Magistratura democratica

L’audizione del richiedente asilo dinanzi al giudice: la lingua del diritto oltre i criteri di sintesi e chiarezza

di Luciana Breggia

Nel 2016, il numero di chi richiede asilo e protezione internazionale ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio, 123.600 (il 47% in più rispetto all’anno precedente). Nel 2017 le domande sono ulteriormente aumentate a 130.119. La richiesta di asilo è oggi la principale modalità di ingresso in Italia. Di fronte a questo scenario, cambia il modo di considerare la narrazione di chi richiede la protezione internazionale: i numeri sovvertono la fiducia e la tramutano in sospetto; l’audizione, da strumento fondamentale di cooperazione di chi deve decidere, rischia di concentrarsi sull’ investigazione sulla temuta menzogna. O addirittura di essere eliminata, a favore di un sistema cartolare e seriale in cui il giudice non incontra più il ricorrente e nemmeno il suo difensore. Una giustizia di valore minore per diritti fondamentali di persone vulnerabili. Gli antidoti a questa inaccettabile e incostituzionale conclusione sono tuttavia nelle possibilità di tutti gli operatori coinvolti, compresi giudici e difensori.

Premessa

Mi pare utile iniziare queste riflessioni esponendo la visione di base su cui si fondano, frutto anche della mia esperienza nel movimento degli Osservatori sulla giustizia civile.

Ritengo, infatti, che il settore della protezione internazionale non sia diverso da quello della giustizia ordinaria quanto al ruolo del giudice, ai rapporti con i difensori e con le persone. Certamente presenta delle differenze specifiche per la complessità dell’incontro, la formazione specializzata, ma non per metodi e valori di fondo. Anzi, come si dirà meglio in seguito, tanti temi elaborati dagli Osservatori, e da chi è impegnato nell’elaborazione di buone prassi per il processo civile, trovano nella protezione internazionale una preziosa cartina di tornasole. Mi pare utile, quindi, collocare l’audizione di chi richiede asilo nella più vasta ricerca che da tempo si è avviata sulla lingua del diritto, parlata e scritta. L’argomento è da lungo tempo arato dagli Osservatori sulla giustizia civile, che sin dal 2004 iniziarono ad approfondire i temi del linguaggio del diritto e del raccordo tra atti difensivi e provvedimenti[1]. È utile partire di qui per focalizzare alcune questioni centrali per lo specifico argomento da trattare.

1. La lingua del diritto e la sfida transculturale

L'attuale, intensa attenzione al linguaggio dei provvedimenti giudiziari[2] non risponde ad una semplice e indifferibile esigenza di ecologia linguistica, indispensabile anche per la funzione di regolazione del caso concreto, ma è strettamente collegata alla funzione normativa che la giurisprudenza svolge sempre in modo più intenso. L’effettività delle tutele, richiesta da fonti sovranazionali (art. 47 Carta di Nizza, artt. 6 e 13 Cedu), e qualificata dalla Corte di cassazione regola cardine dell’ordinamento costituzionale, volto ad assicurare il diritto «ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato» (Cass. n. 21255/2013; Cass. n. 11564/2015), conduce al tema del diritto giurisprudenziale e della prevedibilità delle decisioni[3]. Come conciliare, nel mutato assetto delle fonti del diritto, la funzione inevitabilmente inventiva[4] dei giuristi con la possibilità di conoscere in anticipo la regola delle nostre condotte? Una nuova figura di certezza, intesa come ragionevole prevedibilità, s’incentra sulla riscoperta dell'argomentazione giuridica che rende trasparente e quindi controllabile la giustificazione delle decisioni[5] e consente una cultura del precedente. Sono le nuove figure di certezza dell’esperienza giuridica odierna[6].

Ecco che allora l'analisi del linguaggio dei giudici acquista nuova dignità nel momento in cui si valorizza l'argomentazione giuridica, perché questa non può avere le caratteristiche del linguaggio rigoroso proprie di un sistema chiuso e coerente di enunciati. L'argomentazione è allora parte del comando giuridico perché il bilanciamento dei principi (costituzionali o sovranazionali) consta proprio di argomenti: chiarezza e sinteticità sono espressione dell'appartenenza delle sentenze al genus normativo: allo stesso modo della fattispecie legale, anche la sentenza non deve contenere nulla di più e nulla di meno di quanto necessario per adempiere la sua funzione normativa[7].

Questo non riguarda solo i giudici: la parola del diritto è frutto della collaborazione di giudici e avvocati, se si opta per un modello di processo condotto con il metodo orale e concentrato, dove si filtri il materiale processuale sin dall’inizio. E tanto più la certezza diviene un processo e non è più un dato oggettivo[8], tanto più la formazione della regola del caso concreto, che è compito interno del processo, deve essere frutto della cooperazione di giudici e avvocati. Cooperazione che si manifesta nel dialogo processuale, sia attraverso il colloquio orale in udienza, sia nel raccordo tra atti difensivi e provvedimenti scritti, concepiti come moduli intelligenti, volti ad esaltare la funzione dialogica degli scritti – tenendo conto delle modalità telematiche di comunicazione – e non a deprimere le facoltà espressive in nome di una brevità meccanica.

Questo approdo degli Osservatori, e di chi condivide tali riflessioni anche oltre il loro circuito, vale ancor più per la giurisdizione specializzata di cui ci occupiamo, dove i profili a cui abbiamo accennato risultano esaltati. Uno dei settori dove più si nota la divaricazione tra giurisprudenza che elabora regole rispetto a quella che produce soluzione di conflitti è costituito proprio dai problemi connessi ai flussi migratori: nell'applicazione delle norme che riguardano i migranti le Corti sono investite di compiti di creazione del diritto e orientamento sociale più che di soluzione del conflitto. La legge stabilisce spesso direttive e princìpi, ma la norma effettiva si crea a livello giudiziario, amministrativo, sociale (tanto che si rileva da più parti un pericolo di amministrativizzazione della libertà personale).

In un commento alla pronuncia della Corte di assise di Parigi in uno dei primi processi sull'escissione delle donne africane si è giustamente sottolineato come sotto accusa, più che l'imputata, era l'escissione in sé. Il processo era all'escissione[9].

Basti pensare poi al concetto di «positivi segnali di integrazione» utilizzato dalle Commissioni per i rifugiati e dai Tribunali. Un concetto non definito dalla normativa che secondo alcuni può dar vita a valutazioni arbitrarie[10].

Di recente, a questo riguardo, va ricordata l’importante sentenza della Corte di cassazione n. 4455 del 2018, che ripercorre il quadro normativo in tema di protezione per «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» e afferma che il riconoscimento di tale tipo di protezione «al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d'integrazione sociale nel nostro Paese, non può escludere l'esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza».

Senza entrare nel merito della decisione, è utile sottolineare sin d’ora che il complesso compito di bilanciamento della vulnerabilità dei ricorrente nel nostro paese e nel paese di origine rende ancora più rilevante e necessaria l’audizione del richiedente asilo, anche in considerazione del fatto che, da un lato, gli elementi ritenuti rilevanti possono mutare sino al momento della decisione e, dall’altro, il ricorrente ha il diritto di confrontarsi con l’eventuale valutazione negativa del giudice sino alla fine del procedimento anche per far valere nuovi elementi.

Tutte le riflessioni in tema di linguaggio giuridico mantengono, dunque, la loro validità anche per il settore di cui ci occupiamo oggi: rispetto dei criteri di sintesi e chiarezza, proporzione tra questioni da trattare e contenuto degli atti difensivi e dei provvedimenti sono quanto mai importanti anche nel settore della protezione internazionale: ad esempio, è stato notato come spesso i provvedimenti dei giudici sono ricchissimi di richiami estesi alla giurisprudenza e alla normativa, ma hanno passaggi veloci sul motivo del rigetto, incentrato su apodittiche asserzioni in ordine alla non credibilità del richiedente nel caso concreto. Ancora va sottolineato come dalla qualità dei ricorsi dipenda anche la qualità dell’audizione. L’elaborazione di moduli per i ricorsi e per i provvedimenti del giudice secondo i criteri delle Linee guida ricordate (v. nota 1), è dunque un passaggio indifferibile. Ma occorre andare oltre.

