può rappresentare.

Emblematica applicazione del “diritto di Caino”[13] alla protezione è stata, nel 2008, la condanna dell'Italia da parte della Corte di Strasburgo per avere espulso un tunisino sospettato di terrorismo[14].

Una seconda questione è data dall'ineleggibilità allo status di protezione internazionale - da ultimo sancita, in particolare, dall'art. 2, lett. d) ed n), della Direttiva n.95 del 2011 - delle persone che abbiano subito persecuzione o che rischino di subire un danno grave nel caso del loro rientro nel Paese di abituale residenza che non sia però il loro Paese di cittadinanza (con l'eccezione, ovviamente, degli apolidi).

Benché in astratto la norma possa apparire giustificata, in concreto essa può condurre a conclusioni inique, come nel caso di molti cittadini sub-sahariani fuggiti dalla Libia allo scoppio del conflitto dopo avere vissuto e lavorato nel Paese da moltissimi anni ed in alcuni casi addirittura essendovi nati. La lunga durata della residenza all'estero può infatti determinare un significativo indebolimento del rapporto di cittadinanza e la concreta impossibilità od inesigibilità del rientro nel Paese di origine. In tali situazioni (nelle quali non sia possibile dare rilievo ad una situazione di apolidia de facto del richiedente) l'attribuzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce un rimedio alla ritenuta impossibilità di accedere allo status di protezione internazionale.

Si tratta a ben vedere di una soluzione ragionevole, allo stato delle cose, ma non del tutto soddisfacente in quanto subisce la mancanza nelle discipline interne ed europee di un'opportuna differenziazione dei residenti di lungo periodo rispetto alle persone solamente transitanti o comunque residenti da pochi mesi od anni nel Paese dove è stata subita la persecuzione o dal quale si è dovuti fuggire a causa della situazione divenuta pericolosa. È infatti condivisibile che a queste ultime possa essere rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, non lo è altrettanto che non si preveda una differenziazione tra le due situazioni che conduca ad una maggiore considerazione del bisogno di protezione dei residenti davvero di lungo periodo costretti a fuggire da un Paese nel quale si erano definitivamente radicati[15].

Una terza questione, non ignota alla nostra giurisprudenza, è quella concernente le persone che pur non avendo più da temere un serio e grave pericolo nel caso del loro rientro nel Paese di origine, sono però rimaste effettivamente vittime di gravi offese alla loro persona, rimanendone sofferenti. In tali casi, ove non si ritenga ugualmente sussistente il bisogno di protezione (per effetto anche delle condizioni di particolare vulnerabilità della persona rimasta vittima di violenza) sarebbe comunque doveroso evitarne il rimpatrio attribuendole un permesso di soggiorno per motivi umanitari[16].

Del resto anche la disciplina della cessazione dello status di protezione internazionale prevede che tale provvedimento possa essere adottato solo se, a fronte del venir meno delle circostanze che hanno indotto al riconoscimento, non permangano «gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine» (art.15, co.2, d.lgs n.251 del 2007).

Un passo ulteriore è stato poi compiuto nei casi in cui la sofferenza subita sia costituita da esperienze particolarmente drammatiche vissute durante il viaggio. Quest'ultimo, come emerge da numerosissimi e inquietanti riscontri, costituisce infatti occasione di gravissime e a volte indicibili violazioni dei diritti umani fondamentali, con conseguenze talvolta irrimediabili nella vita futura delle vittime[17].

6. Profughi climatici

L'umanitario costituisce anche una possibile modalità di protezione delle vittime delle crisi ambientali. Con il rischio però che ciò possa dare luogo ad una possibile opera di derubricazione del bisogno di protezione internazionale delle vittime di discriminazioni e persecuzioni che trovano nella crisi ambientale solo la “causa prossima” della fuga, che potrebbe invece avere nella politica locale dell'ambiente e del'allocazione di risorse e diritti la sua causa prima e dunque principale. A tali ipotesi va poi aggiunta la possibilità che la crisi ambientale (sia essa provocata dall'uomo oppure no) possa agire da causa di violenze diffuse od organizzate, ad esempio per l'accaparramento di risorse divenute scarse[18].

Vero è che, a prescindere dalle cause della crisi ambientale ed in particolare di quelle comunemente definite come disastri o catastrofi, la base giuridica per l'ottenimento della protezione umanitaria è sufficientemente data, nel diritto interno ed europeo, dagli articolo 2 e 3 Cedu. Il diritto alla vita impone infatti azioni positive di protezione e certamente non sono consentiti il respingimento o l'espulsione dello straniero nel caso in cui ciò lo esponga ad un elevato rischio per la vita a causa di crisi ambientali in atto. Ed è opportuno osservare come, anche al di fuori del sistema europeo di tutela dei diritti umani trovi riconoscimento l'obbligo degli Stati di difendere la vita, benché ciò non abbia ancora dato luogo ad una disciplina di diritto internazionale dedicata all'asilo per motivi ambientali[19].

Oltre che nei casi più eclatanti, costituiti dalle catastrofi ambientali, la richiesta di protezione potrebbe comunque condurre almeno al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari quando le attività di sopravvivenza del richiedente siano state effettivamente impedite a causa di un evento climatico o ambientale sia pure più circostanziato o limitato, per il quale tuttavia le autorità del suo Paese non abbiano potuto o voluto adottare le misure di assistenza possibili in quel contesto nazionale, in modo da ricollocare la vittima dell'evento in condizioni di vita possibili ed ordinarie rispetto agli standard locali.

7. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari nella gestione dei flussi migratori

Sin qui si è tentato soprattutto di descrivere lo spazio dell'umanitario presentandolo come un'estensione dell'asilo oltre i confini altrimenti imposti dal quadro europeo delle misure di protezione internazionale; e dunque pur sempre riguardo a migrazioni forzate sin dal Paese di origine o di residenza. Occorre ora concentrarsi sulle figure dell'umanitario centrate su presupposti diversi dalla costrizione all'emigrazione. E poco importa se pure di queste ultime finisce con l'occuparsene, in via amministrativa, soprattutto la rete delle Commissioni territoriali. Ciò accade, in parte, a causa della scarsa propensione delle Questure nel ricevere le richieste di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari direttamente dagli interessati e quindi senza la previa e deresponsabilizzante valutazione della Commissione territoriale.

V'è purtroppo anche un'altra ragione dell'affollamento presso le Commissioni territoriali di richieste di protezione internazionale destinate eventualmente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la quale è costituita dalla cattiva qualità della gestione amministrativa dei rinnovi e delle conversioni dei permessi di soggiorno.

Vi sono infatti norme del diritto dell'immigrazione che dovrebbero consentire un'adeguata valutazione della domanda di mantenimento della regolarità del soggiorno anche in situazioni di sopraggiunta fragilità, oppure che consentirebbero la regolarizzazione dello straniero direttamente in ragione del suo diritto all'unità familiare con congiunti regolarmente soggiornanti (ne sono espressione gli enunciati di cui agli artt. 5, co. 5; 19, co. 2; 30, co. 1; 31, co. 1, come interpretato dalla Circolare del Ministero dell’interno del 28 marzo 2008, prot. n. 17272/7; e 31, co.3, d.lgs n.286 del 1998).

Ma spesso tali norme sono disapplicate, in tutto o in parte, anche in spregio alle formali linee di indirizzo ministeriali.

A quel punto la domanda di asilo costituisce l'unico modo per ottenere dall'Amministrazione il rispetto di quegli stessi princìpi che farebbero più esattamente parte dell'ordinaria gestione amministrativa dei permessi di soggiorno.

La differenza tra l'uno e l'altro ambito di operatività dell'umanitario non sta, quindi, nell'autorità che di volta in volta si pronuncia al riguardo ma nel diverso baricentro costituito, nel caso delle migrazioni forzate, dalla necessità di allontanarsi dal Paese di provenienza, mentre negli altri casi esso è dato piuttosto dalla necessità di non essere allontanato dall'Italia, a prescindere dalle ragioni che abbiano o non abbiano consentito a suo tempo all'interessato di giungere nel nostro Paese.

Prova di quanto ora osservato è senza dubbio costituita da una circolare della Commissione nazionale per l'asilo ove, sia pure in via meramente esemplificativa, è proposta alle commissioni territoriali un elenco di situazioni sintomatiche del bisogno di protezione umanitaria non in tutti i casi espressive di una situazione di pericolo o di danno grave riguardanti la situazione nel Paese di origine[20].