2. La fattualità del diritto

L’attenzione al linguaggio è collegata anche alla riscoperta della fattualità del diritto, avvenuta sotto la spinta del diritto europeo che, cito Paolo Grossi, «cola fattualità da tutti i pori»[11]: il diritto non è solo comando formale, diritto disincarnato – come rileva Paolo Grossi – separato dalla dimensione sociale. Occorre un uso appropriato delle parole che veicolano i contenuti fattuali delle fattispecie giuridiche, e occorre un uso appropriato del linguaggio per scavare nei fatti che stanno fuori e al di là della fattispecie e che consentono di individuare rimedi effettivi per la lesione di interessi non specificamente espressi nella norma, per l’interpretazione di clausole generali e princìpi. La lingua, è stato detto, è la casa dei fatti[12]. Ma cosa succede quando questi fatti riguardano culture diverse e lontane da quelle di chi deve decidere? La lingua rappresenta un modo di pensare e un mondo intero. Ecco dunque la difficoltà tipica del settore sulla protezione internazionale (ma in realtà concernente anche altri campi: basti pensare ad un contratto tra italiani e cinesi) che chiama in ballo l’opera degli interpreti. Non mi soffermo ora sulle carenze del sistema dell’interpretariato, gravissima lacuna nel settore, ma mi limito a sottolineare la grande cautela con cui si devono esaminare storie raccontate in una lingua diversa da quella del luogo in cui sono nate, con tutti i rischi di alterazione e corruzione dei significati (v. oltre).

3. Il diritto di comprendere e di essere compresi

La fattualità del diritto, la ri-centratura della giustizia intorno alle persone, l’aumento crescente dei flussi migratori, hanno conseguenze ulteriori sul linguaggio. Se le persone diventano destinatarie delle parole delle professioni forensi, viene alla ribalta anche il linguaggio parlato, che assume una particolare valenza in alcuni momenti: lo abbiamo già detto in altre sedi per la giurisdizione ordinaria a proposito del colloquio tra difensore e assistito, del tentativo di conciliazione del giudice, del dialogo che precede l’invio in mediazione. Qui il linguaggio deve necessariamente essere sfrondato non solo di inutili tecnicismi, ma anche, per quanto possibile, di espressioni tecniche che vanno tradotte in volgare.

La formazione sul linguaggio, in sostanza, non riguarda solo gli scritti, non persegue solo il lodevole tentativo di razionalizzare il colloquio processuale, ma introduce un tema cruciale per i sistemi giudiziali e non giudiziali di soluzione dei conflitti che è quello della comunicazione: diritto di comprendere e di essere compresi: è il titolo della rubrica dell'art. 3 della Direttiva 2012/29/Ue sulla tutela delle vittime di reato, che detta le misure da adottare per informazioni e sostegno alle vittime.

Questo è il perno di un processo di democratizzazione del sapere giuridico che si sta svolgendo e deve essere alimentato perché ormai siamo consapevoli che la giustizia non abita solo le aule giudiziarie (anzi …), ma ricerca sedi diverse e a volte più adeguate (basti pensare alle cd. adr –alternative dispute resolution - o al settore dei servizi) ed esige la responsabilizzazione - e quindi la informazione e la formazione - di coloro che la invocano. Occorrono percorsi multipli di alfabetizzazione linguistico-giudiziaria, in vista di un innalzamento e di una redistribuzione delle competenze necessarie ad avvicinare l’istituzione della giustiziae l’utente, a favore del quale essa stessa è rivolta.

Quando l’utente è un richiedente asilo, questa esigenza, che, ripeto, attraversa tutto il settore della giustizia civile, è particolarmente scottante.

4. L’audizione del richiedente asilo

Nuove frontiere su questi temi si aprono, infatti, proprio con riferimento al colloquio con le persone che richiedono asilo: qui, oltre ad elementi giuridici e linguistici, si aggiungono profili etnici, psicologici e antropologici che rendono il colloquio estremamente complesso e difficile da svolgere senza adeguata preparazione[13].

Dobbiamo premettere che il colloquio si colloca nell’ambito del dovere di cooperazione del giudice e del principio di attenuazione dell’onere della prova che domina questo settore per l’esame e l’accertamento giudiziale delle domande (art. 3 d.lgs n.251/2007 e art. 8 d.lgs n. 25/2008; Cass. 8282 del 2013: questi temi saranno trattati ampiamente in altro contributo)[14].

Il quadro normativo prevede un esame riservato, individuale, obiettivo ed imparziale (artt. 8, co. 2, d.lgs 28.1.2008, n. 25, e 6, co. 3, dPR 12.1.2015, n. 21), incentrato sulle circostanze personali del richiedente (art. 3, co. 3, lett. a) e c) d.lgs 19.11.2007, 251) e sull’eventuale documentazione presentata, nonché su tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al momento dell’adozione della decisione.

L’ art. 3 comma 5 del d.lgs n. 251 del 2007, vera “regola di giudizio” nel procedimento di protezione, prevede che «Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che:

a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo(il legislatore dell’Unione europea utilizza l’espressione «sinceri sforzi» (art. 4, par. 5, lett. a), dir. 2011/95/Ue del 13.12.2011), il cui significato è sensibilmente diverso) per circostanziare la domanda;

b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone;

d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla[15];

e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile. Nel valutare l’attendibilità del minore, si tiene conto anche del suo grado di maturità e di sviluppo personale»[16].

Il giudizio di credibilità si articola dunque in una fase intrinseca, destinata a verificare la logicità e l’assenza di contraddizioni nel racconto, e una fase estrinseca, costituita dalla verifica della coerenza delle dichiarazioni con le informazioni «precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo»[17], le cd. Country of Origin Information (Coi)[18].

Se alla luce degli indicatori di genuinità soggettiva di cui all’art. 3, le dichiarazioni appaiono attendibili, il giudice deve svolgere un ruolo istruttorio integrativo, ad esempio acquisendo «anche d’ufficio le informazioni relative alla situazione del Paese di origine e alla specifica condizione del richiedente» per integrare il quadro probatorio prospettato dal medesimo (art. 27, co 1 bis d.lgs 28.9.2008, n. 25)[19].

Si delinea, dunque, un sistema imperniato sulla collaborazione tra richiedente ed esaminatore, riflesso del dovere di cooperazione dello Stato membro interessato che, nota la Corte di giustizia, riveste una «posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati tipi di documenti» (Corte giust. 2211/2012 nella causa C-277/2011, paragrafo 66). Anche la giurisprudenza interna ha ribadito che l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti fanno carico congiuntamente all’esaminatore e al richiedente (attraverso «un chiaro rivolgimento delle regole ordinarie sull’onere probatorio»: Cass. sez. un. 17.11.2008, n. 27310). Qualora poi le informazioni sul Paese di origine reperite dal giudice contrastino con le dichiarazioni del richiedente, si dovrà «dare conto delle fonti e della loro datazione»[20].

In sostanza, la regola di giudizio applicabile ai procedimenti di protezione internazionale, desumibile dalle fonti citate, è in dubio pro actore[21].

Giustamente si è rilevato come il dovere di cooperazione del giudice si collega alla necessità di fornire quella tutela effettiva di cui parlavamo all’inizio[22]. Con riferimento alla materia della protezione internazionale, il principio è affermato anche dall’articolo 46 par. 1 della Direttiva 2013/32/Ue che prevede che gli Stati membri sono tenuti a disporre che il richiedente abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice nei casi elencati in tale disposizione e, in particolare alla lett. a), punto i), ossia avverso la decisione di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria. In base al paragrafo 3, inoltre, gli Stati membri devono assicurare che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/Ue, quanto meno nei procedimenti di impugnazione del diniego dinanzi al giudice di primo grado.

Il diritto a un ricorso effettivo incide sul dovere di cooperazione del giudice e sulla necessità di disporre l’audizione del ricorrente, che è il momento centrale in cui tale dovere può adempiersi.