I casi elencati sono 1) l'esposizione alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti in caso di rimpatrio del richiedente; 2) le gravi condizioni psico-fisiche o gravi patologie che non possono essere adeguatamente trattate nel Paese di origine. 3) la temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del Paese o della zona di origine[21], benché ciò non integri l'ipotesi di cui all'art. 14, lett. c), del d.lgs n. 251/2007 (e dunque non si concreti in una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale); 4) gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi ad un rimpatrio in dignità e sicurezza; 5) la situazione familiare, che deve essere valutata ai sensi di quanto previsto dall’art. 8 della Cedu concernente il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Purché i legami personali e familiari siano particolarmente significativi in base alla loro durata nel tempo e alla loro stabilità. Con detta circolare le commissioni territoriali vengono inoltre richiamate alla puntuale applicazione dell'art. 32, co. 3 bis, del d.lgs n. 25 del 2008 che impone loro di trasmettere al Questore gli atti della procedura se nel corso dell'istruttoria sono emersi fondati motivi per ritenere che il richiedente è stato vittima dei delitti di cui agli articoli 600 e 601 del codice penale (Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù; Tratta di donne o di minori).

In alcuni dei casi elencati il pericolo derivante dal ritorno al Paese di origine assume rilevanza solo in ragione dell'attuale presenza in Italia del richiedente la protezione (come nel caso dell'inadeguatezza dei presidi sanitari).

In altri casi invece rileva in primo luogo il legame personale e familiare con l'Italia, cui non corrispondano legami altrettanto significativi nel Paese di origine. Ed allora l'umanitario svolge nuovamente una funzione di allargamento dei confini rispetto ad un altro istituto che però in questo caso non è il diritto di asilo ma il diritto all'unità od al ricongiungimento familiare, il cui procedimento il legislatore ha sottoposto a rigidità talvolta inopportune, escludendone peraltro, salvo alcune eccezioni, i figli maggiori d'età ed i genitori non ancora anziani di stranieri regolarmente soggiornanti e già maggiorenni.

Le prassi questorili in materia di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari sono di fatto limitate a casi di grave malattia od invalidità, a vantaggio eventualmente anche di un congiunto la cui presenza sia necessaria per l'assistenza della persona invalida. Nel caso invece di altre fragilità non di rado vengono suggerite o realizzate procedure diverse. Gli adulti con minori a carico, ad esempio, vengono invitati a recarsi al Tribunale per i minorenni perché si pronunci sul rilascio del permesso di soggiorno per assistenza al minore, meno utile, per diverse ragioni, del permesso di soggiorno per motivi umanitari perché non convertibile in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Quanto alle persone già titolari di un permesso di soggiorno per lavoro che devono affrontare l'insorgenza di malattie o disabilità viene più volentieri rilasciato un permesso di soggiorno per attesa occupazione, di durata annuale, il cui rinnovo, normalmente negato, è invece concesso in presenza di adeguata giustificazione. Se nel frattempo la persona divenuta disabile acquisisce diritti a provvidenze conseguenti alla declaratoria di invalidità gli verrà infine rilasciato il permesso di soggiorno per residenza elettiva. Tuttavia, sia nel caso in cui questi procedimenti non diano l'esito sperato, sia per ragioni di maggiore convenienza, l'interessato potrebbe comunque chiedere nel ricorrere delle medesime circostanze il riconoscimento della protezione internazionale, potendo ragionevolmente sperare nell'attribuzione di una protezione umanitaria.

8. La valutazione dell'inclusione sociale e le sue funzioni nei procedimenti di attribuzione o mantenimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari

La giurisprudenza in materia di protezione internazionale si è interrogata, fornendo risposte non univoche, sulla rilevanza o meno dei percorsi di inclusione sociale intrapresi dal richiedente asilo denegato, specie, anche se non esclusivamente, ai fini del riconoscimento in sede giurisdizionale del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Un ragionevole punto di arrivo del diritto vivente sul punto potrebbe essere costituito dalla recente sentenza del Supremo collegio, 23 febbraio 2018, n.4455, con la quale, accogliendo parzialmente il ricorso del Ministero dell'interno avverso la decisione del merito, la Cassazione per un verso afferma che il riconoscimento della protezione umanitaria non può prescindere dall’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine. Per altro verso, tuttavia, ritiene che tale esame deve considerare l'integrazione sociale dello straniero in Italia, in quanto fattore rilevante nel valutare se il rientro nel Paese di origine possa comportare il sacrificio effettivo del diritto fondamentale alla dignità del richiedente, anche in relazione a come la sua vita è mutata durante il suo soggiorno in Italia.