Spesso infatti le audizioni nella fase amministrativa, svolta tra l’altro senza difesa tecnica, sono incomplete, a volte seriali, nel dispiegarsi di domande che prescindono dalle risposte, frutto delle difficoltà in cui le Commissioni si trovano a lavorare, a cominciare dai ritmi di lavoro insostenibili. Inoltre, spesso i dinieghi della Commissione sono basati su elementi sui quali il ricorrente non è stato messo in grado di prendere posizione. Ancora, si consideri che la valutazione del giudice e la stessa audizione hanno luogo dopo molto tempo rispetto all’ intervista in Commissione a causa dell’arretrato delle Commissioni stesse. Pertanto è necessario un aggiornamento della cognizione, che, anche in considerazione della complessa valutazione imposta da Cass. n. 4455 del 2018 (vedi, in particolare, il punto 6 della decisione), già citata, molto spesso richiede l’audizione diretta da parte del giudice (pena la cassazione della decisione ex art. 360 cpc: Cass. n. 7333/2015).

Non sono infrequenti i casi, in cui, in sede di audizione davanti al giudice, sono emerse situazioni gravissime (ad esempio: stato di schiavitù, tratta a fini di sfruttamento) che non erano state evidenziate nella fase amministrativa e nemmeno nel ricorso del difensore. Da ultimo, non mi pare privo di rilevanza il fatto che la Commissione sia parte del giudizio e il ricorso sia concepito come una sorta di impugnazione del diniego, a partire dal termine per la presentazione del ricorso, ridottissimo rispetto alla complessità della fattispecie e delle fonti di prova[23]: anche questo induce, nella maggior parte dei casi, ad ascoltare le ragioni di chi si presenta come impugnante, anche attraverso un colloquio diretto con il richiedente asilo. Non può infatti negarsi che la richiesta di audizione personale sia uno dei mezzi istruttori, di fatto il principale, previsto dalla legge. Il richiedente non è in possesso di fonti documentali o testimoniali e non può che fondare la domanda sulle proprie dichiarazioni. Come fonte di prova, va collocata tra le prove costituende: la natura di queste è tale da esigerne la formazione solo davanti al giudice. Naturalmente, come tutte le fonti di prova, può essere inammissibile o irrilevante. E, una volta superato il primo vaglio (quello d’inammissibilità) occorrerà valutare se l’audizione possa esser ritenuta irrilevante, al di fuori dei casi tipici di domanda inammissibile (ad esempio per tardività del ricorso) o domanda altrimenti già provata.

La specificità del giudizio di rilevanza dell’audizione merita approfondimento: perché l’audizione ha lo scopo di verificare la coerenza del racconto, la sua plausibilità, la sua completezza ed esaustività, al fine di consentire l’accertamento dei fatti dichiarati, in quanto non provati diversamente È dunque difficile che il giudice si possa sottrarre dal compito di verificare la coerenza e plausibilità del racconto senza un confronto diretto con la fonte delle dichiarazioni.

L’esperienza dei giudici dimostra che molte delle presunte incoerenze vengono spiegate, chiarite, smentite grazie all’audizione del richiedente.

Inoltre, come per la tutela di altri diritti di tale rilievo, appare ineliminabile il contributo della difesa tecnica anche in questa fase. Sottrarre la fonte di prova principale all’assistenza del difensore (come avviene, quando l’intervista da parte della Commissione non è seguita dall’audizione del giudice) può rappresentare dunque una lesione rilevante del diritto di difesa.

Questo è l’approdo cui dovrebbe pervenirsi nel quadro normativo originario, ancora applicabile a migliaia di ricorsi introdotti prima del 18 agosto 2018 e pendenti davanti a Tribunali, Corti d’appello e Corte di cassazione.

Ed a maggior ragione dovrebbe essere l’esito della interpretazione del nuovo regime processuale che ha persino sottratto a chi richiede asilo la possibilità di un secondo giudizio di merito.

5. Il nuovo quadro normativo: il decreto legge n. 13 del 2017

Una forma fondamentale di cooperazione si situa, come si è detto, nel colloquio con chi richiede la protezione internazionale. Tuttavia il recente decreto legge n. 13 del 2017[24] sembra considerare solo eventuale l’udienza in primo grado e l’audizione personale.

Quest’ultima in particolare sembra un’eccezione rispetto al mezzo di prova principale costituito dalla videoregistrazione con mezzi audiovisivi del colloquio, che poi è trascritto in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale (art. 14 novellato del d.lgs n. 25/2008).

L’ art. 35 bis co. 10 e 11 del d.lgs n. 25/2008, prevede quanto segue: « 10. È fissata udienza per la comparizione delle parti esclusivamente quando il giudice: a) visionata la videoregistrazione di cui al comma 8, ritiene necessario disporre l'audizione dell'interessato; b) ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; c) dispone consulenza tecnica ovvero, anche d'ufficio, l'assunzione di mezzi di prova.

11. L'udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è disponibile; b) l'interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l'impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado».

Le ipotesi dell’art. 35 bis, comma 11, lettere a e c sono obbligatorie, mentre tutte le altre sono facoltative.

Attualmente va ricordato che non sono disponibili gli strumenti per le video conferenze, pertanto l’udienza sembra obbligatoria ex lege (art. 35 bis, comma 11, lett. a). Questo approdo interpretativo, apparentemente pacifico, è messo in discussione da alcune pronunce che meritano un esame più approfondito (vedi oltre al paragrafo 6).

Tuttavia, prima di procedere nelle riflessioni, non ci si può esimere dal rilevare la sproporzione di risorse che vengono destinate alla protezione internazionale con l’auspicata eliminazione dell’audizione, il rito camerale (il giudice può non incontrare mai nemmeno il difensore) e l’eliminazione dell’appello: si tratta di diritti fondamentali che vedono una quota minima di giurisdizione loro dedicata rispetto a quella prevista, ad esempio, ad un semplice litigio tra vicini in riferimento a fioriere poste in violazione della distanza legale (con il triplice grado sul diritto reale e la tutela anticipata del possesso con fasi cautelari, reclami e triplice grado di giurisdizione). Il modello di processo scritto, ipotizzato dal legislatore del 2017, è inoltre in contrasto con l’essenza dei procedimenti di protezione internazionale, nei quali assume decisiva rilevanza la descrizione dei fatti e delle circostanze raccontate dal ricorrente, la valutazione di credibilità, l’attenuazione dell’onere della prova e l’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice con il richiedente. Senza contare la necessità di fissare comunque udienza per sottoporre alla regola del contraddittorio le Coi che sono state ignorate dalle parti o dalla Ct e sono state acquisite d’ufficio dal giudice.

Secondo alcuni [25], un sospetto di incostituzionalità dell’art. 35 bis, commi 10 e 11, cit., per contrasto con l’art. 117 Cost., sotto il profilo della violazione della norma interposta di cui all’art. 6 Cedu (ossia del diritto all’udienza, di regola pubblica), non sarebbe prospettabile, poiché le nuove disposizioni non vietano – anzi espressamente ammettono – la convocazione dell’udienza tutte le volte, in sostanza, che sia necessario (conformemente alla giurisprudenza Cedu[26]) e ammette la stessa rinnovazione, ove necessario, dell’audizione del richiedente anche da parte del tribunale. Secondo tale orientamento, il problema di compatibilità della nuova procedura con la norma convenzionale, si sposterebbe dal piano della norma astratta a quello della sua applicazione in concreto da parte del giudice. La giurisprudenza Cedu al riguardo, infatti, «riferisce la compatibilità con l’art. 6 della Convenzione non alle norme, bensì alle fattispecie concrete, ossia ai singoli processi, che in tanto sono considerati rispettosi del diritto all’udienza pur in mancanza della celebrazione di questa, in quanto effettivamente quella concreta causa consenta una decisione sulla base dei documenti e delle osservazioni scritte delle parti; altrimenti l’art. 6 è violato».

Anche la Corte di giustizia, pronunciatasi in sede di rinvio pregiudiziale in una controversia soggetta al cd. vecchio rito – con la sentenza del 27.7.2017, nella causa C-348/16, Moussa Sacko contro Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano –, ha in sostanza rimesso alla discrezionalità del giudice di valutare la necessità di procedere all'audizione del richiedente, necessità che deve essere valutata alla luce del suo obbligo di procedere all'esame completo ed ex nunc contemplato all'articolo 46, paragrafo 3, della Direttiva 2013/32/Ue, ai fini della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti e degli interessi del richiedente.

Gli articoli 12, 14, 31 e 46 della Direttiva 2013/32/Ue vanno letti, afferma la Corte, alla luce dell'articolo 47 della Carta.

A questo punto, se alla luce della nuova normativa e della giurisprudenza ricordata della Cedu e della Corte di giustizia europea, il giudice ha una discrezionalità così ampia nel disporre l’udienza e l’audizione personale del ricorrente, non è inutile cercare di estrapolare dei criteri che orientino tale discrezionalità, affinché non divenga arbitrio e sia invece rispettosa del criterio di effettività.

In tale prospettiva si è sottolineato[27] come «l’art. 4, §3, Direttiva qualifiche, prescrive che l’esame della domanda di protezione – effettuato su base individuale – si basa sulle dichiarazioni del richiedente (in particolare, sulla sua situazione individuale e sulle circostanze personali addotte), e pure il successivo § 5 , in punto valutazione di credibilità del dichiarante, è tutto incentrato su una valutazione in termini assolutamente soggettivi, quando le sue dichiarazioni non siano suffragate da prove documentali o di altro genere. Parrebbe pertanto evidente che l’art. 46 Direttiva procedure, al fine di ottemperare agli obblighi dell’art. 4 Direttiva qualifiche, debba essere interpretato nel senso di garantire sempre l’ascolto del richiedente da parte del giudice di primo grado».

È fondamentale dunque che le prassi si orientino nel fissare l’udienza e disporre di regola l’audizione – salvo eccezioni – per assicurare la compatibilità del nuovo sistema con il principio di tutela effettiva di cui all’art. 47 della Carta di Nizza, art. 46 Direttiva 2013/32/Ue e art. 6 e 13 Cedu nell’ambito di un’interpretazione eurounitariamente orientata[28].

Le pronunce dei giudici di merito, del resto, sono la prova lampante di quanto l’audizione diretta da parte del giudice possa rovesciare il risultato cui pervengono le Commissioni territoriali in ordine alla scarsa credibilità del ricorrente. In moltissime decisioni dei giudici[29] si ribalta il giudizio di non credibilità formulato dalla Commissione territoriale e si evidenzia come l’audizione abbia chiarito molti aspetti del racconto del ricorrente, attraverso risposte specifiche e dettagliate. L’ulteriore audizione ad opera del giudice può risultare assolutamente indispensabile al fine di valutare il racconto e la credibilità del ricorrente, fornendo al giudice l’opportunità per integrare, conoscere, verificare, e sentire personalmente quanto riferito dal ricorrente davanti alla Commissione territoriale.

Peraltro, la Corte di cassazione è stata investita di numerose eccezioni di incostituzionalità con il ricorso che è stato proposto contro il decreto del Tribunale di Napoli del 10 ottobre/8 novembre 2017 (su cui vedi oltre). Si è in attesa, dunque, della decisione da parte della Corte, che dovrebbe pronunciarsi a breve.

6. Alcune recenti ordinanze in tema di audizione

Di recente, alcuni Tribunali hanno affrontato il problema dell’applicabilità dell’articolo 35 bis comma 11 del d.lgs n. 25/2008 , il quale prevede «11. L'udienza è altresì disposta quando ricorra almeno una delle seguenti ipotesi: a) la videoregistrazione non è' disponibile; b) l'interessato ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice, sulla base delle motivazioni esposte dal ricorrente, ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione; c) l'impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado».

Attualmente, le videoregistrazioni non sono disponibili e le commissioni continuano a verbalizzare le audizioni. Si ritiene, pertanto, che, in applicazione, della norma citata debba essere sempre disposta l’audizione, orientamento seguito dal Tribunale di Bologna, di Brescia, di Cagliari, di Firenze, di Genova, di Roma, di Salerno, di Trieste, con l’unica eccezione che vi siano già i presupposti per concedere l’asilo politico o la protezione sussidiaria, o di inammissibilità per tardività del ricorso.

In altri tribunali, sono state, invece, emesse pronunce secondo cui l’audizione non sarebbe comunque necessaria.

Gli orientamenti emersi in tal senso si basano su un’interpretazione restrittiva dell’ambito di applicabilità dell’articolo 35 bis comma 11, per affermare l’assenza di un obbligo di fissazione di udienza, pur in mancanza di videoregistrazione.

Il Tribunale di Napoli (decreto del 20.10.2017) respinge la richiesta di fissazione dell’udienza, ritenendo inesistente un obbligo in tal senso ai sensi dell’art. 35 bis, commi 10 e 11 citati. Il Tribunale, riguardo al comma 11 di tale articolo, interpreta estensivamente la nozione di “videoregistrazione”, equiparando tale termine a quello di “verbale” e suffragando tale interpretazione sulla base dell’articolo 14 comma 7 del medesimo decreto, secondo cui «quando il colloquio non può essere registrato, per motivi tecnici, dell’audizione è redatto verbale sottoscritto dal richiedente e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del presente articolo». Essendo i termini “verbale” e “videoregistrazione” totalmente equiparabili, non esisterebbe vulnus per la difesa del ricorrente potendosi esaminare la sua posizione attraverso un esame documentale adeguato e completo.

Sempre il Tribunale di Napoli, in data 30.10.2017 (deposito 8 novembre 2017), rigetta analoga richiesta di fissazione di udienza e di audizione del soggetto ricorrente, rilevando che il ricorso non presenta elementi di fatto diversi da quelli già dedotti innanzi alla commissione territoriale. Non affronta espressamente la questione dell’art. 35 bis, comma 11, lett. a).

Dello stesso avviso è il Tribunale di Torino, il quale, con decreto del 28.11.2017 dichiara non necessaria l’audizione del ricorrente in quanto l’art. 35 bis, comma 11, lett. a) deve essere letto nel senso che il giudice deve fissare udienza qualora non siano disponibili «o la videoregistrazione o il verbale dell’audizione, mentre qualora siano agli atti o l’una o l’altro non troverà applicazione la disposizione» in esame, e il Collegio dovrà valutare la sussistenza delle altre ipotesi previste dall’art. 35 bis, commi 10 e 11.

Di conseguenza, il colloquio andrebbe disposto in assenza di verbale o videoregistrazione o in casi nei quali il materiale cartaceo non contenga elementi sufficienti per la decisione.

In questa stessa prospettiva si pone anche il Tribunale di Milano con due recenti decreti del 17.1.2018 e del 20.2.2018. Il Tribunale di Milano, in sostanza, rigetta la richiesta di fissazione dell’udienza avanzata dal difensore del ricorrente e la conseguente possibilità di audizione in quanto dai commi 10 e 11 dell’art. 35 bis, non potrebbe ricavarsi l’automatismo tra mancanza di videoregistrazione e necessità indefettibile di fissazione dell’udienza e tantomeno di rinnovo di audizione. Infatti, tali casi indicherebbero soltanto le ipotesi in cui il giudice non può esercitare il potere di cooperazione se non attraverso un contraddittorio non puramente cartolare e cioè quando abbia bisogno di chiarimenti dalle parti. Richiamando l’articolo 46, comma 3, Direttiva 2013/32/Ue del giugno 2013 secondo cui «… Gli stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e diritto ...», rilevando il vantaggio in termini di effettività temporale della tutela, essendo assunta una decisione nel più breve tempo possibile, pur svolgendo un esame accurato, ma cartolare. Inoltre, si rileva nei decreti milanesi, come le circostanze dichiarate in sede amministrativa siano totalmente sovrapponibili a quelle citate dal difensore nel ricorso (si fa anche riferimento alla sentenza della Cgue 560/2014, secondo la quale il colloquio deve essere organizzato solo al fine di accertare circostanze specifiche non meglio vagliate prima).

Le pronunce non sono condivisibili, in quanto frutto di una decisa, quanto inammissibile interpretatio abrogans del comma 11, lett. a) citato.