Ciò non significa che l’integrazione sociale debba costituire sempre e comunque una condicio sine qua non per il riconoscimento della protezione umanitaria. Non ve ne sarebbe ragione, ad esempio, nel caso in cui la vulnerabilità individuale sia data da gravi condizioni di salute e dunque dalla necessità di cure non accessibili nel Paese di origine. Essa invece costituisce elemento di comparazione quando la vulnerabilità oggetto di valutazione ai fini della protezione umanitaria sia costituita dalla previsione che l'eventuale ritorno nel Paese di origine non abbia serie possibilità di una effettiva reintegrazione nel tessuto sociale e dunque contrasti con il rispetto della dignità del vivere cui l'ordinamento italiano è tenuto ai sensi dell'art.5, co.6, d.lgs n.286 del 1998, non in modo inderogabile, come invece è nei casi più gravi ascrivibili al divieto di cui all'art. 3 Cedu, ma secondo una tecnica di bilanciamento simile a quella operata in applicazione dell'art. 8 Cedu[22].

Il ragionamento svolto dalla Corte riguarda l'intero ambito di applicazione dell'art.5, co.6, d.lgs n.286 del 1998. Ed infatti la sua legittimazione in rapporto al diritto dell'Unione europea viene ricondotta, oltre che all'art. 3 della Direttiva n. 95 del 2011, all'art. 6, par. 4, della Direttiva rimpatri, n.115 del 2008, ove si prevede che gli Stati possano rilasciare «per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», un permesso di soggiorno o comunque un'autorizzazione al soggiorno a un cittadino di una Paese terzo il cui soggiorno è irregolare.

Il Supremo collegio ha dunque ben chiara l'atipicità delle fattispecie riconducibili all'art. 5, co. 6, osservando che i «seri motivi» di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali «costituiscono un catalogo aperto, pur essendo tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un'esigenza qualificabile come umanitaria».

Due gli obiettivi perseguiti (e a mio avviso centrati) dal supremo Collegio: la riconduzione ad unità delle pur variegate fattispecie di attribuzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari su richiesta dell'interessato; e la valorizzazione, nei corretti termini della comparazione con la situazione oggettiva e soggettiva nel Paese di origine, dell'integrazione sociale dell'interessato.

Viene così colta e sistematizzata l'inquietudine degli interpreti, sin qui divisi tra coloro che avvertivano l'esigenza di valutare le attitudini soggettive e gli stili di vita dei richiedenti (col timore, peraltro, di farne un criterio meritocratico incongruo rispetto all'oggetto del giudizio) e coloro che invece ritenevano il comportamento dello straniero soggiornante nel nostro Paese del tutto irrilevante ai fini della valutazione dei seri motivi umanitari che ne impediscano il rimpatrio a causa della situazione che egli si troverebbe a vivere nel Paese di origine.

Resta tuttavia da capire più in profondità come misurare l'integrazione sociale e con quali modalità e connessioni valorizzarla nel procedimento per l'attribuzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, evitando valutazioni stereotipate là dove, invece, occorre sia differenziare tra loro una molteplicità di situazioni già in astratto diverse, sia procedere, tenendo conto dell'appartenenza a ciascuna di queste situazioni, all'ascolto individuale; ascolto obiettivamente non incoraggiato dalle recenti riforme del procedimento in materia di immigrazione e asilo.

Dovrebbe in particolare essere valutato l'impegno soggettivo all'integrazione assai più del solo dato oggettivo, pur sintomatico, del rapporto di lavoro in essere, esito di occasioni meritoriamente colte ma non necessariamente presentatesi.

Invero la funzionalità e l'equità dei parametri di integrazione sociale dipendono, specie per i nuovi arrivati, dal modo con cui verranno gestite molte variabili: la qualità e persino la semplice onestà dell'accoglienza ricevuta, talvolta indignitosa e destrutturante; il luogo di residenza; la possibilità di accedere a corsi di lingua e di formazione professionale; il livello di istruzione; l'età; l'universo linguistico e culturale di provenienza; e via dicendo.

Un'opportuna riflessione su questo potrebbe essere utile, del resto, anche per rivedere finalmente i rudimentali standard legali del mantenimento della regolarità del soggiorno. Alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi umanitari infatti può talvolta accadere che il suo titolare sia riuscito solo a raccogliere pomodori, in nero o per un troppo breve periodo. Ma le domande più interessanti potrebbero essere altre: se egli abbia studiato oppure no la lingua del Paese che gli ha dato protezione; in quali modi è comunque riuscito a sopravvivere; e quindi qual è la qualità delle sue reti e relazioni sociali.

Le relazioni di aiuto, dato e ricevuto, infatti dicono molto di una persona e del suo impegno ad integrarsi ed è stupefacente che nella società del lavoro segmentato e provvisorio la capacità di relazione sociale (sapere aiutare e sapere farsi aiutare) venga sottovalutata.