L’argomentazione secondo cui la videoregistrazione sarebbe totalmente equiparata al verbale e pertanto verrebbe meno l’obbligo di disporre l’audizione ai sensi del comma 11 è capziosa: la norma dispone che se non c’è videoregistrazione si deve redigere il verbale (come è ovvio che sia), ma non che si tratti di due forme equivalenti. Anzi, che si tratti di due forme diverse, è reso palese proprio dall’art. 35 bis comma 11 che, nel caso di mancanza di videoregistrazione, impone l’audizione. Dunque si considera il verbale non totalmente sostituibile alla videoregistrazione, ma qualcosa di meno. Infatti, la trascrizione del verbale di audizione (per quanto si ricava dal testo normativo) ha ad oggetto la versione in italiano delle dichiarazioni, mentre, evidentemente, la videoregistrazione contiene l’intervista integrale. Solo quest’ultimo documento consente di verificare la completezza e pertinenza alle domande delle risposte del richiedente asilo nella sua lingua ed eventualmente di effettuare un controllo sulla qualità della traduzione. Inoltre, la percezione visiva delle dichiarazioni rese dal richiedente è qualità della sola videoregistrazione e non anche del verbale.

L’argomento è stato sviscerato, tra l’altro, anche per criticare la disposizione secondo cui alla fine della fase amministrativa è consegnato al richiedente il verbale e non il file contenente l’intervista videoregistrata, che il ricorrente può ottenere solo dopo avere instaurato il giudizio di reclamo al Tribunale (ex art. 14 comma 5 «In sede di ricorso giurisdizionale avverso la decisione della Commissione territoriale, la videoregistrazione e il verbale di trascrizione sono resi disponibili all'autorità giudiziaria in conformità alle specifiche tecniche di cui al comma 8 ed è consentito al richiedente l'accesso alla videoregistrazione»). Il difensore, senza la videoregistrazione, non è effettivamente in grado di verificare il contenuto dell’intervista e quindi di predisporre consapevolmente il reclamo ed eventualmente richiedere una nuova audizione del ricorrente; non è inoltre in grado di indicare al giudice le eventuali incomprensioni che possano avere influito sul giudizio di credibilità da parte della commissione territoriale.

In definitiva, l’argomento che si basa sull’equivalenza tra verbale e videoregistrazione non ha base normativa ed è anzi contraddetto dalla disciplina vigente.

L’altro argomento utilizzato dal Tribunale di Milano e dal Tribunale di Napoli si incentra sulla superfluità dell’audizione quando il ricorso non presenti elementi di fatto diversi da quelli già dedotti innanzi alla commissione territoriale. Anche in questo caso, si tratta di un’argomentazione che presuppone un’interpretatio abrogans dell’articolo 35 bis, comma 11, lett. a), che impone l’audizione quando manchi la videoregistrazione, senza ulteriori presupposti. L’ipotesi valutata dal tribunale di Milano e di Napoli è già prevista dal comma 11, lett. c) (quando l’impugnazione si fondi su elementi non dedotti nella procedura amministrativa); il comma prevede due ipotesi di obbligatorietà dell’udienza: una è quella in cui manchi la videoregistrazione (lett. a)) e la seconda quella della presenza di elementi di fatto diversi da quelli dedotti nella prima fase (lett. c)). Non si comprende come la prima ipotesi possa essere eliminata per lasciare in vigore solo la seconda.

Non si tiene conto, tra l’altro, della circostanza che gli elementi di fatto possono mutare dalla deposizione del ricorso al momento della decisione e deve essere possibile, per il ricorrente, esporli al giudice e, per il giudice, integrare officiosamente la prova al riguardo.

Ad esempio, la valutazione comparativa tra la condizione attuale del paese di origine e la condizione d'integrazione socio economica nel nostro paese (Cass. n. 4455/2018, più volte citata), non può che essere svolta con riferimento al momento della decisione, tenuto conto della natura dei profili che sono rilevanti per la valutazione della vulnerabilità e sono destinati ad evolversi (valutazione individuale della vita privata e familiare del richiedente in Italia comparata alla situazione che ha vissuto prima della partenze e alla situazione cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio).

L’assunto delle pronunce in commento trascura poi il dato esperienziale: se l’audizione è svolta correttamente, può far emergere, come si è detto, situazioni non dichiarate nell’audizione dinanzi alla Commissione e nemmeno riferite nel ricorso. Si potrebbe ipotizzare che nella Commissione non si sia creato il clima di fiducia necessario per l’apertura totale del richiedente; potrebbe esserci un difetto nella difesa tecnica, magari non formata o costretta a redigere il ricorso in situazioni di grave compressione di tempo; o potremmo immaginare che tale apertura sia, forse comprensibilmente, dovuta a un progressivo scioglimento delle paure e del trauma che certe situazioni comportano. A mio parere, appare riduttivo ritenere superflua l’audizione quando il ricorso non riporti elementi nuovi.

Ancora, secondo il Tribunale di Milano, in particolare, l’onere di cooperazione si può svolgere anche nel contraddittorio cartolare. Nuovamente, si deve sottolineare che, anche rispetto a tale argomento si tratta di un’argomentazione che, comunque, comporta l’abrogazione parziale dell’articolo 35 bis, comma 11. Inoltre, la cooperazione sulla base del contraddittorio cartolare è molto compressa e nel colloquio orale ha ben altra efficacia, se si tiene conto della differenza fra il dialogo scritto e il dialogo orale. Basti pensare che la comunicazione orale comprende anche il linguaggio non verbale: secondo gli studiosi della materia, solo per le espressioni facciali si contano circa 7000 movimenti[30].

Quanto al richiamo del criterio di effettività (art. 46 direttiva 2013/32/Ue) è preso in considerazione, sempre dal Tribunale di Milano, solo per valorizzare le esigenze di celerità della decisione. Queste esigenze sono fondamentali, ma devono essere soddisfatte da un’adeguata organizzazione, che implica dotazioni appropriate di giudici e personale di cancelleria. Anzi, proprio il criterio di effettività, come si è cercato di argomentare sopra al paragrafo 6, porta a ritenere l’udienza e l’audizione del richiedente la regola e non l’eccezione. Inoltre, non si può depotenziare una norma interna correttamente garantista, invocando il diritto europeo che rappresenta un minimum di tutela da rispettare, ma non un criterio per disapplicare una norma, interna, che non solo rispetta quel minimo, ma fornisce una tutela maggiore.

7. La valutazione di credibilità

Il colloquio con il migrante resta dunque il fulcro della prova e strumento basilare per valutare la credibilità.

Ma come valutare l’attendibilità, la coerenza, la plausibilità, la credibilità?

Quando si dice che il richiedente è ritenuto credibile se «è in generale, attendibile» è evidente che si lascia all’esaminatore una discrezionalità amplissima. E’ chiara la differenza tra l’esame di un italiano scippato, rispetto a quello di un migrante che racconta eventi molto lontani dalla nostra realtà e cultura; i criteri normativi però sono poco utili. I pericoli sono evidenti: esigere riscontri di esperienze de-umanizzanti che possono restare invisibili come ferita interiore (es violenze, torture, stupri, deportazioni); esigere forme sostitutive della credibilità come, ad esempio, imporre a persone omossessuali di frequentare associazioni specializzate; dare valore alle apparenze, credere a chi appare credibile secondo i nostri schemi: sicurezza, capacità di dettaglio, coerenza, tutte caratteristiche che difficilmente si riscontrano nel richiedente asilo, tanto più se analfabeta e vissuto nel suo villaggio di pochi abitanti o nel suo quartiere ghetto di una megalopoli africana[31]. Molto spesso, le imprecisioni o l’incapacità di riferire in modo circostanziato e logico su determinati accadimenti possono derivare proprio dal basso grado di conoscenze e di apprendimento dei ricorrenti, e non dal difetto di veridicità o verosimiglianza di quanto sostengono. La scarsa scolarizzazione e i traumi subiti ben giustificano un deficit di memoria, in quanto, come risulta dagli studi in materia, chi non è capace di leggere e di scrivere accusa una sensibile diminuzione delle facoltà di comprendere la realtà circostante, nonché un deficit nella memorizzazione e nell’abilità di ordinare le informazioni apprese esponendole in modo logico e coerente. E’ noto, inoltre, che spesso i profughi affrontano difficoltà nell’esporre alle autorità il proprio vissuto e le proprie esperienze, a causa degli effetti derivanti dal cd. stress post-traumatico collegato ai drammatici eventi da essi vissuti[32].

Sulla valutazione di credibilità del ricorrente si veda da ultimo Cass. n. 26921/2017, che stigmatizza il metodo di «accendere i riflettori su talune imprecisioni riguardanti aspetti secondari del racconto del richiedente la protezione, senza tuttavia valutare le difficili condizioni personali in cui egli si trovava al momento della narrazione».

In particolare, il canone di plausibilità è quello più difficile da applicare, perché ciò che non è plausibile nel nostro Paese, può esserlo nel villaggio di Gari-kukuwa in Nigeria. Questo è il punto più delicato, dove si annida la maggiore espansione della visione eurocentrica del giudice, anche a livello inconscio. Di qui l’importanza che il giudice dell’asilo non sia solo, né in forma monocratica, né in quella collegiale.

La solitudine del giudice dell’asilo non può che essere mitigata dall’apporto di altri saperi, in particolare di antropologi, etno-psichiatri, linguisti, sociologi e altri.

Sarebbe interessante, de iure condendo, immaginare un giudice dell’asilo quale giudice davvero specializzato e integrato da figure di giudici onorari esperti in altre discipline, sulla falsa riga del Tribunale per i minorenni o, per fare un altro esempio, delle Sezioni specializzate agrarie.

Come i campi, anche i migranti, per essere compresi, non hanno bisogno solo di diritto.

Più utili delle regole giuridiche per l’audizione, si rivelano le regole elaborate per l’ascolto da enti e organismi rispetto al colloquio con il richiedente asilo. Ad esempio, l’Easo (European asylum support office) ha articolato un modello in varie fasi comprensive della preparazione del colloquio, studio del caso, modalità di inizio e svolgimento del colloquio; necessità di informare il richiedente sulle successive fasi del procedimento e i tempi della decisione, la cura dell’apertura, l’approfondimento del merito della domanda e la conclusione[33]. Anche l’ Unhcr ha sviluppato un protocollo per l’intervista dei richiedenti asilo[34], con indicazioni sulle modalità di porre le domande, quali domande porre e così via. Si analizzano le barriere alla comunicazione, gli effetti del trauma, l’atteggiamento dell’intervistatore, l’importanza della preparazione all’intervista.

Tra le regole elaborate sottolineo l’importanza dell’apertura, della preparazione e della costruzione del clima di fiducia: abbiamo spesso detto, nell’ambito della giustizia ordinaria, che l’udienza doveva essere il luogo di costruzione della fiducia per le parti, sia nel tentativo di conciliazione giudiziale, sia per l’invio in mediazione, sia per lo stesso iter processuale in vista di una decisione comunque partecipata e di una sua costruzione progressiva: il processo non è fatto solo di codici, ma di relazioni che si intrecciano con diversi ruoli, e tutte le regole che abbiamo immaginato con riferimento a quelle relazioni trovano oggi uno spazio d’elezione a proposito della protezione internazionale (non a caso le regole dell’Easo sono riferite al colloquio personale e trovano rispondenza in quelle elaborate anche per la giustizia c.d. ordinaria[35]).

Naturalmente, il clima di fiducia è essenziale ancor più per l’esame del richiedente asilo. Occorre evitare frasi giudicanti, (mi sembra confuso, così non va… è poco chiaro…non ci siamo), e adottare invece un atteggiamento collaborativo anche di fronte a narrazioni caotiche o bizzarre, invece di pretendere che si incanalino in binari consueti e conformi al modo di pensare e vivere che ci è proprio.

Il giudice può e deve fornire informazioni in merito agli elementi rilevanti per motivare la domanda[36], ponendo domande adeguate, soprattutto per permettere al richiedente di chiarire eventuali elementi che porterebbero ad una valutazione di non credibilità. L’ art 16 Direttiva 2013/32/Ue prevede testualmente che il richiedente «deve avere l’opportunità di spiegare l’eventuale assenza di elementi e/o le eventuali incoerenze o contraddizioni delle sue dichiarazioni»[37]. Un vero confronto, come è stato osservato, è l’antidoto al rischio che l’esaminatore selezioni le informazioni che “a lui” sembrano rilevanti secondo canoni soggettivi assunti come universali[38]. Innanzitutto, si può ricorrere ad atteggiamenti comprensivi di fronte al rischio, più che reale, che il richiedente possa aver frainteso la domanda, dando spazio a domande chiarificatrici di eventuali incoerenze (mi sono espresso male forse … non mi sono spiegato …). In ogni caso occorre un confronto su qualunque risposta appaia stravagante o contraddittoria. Questo rientra esattamente nell’onere di cooperazione del giudice (e prima ancora dell’esaminatore in commissione.) Se le Coi sono negative, ad esempio, occorre esporre questo pensiero. Non va dimenticata l’asimmetria che ricorre nel colloquio: il giudice pone le domande e può interrompere le risposte. In certa misura l’asimmetria è ineliminabile: esserne consapevoli contribuisce ad attenuarne gli aspetti pregiudizievoli.

8 . Il giudice dell’asilo è diverso dal giudice civile?

Il confronto, si è detto da più parti, stride con i criteri usuali adottati dal giudice italiano.

Come ho anticipato all’inizio, gli Osservatori sulla giustizia civile, e chi condivide comunque la necessità di rivitalizzare la giustizia civile non attraverso la girandola di nuovi riti, ma il recupero dell’oralità, sono di fronte ad una cartina di tornasole. Sono decenni che consideriamo il dialogo processuale il fulcro della semplificazione del materiale processuale e della ricerca della soluzione il più possibile giusta. Il colloquio processuale franco, con l’esposizione da parte del giudice del suo pensiero (ragionata valutazione del materiale processuale, allo stato degli atti), è anche il fulcro della semplificazione del linguaggio giuridico negli atti e nei provvedimenti: in un processo dove molto si scrive e poco si parla, gli atti e i provvedimenti sono condannati alla logorroica esposizione non solo delle argomentazioni pertinenti, ma anche di quelle che forse non lo sono, ma non è detto.

Ora è proprio la trama delle prassi costruite per rendere il processo un luogo dove le udienze sono utili e sono luoghi di parola parlata e ascoltata e non solo di scrittura, che dovrebbe consentire, per il settore che ci interessa, il confronto e così l’eliminazione di quelle che sono state definite le archiviazioni silenziose: le apparenti contraddizioni che non vengono rilevate nel colloquio, ma riesumate per il giudizio sulla non credibilità delle dichiarazioni. Ricordano le sentenze della terza via nel tempo in cui – prima dell’intervento della Suprema Corte – il giudice trattava la causa senza prospettare apertamente la questione dirimente che aveva silenziosamente rilevato e veniva riesumata, appunto, solo al momento della sentenza. In palese violazione del contraddittorio.

La cooperazione del giudice, insomma, implica un pieno dispiegamento del suo ruolo attivo e partecipe, ruolo che i protocolli di udienza e le buone prassi hanno provato a delineare anche per la giustizia civile ordinaria, superando il modello tradizionale del giudice quale arbitro passivo di uno scontro agonistico.

Inutile sottolineare l’importanza del ruolo del difensore nello specifico settore in esame ai fini della valorizzazione del dialogo con il richiedente asilo: la difesa non è solo tecnico-giuridica, ma riguarda anche la vigilanza sulle eventuali proiezioni euro-centriche che possono caratterizzare il colloquio da parte dell’esaminatore. Per elevare la qualità del procedimento decisionale, occorre un innalzamento degli standard qualitativi dell’esame delle domande e questo richiede una formazione specifica, non solo giuridica, di giudici e avvocati.