In una prospettiva dinamica e proiettata negli anni a venire l'impiego potrà essere perso e magari più volte ritrovato, ma ciò che rende affidabile la persona ben più del rapporto di lavoro (fatto certamente positivo, ma non sempre socializzante) è la sua disponibilità a relazionarsi inserendosi pur con le sue fragilità nel contesto in cui è accolto e nel quale il rendersi utile, così come il cercare impiego è assai più doveroso che trovarlo.

[1] Su cui: M. Sossai, Canali di ingresso legale e sicuro dei migranti in Europa: il modello dei "corridoi umanitari", in U. Curi, Vergogna ed esclusione. L'Europa di fronte alla sfida dell'emigrazione, Roma, Castelvecchi ed.,2017, p.75 ss.; P. Morozzo della Rocca, I due protocolli d'intesa sui "corridoi umanitari" tra alcuni enti di ispirazione religiosa ed il Governo ed il loro possibile impatto sulle politiche di asilo e immigrazione, in Dir.imm.citt., 2017, 1, pp. 1 ss.; C. Favilli, Visti umanitari e protezione internazionale. Così vicini così lontani, in Dir. umani e dir. int., 2017, pp. 553 ss.

[2] Sul punto, C. Wihtol de Wenden, Le nuove migrazioni, Bologna, Pàtron ed., 2016, pp.88 ss.

[3] Su cui V. Marengoni, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Dir.imm.citt., 2012, 4, pp.64 ss.

[4] L'uno di durata biennale, l'altro invece annuale.

[5] Così N. Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Dir.imm.citt., 2018, 1, p. 8 (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/saggi/208-la-protezione-umanitaria-nel-sistema-giuridico-italiano). Ed è questo anche il condivisibile orientamento della giurisprudenza. Vedi infatti Cass., sez.un., 9 settembre 2009, n.19393.

[6] Ne riferisce V. Marengoni, op.cit., nt. 50.

[7] P. Bonetti, Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Dir, imm.citt., 2008, 1, p.13.

[8] Cfr. Cass. 26 giugno 2012, n. 10686.

[9] Spunti interessanti in M. Benvenuti, Andata e ritorno per il diritto di asilo costituzionale, in Dir.imm.citt., 2010, 2, p. 55 e N. Zorzella, op.cit., pp.30 ss., su di esse incombe però, dall'esterno e su ben altra base normativa, Corte giustizia Ue, grande sezione, 7 marzo 2017 n. 638, che ha negato consistenza di diritto soggettivo alle richieste di visto per motivi umanitari.

[10] Scettica sulla riportata affermazione è anche N. Zorzella, op.cit., in Dir.imm.citt., 2018, 1, p.28.

[11] Così P. Bonetti, op.cit., p. 21.

[12] Come invece ritenuto dal Supremo collegio a partire da Cass. 25 novembre 2005 n. 25028.

[13] L'espressione è tratta da E. Pistoia, Il posto di Caino. Limiti all'accoglienza nell'Ue degli stranieri colpevoli di reati, in G. Caggiano, I percorsi giuridici dell'integrazione, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 729 ss.

[14] Corte europea dir.uomo, 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia.

[15] Così Trib. Catania, 4 novembre 2016, in Dir.imm.citt., 2017, 2 Rassegna di giurisprudenza; Trib. Catania, 26 aprile 2017, in Dir.imm.citt., 2018, 1, Rassegna di giurisprudenza.

[16] Cfr., tra gli altri, Trib. Bologna, 9 maggio 2017, in Dir.imm.citt., 2017, 2; Trib. Genova, 6 dicembre 2017, in Dir.imm.citt., 2018, 1, Rassegna di giurisprudenza. In senso diverso sembra però Cass. 6 febbraio 2018, n. 2861.

[17] Cfr., ad esempio, Trib. Bologna, 29 maggio 2017, in Dir.imm.citt., 2017, 2, Rassegna di giurisprudenza.

[18] Sul punto le esemplificazioni proposte da A. Brambilla, Migrazioni indotte da cause ambientali: quale tutela nell'ambito dell'ordinamento giuridico europeo e nazionale?, in Dir.imm.citt., 2017, 2, spec. pp.23 ss.

[19] Cfr. F. Lenzerini, Asilo e diritti umani. L'evoluzione del diritto d'silo nel diritto internazionale, Milano, Giuffré, 2009, pp. 558 ss.

[20] Ministero dell’interno - Commissione nazionale per il diritto di asilo Circolare prot. 00003716 del 30.7.2015 Oggetto: Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

[21] Si pensi, ad esempio, ad una situazione di pericolo sanitario.

[22] Sul punto C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, in questa Rivista on line, http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-per-motivi-di-integrazion_14-03-2018.php.