9. Giurisdizione diseguale o costruttiva di uguaglianza?

L’effettività della tutela rischia di essere gravemente minata anche dalla mancanza di padronanza della lingua. Già la verbalizzazione del colloquio, in generale, è operazione difficile: passare dalla confusione della lingua parlata all’ordine della lingua scritta è inevitabilmente foriero della perdita dell’espressione originale. Senza contare la difficoltà di rendere il contesto non verbale, spesso più significativo del linguaggio verbale. Nel settore di cui parliamo, si aggiunge il problema legato all’esigenza di ricorrere ad un interprete con la conseguenza che, nei vari passaggi (domanda, traduzione, risposta, traduzione e verbalizzazione) si verifichi pericolo di ulteriore inquinamento e alterazione. L’interprete è autore di una mediazione culturale che presuppone un’elevata qualificazione, non solo linguistica. Fondamentale è la sincronia tra richiedente, traduttore ed esaminatore in modo che il colloquio si svolga secondo un ritmo suo proprio, senza interruzioni eccessive, ma anche senza la perdita di informazioni se il tempo è troppo lungo affinché l’interprete possa memorizzare le frasi. Inoltre, è indispensabile la preparazione dell’interprete (spiegargli quale è il suo ruolo, il dovere di riservatezza e così via: v. Guida Easo e Unhcr), assicurare un setting di audizione riservato e attento alla dimensione relazionale e alla vulnerabilità, tenendo presente anche il livello culturale del ricorrente[39].

Il sistema attuale rende le regole di cui si è detto pura utopia. Interpreti qualificati sono raramente disponibili, anche per l’irrisorio compenso[40] e le persone che, di fatto, svolgono la traduzione (spesso operatori dei Cas - Centri di accoglienza straordinaria) sono sovente prive di quella alta qualificazione professionale che richiederebbe il compito arduo di tradurre da mondi lontanissimi dal nostro.

Eppure, la lingua è spesso l’unica casa che i richiedenti abitano, dopo aver perso radici nel Paese di origine e senza poterne avviare nel Paese di dimora.

Occorre cogliere il carattere epocale di quanto sta accadendo: le storie umane di chi attraversa il deserto, le torture, il rischio di morte, l’assistenza alle morti altrui, chi le raccoglierà?

Ecco il ruolo di una giurisdizione che fa della tutela della dignità e dei diritti umani il suo fulcro: dare voce a chi non ne ha, a chi è vulnerabile: e il migrante lo è per definizione. La rifondazione della giurisdizione civile, su cui abbiamo spesso riflettuto negli ultimi anni, ci ha portato a ridefinire la missione del giudice civile, ancora destinatario delle più disparate conflittualità, proprio quale baluardo dei diritti fondamentali, delineando il perimetro di intervento riguardo a quelle posizioni più delicate o complesse dove si registrano rapporti di forza asimmetrici o sia in gioco la dignità delle persone.

In questo modo il diritto torna alle sue origini, per «esplorare – sono parole di Pino Borrè - alla luce del Costituzione gli spazi praticabili per la tutela (...) dei soggetti più deboli, dei sottoprotetti, degli svantaggiati, dando nuovo impulso al ruolo della giurisdizione come “attitudine costruttiva dell'uguaglianza”[41]».

Non si deve cedere, dunque, alla tentazione di ridurre i numeri dietro la massificazione delle decisioni, la standardizzazione dei modelli decisori senza attenzione ad ogni singolo caso concreto. L’audizione, in certi settori, è una dura selezione come, ad esempio, nel settore artistico; dobbiamo fare ogni sforzo perché l’audizione del richiedente asilo non sia così, e si svolga in una prospettiva di cooperazione con chi decide, perché non sia luogo di selezione malsana, ma luogo di restituzione «di una verità storica ad una biografia individuale per farne giustizia»[42].

[1] Le ultime elaborazioni sono costituite dalle Linee guida elaborate all’Assemblea Nazionale svoltasi a Roma dal 19 al 21 maggio 2017, pubblicate, oltre che nei siti degli Osservatori anche su varie riviste (si vedano su Judicium con commento di David Cerri oppure in DirittoeGiustizia).

[2] Manifestata da innumerevoli iniziative di convegni e seminari, in gran parte ricordati da Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in Foro it., 2016, V, c. 362, nota 2. Con decreti ministeriali 9 febbraio, 28 luglio e 19 ottobre 2016, è stata inoltre istituita una Commissione ministeriale sulla sinteticità degli atti processuali, che ha depositato la sua relazione in data 1.12.2016.

[3] Sul principio di effettività, riconosciuto espressamente anche dall’art. 1 del cpa secondo cui la giurisdizione amministrativa assicura «una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, da ultimo si veda: Vettori, L’attuazione del principio di effettività. Chi e come, in Persona e mercato, n. 4/2017 p. 187; Id., Effettività delle tutele (diritto civile)(voce), in Enc. dir., Ann. X, Milano, 2017; Id., Contratto giusto e rimedi effettivi, in Riv. trim. dir. proc. civ, 2015, pp. 791 ss.; Id., Il contratto europeo tra regole e princìpi, Torino, 2015; D. Dalfino, Accesso alla giustizia, principio di effettività e adeguatezza della tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, pp. 907 ss.; Di Majo, Giustizia e «materializzazione» nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole di) fattispecie e (regole di) procedura, in Europa e dir. priv., 2013, p. 797; Id., Il linguaggio dei rimedi, in Europa dir. priv., 2005, 2, p. 341 ss.; Id., da ultimo, Rimedi e dintorni, in Europa dir. priv., 2015, pp. 703 ss.; Pagliantini, Diritto giurisprudenziale e principio di effettività , in Pers. merc., 2015, p. 112; D. Imbruglia, Effettività della tutela e poteri del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 961; mi permetto anche di rinviare al mio contributo La giustizia del XXI secolo dentro e fuori la giurisdizione: una riflessione sul principio di effettività, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, p. 715.

[4] Nel senso latino di invenire, trovare il diritto: Grossi, Sull’odierna incertezza del diritto, in Giust. Civ., 2014, p.18.

[5] Perché obbliga chi esprime le ragioni ad averne: Caria, Certezza del diritto e prevedibilità. Una riflessione sul tema, in Diritto e Storia, 2016, che cita al riguardo Perelman, Logica giuridica. nuova retorica, Milano, 1979, p. 231.

[6] Benedetti, Fattispecie ed altre figure di certezza, in Persona e Mercato, 2015, p. 67.

[7] In questo senso le riflessioni di Scoditti, Chiarezza e semplicità delle sentenze: simplex sigillum veri, in Foro it. 2016, V, pp. 368 e 370.

[8] Secondo la felice espressione di Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016, p. 1140.

[9] Facchi, L’escissione: un caso giudiziario, in Materiali di discussione e di ricerca, Quaderno 3, Torino 1992, p. 37.

[10] Si veda l'inchiesta de L'Espresso, Il quiz della vergogna, n. 17 del 23 aprile 2017, p. 46.

[11] Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, p. 124. È questo che permette il riavvicinamento tra diritto e giustizia: «Il castello murato edificato con tanta cura dai nostri padri, con le mura impastate e cementate di legalismo e formalismo, allontanò diritto e fatti, ma anche inevitabilmente, diritto e giustizia, essendo – questa – misura di uomini carnali e di fatti carnali; e la giustizia è restata un traguardo irraggiunto. Se i giuristi, all’insegna di un’etica della responsabilità, sapranno ordinare il nuovo pluralismo, forse stiamo procedendo sul cammino più conveniente per una maggiore armonizzazione fra diritto e giustizia»: Id., Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, Lectio Magistralis letta a Napoli il 20 dicembre 2007, Napoli, 2007, p. 73.

[12] Così Ferrari, Fatti e parole nella giurisprudenza, in Foro it. 2016, parte V, c. 367. A sua volta Ferrari ricalca la metafora di Heidegger secondo cui il linguaggio è la casa dell'essere.

[13] Sul tema, si veda il bel saggio di Veglio, Uomini tradotti. Prove di dialogo con richiedenti asilo, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 2 del 2017, pp. 2 ss.

[14] Art. 3, co. 1, del d.lgs n. 251 del 2007 «1. Il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione internazionale o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda. L’esame è svolto in cooperazione con il richiedente e riguarda tutti gli elementi significativi della domanda. 2. Gli elementi di cui al co. 1 che il richiedente è tenuto a produrre comprendono le dichiarazioni e tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, condizione sociale, anche dei congiunti, se rilevante ai fini del riconoscimento, identità, cittadinanza, paesi e luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di identità e di viaggio, nonché i motivi della sua domanda di protezione».

[15] Va ricordato che «Le domande di protezione internazionale non possono essere respinte, né escluse dall’esame per il solo fatto di non essere state presentate tempestivamente» (art. 8, co. 3, d.lgs 28.1.2008, n. 25).

[16] Art. 3, co. 5, d.lgs 19.11.2007, n. 251, di attuazione della dir. 2004/83/Ce recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.

[17] Art. 8, co. 3, d.lgs 28.1.2008, n. 25, di attuazione della dir. 2005/85/Ce recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Similmente l’art. 6, co. 6, dPR 12.1.2015, n. 21, prevede che «La decisione sulla domanda di protezione internazionale della Commissione è corredata da motivazione di fatto e di diritto, dà conto delle fonti di informazione sulla situazione dei Paesi di provenienza».

[18] Per l’accesso ai canali delle Coi si rinvia a Refworld.org, database dell’Unhcr, ad Ecoi.net, sito gestito dal dipartimento Accord della Croce rossa austriaca, e all’Easo Coi portal. Per le tecniche di analisi delle Coi si segnalano Unhcr, La ricerca di informazioni sui Paesi di origine dei rifugiati, 18.4.2016 (www.unhcr.it/wp-content/uploads/2015/12/Scheda-COI.pdf, EASO,Tools and Tips for Online COI Research, giugno 2014, (www.refworld.org/docid/53f478884.html) e ACCORD, Researching Country of Origin Information-Training Manual, 2013 (www.coi-training.net/handbook/Researching-Country-of-Origin-Information-2013-edition-ACCORD-COI-Training-manual.pdf).

[19] Sul potere–dovere di indagine dell’esaminatore vedi Cass. 24.9.2012, n. 16221; vedi anche Cass. n. 16202/2012 che richiama la precedente Cass. n. 10202/ 2011.

[20] Cass., 19.2.2015, n. 3347.

[21] Vittorio Gaeta, A che serve studiare la protezione internazionale? in Foro it. 2016, parte V, p.395.

[22] Così Acierno-Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, nell’acquisizione e nella valutazione della prova , in Diritto, immigrazione e cittadinanza, fasc. 1 del 2017, pp. 11 e ss e p. 17; C. Favilli, Le previsioni del dl 13/2017 e i vincoli derivanti dall’Ue, dalla Cedu e dalla Costituzione italiana, in Guida al diritto, 2017, pp. 53 ss.

[23]Si noti, tuttavia, che secondo la giurisprudenza costante della Suprema corte, il giudizio non ha per oggetto il provvedimento stesso, bensì il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata; dunque non può concludersi con il mero annullamento del diniego amministrativo della protezione, ma deve pervenire comunque alla decisione sulla spettanza o meno del diritto alla protezione (cfr., ex multis, Cass. ord. n. 11754/2016).

[24] Il decreto, che è stato convertito in legge con la legge n. 47 del 2017, ripristina il modello camerale regolato dagli artt. 739 e ss. cpc (v. art. 6 co. 1 lett. g) che introduce l’art. 35 bis nel corpus del d.lgs n. 25 del 2008 dettando le regole processuali del giudizio di primo grado).

[25] C. De Chiara, Scuola superiore della magistratura, in collaborazione con la Scuola superiore dell’Amministrazione dell’interno, Roma, 19, 20 e 21 aprile 2017, Riflessione “a tre voci” sul testo del decreto legge n. 13 del 17 febbraio 2017. Il punto di vista della difesa, dell’amministrazione e del giudice.

[26] Ad es. Döry c. Svezia 12 novembre 2002; Fredin c. Svezia 23 febbraio 1994; Fischer c. Austria 26 aprile 1995.

[27] Savio, nelle Prime riflessioni sulla nuova disciplina, aggiornato al giugno 2017, in www.asgi.it.

[28] In questo senso anche Favilli, op.cit, Le previsioni del dl 13 del 2017, p. 54.

[29] Facilmente reperibili in internet nei numerosi siti specializzati; mi limito a ricordare, per fare un esempio significativo, Tribunale di Lecce, ordinanza 24.9.2017; Tribunale di Genova, ordinanza 1.9.2017, entrambe in www.meltingpot.org.

[30] Luigi Anolli (a cura di), Fondamenti di psicologia della comunicazione, Il mulino 2006, p. 27.

[31] Su questi pericoli, vedi Veglio, op. cit. p. 9.

[32] In questo senso l’ordinanza del Tribunale di Genova, citata alla nota 30, che si sofferma, in particolare, sull’importanza dell’audizione del ricorrente, che deve essere considerato credibile anche quando il racconto reso in Commissione Territoriale è considerato “generico”.

[33] Easo, La guida pratica dell’Easo: il colloquio personale, dicembre 2014, www.easo.europa.eu/sites/default/files/public/EASO-Practical-Guide-Personal-Interview-IT.pdf. Sul punto vedi Veglio, op. cit., pp. 9 ss.: «Le raccomandazioni suggeriscono lo studio anticipato del caso, la costruzione di un ambiente accomodante e collaborativo, un atteggiamento neutrale e professionale, l’adeguata informazione dello straniero. La regola per la raccolta delle informazioni richiede l’alternanza tra spazi di racconto libero e la successiva fase di verifica, attraverso il ricorso a domande semplici, tendenzialmente aperte e non suggestive, con una spiccata enfasi sul confronto e il chiarimento. Prima della chiusura è prevista l’opportunità per il richiedente di porre domande e verificare insieme all’interprete correttezza e completezza della verbalizzazione. Perfeziona il panorama una disciplina di dettaglio relativa alla disposizione dei partecipanti nell’aula (esaminatore e richiedente seduti vis-a-vis, su sedie della stessa altezza, con l’interprete seduto al lato del tavolo, equidistante dagli interlocutori), alle modalità del dialogo (ascolto attivo, tono e gestualità adeguate, riformulazione dei concetti attraverso il medesimo linguaggio del richiedente, astensione dagli interventi nel corso del racconto libero), al ruolo dell’interprete (sintonia e sincronia con il richiedente, utilizzo di appunti) e dell’esaminatore (capacità di ascolto, astensione da commenti, divieto di interruzione dell’interprete, consapevolezza di pregiudizi e aspettative)».

[34] Unhcr, Intervistare i richiedenti asilo, www.meltingpot.org/IMG/pdf/intervistare-i-richiedenti-asilo-1-2.pdf.

[35] Si vedano i protocolli per le udienze civili facilmente reperibili in internet e in www.milanosservatorio.it.

[36] Corte Giust. Ue sentenza C-277/11, 2012, par. 65 afferma che, secondo l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2004/83, benché il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa.

[37] La norma non è stata recepita integralmente nell’ordinamento italiano che si limita a garantire «la possibilità di esporre in maniera esauriente gli elementi addotti a fondamento della domanda» e la «facoltà di formulare osservazioni che sono riportate in calce al verbale, anche per rilevare eventuali errori di traduzione o di trascrizione»: artt. 13 e 14, d.lgs n. 25/2008.

[38] Veglio, op. cit., p 13.

[39] Su questi temi si veda Veglio, Uomini tradotti, op. cit., pp. 20 ss.

[40] Gli onorari degli interpreti sono determinati nella misura di € 14,68 per la prima udienza (fino a 2 ore di attività), ridotti a € 8,15 per quelle successive (art. 1, dm 30.5.2002) che peraltro, in sistema di patrocinio a spese dello stato, non sono anticipati ma solo prenotati a debito, di fatto con poche speranze di pagamento.

[41] Non va in questa direzione il Protocollo sezione immigrazione, sottoscritto il 6.3.2018 tra il presidente del Tribunale di Venezia e il presidente del locale Consiglio dell’Ordine che contiene regole discriminatorie; in particolare segnalo i punti 6 e 7, dove si prevede l’audizione dello straniero da parte del giudice senza la presenza del difensore e l’obbligo del difensore di comunicare al giudice, prima dell’udienza, l’eventuale sussistenza di malattie infettive del ricorrente e nel caso l’obbligo di produrre certificazione medica attestante l’assenza di pericolo di contagio.

[42] Veglio, Uomini tradotti, op. cit., pag. 1.