Magistratura democratica

La protezione sussidiaria tra minaccia individuale e pericolo generalizzato

di Silvia Albano

L’esigenza di garantire un’area più ampia di protezione internazionale, rispetto allo status di rifugiato, porta la protezione sussidiaria ad assumere contorni meno precisi: la valutazione della gravità della minaccia individuale e della intensità del conflitto armato appaiono i contorni più suscettibili di contrastanti interpretazioni di fronte al presentarsi di sempre nuove e più gravi minacce alla incolumità ed alla dignità della persona umana.

1. Quadro normativo

La protezione internazionale è stata introdotta e regolamentata per la prima volta nell’Unione europea con la direttiva 29 aprile 2004 n. 2004/83/Ce (cd. Direttiva Qualifiche)[1], recante«norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta»[2], la quale definisce due forme di protezione internazionale: lo status di rifugiato (trattato nel precedente capitolo) e la protezione sussidiaria.

La protezione sussidiaria è stata introdotta in attuazione del Trattato di Amsterdam del 1997 ed in attuazione delle deliberazioni assunte dalla riunione straordinaria del Consiglio europeo di Tampere del 1999, al fine di predisporre uno strumento di protezione anche a favore di chi non avesse i requisiti per beneficiare dello status di rifugiato[3].

Il considerando 24 della Direttiva specifica, infatti, che «la protezione sussidiaria dovrebbe avere carattere complementare e supplementare rispetto alla protezione dei rifugiati sancito dalla Convenzione di Ginevra».

L’esigenza si è posta in quanto la definizione di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, è resa particolarmente rigida dalla tassativa elencazione dei motivi a cui è necessario ricondurre la persecuzione, sicché non avrebbero trovato protezione situazioni senz’altro meritevoli di tutela in base al diritto pattizio ed europeo già vigente[4].

La Corte di giustizia Ue ha più volte affermato che «emerge dai Considerando 5, 6 e 24 della Direttiva [Qualifiche] che i criteri minimi di concessione della protezione sussidiaria devono consentire di completare la protezione dei rifugiati sancita dallaConvenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, identificando le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e offrendo loro uno status appropriato»[5].

La Direttiva lascia salva la possibilità per gli Stati di prevedere trattamenti più favorevoli purché compatibili con le disposizioni della Direttiva medesima (art. 3).

Scopo della Direttiva è, infatti, la definizione di «Una politica comune nel settore dell'asilo, che preveda un regime europeo comune in materia di asilo, [che] costituisce uno degli elementi fondamentali dell'obiettivo dell'Unione europea relativo all'istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nella Comunità» (Considerando 1)[6].

La Direttiva è stata attuata nel nostro ordinamento con il Decreto legislativo 19 novembre 2007 n. 251, pubblicato il 4.1.2008 ed entrato in vigore il 19.1.2008.

«Nel Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, adottato il 15 e 16 ottobre 2008, il Consiglio europeo [aveva] rilevato che sussist[evano] forti divergenze fra gli Stati membri per quanto riguarda[va] la concessione della protezione e [aveva] sollecitato ulteriori iniziative, compresa una proposta di procedura unica in materia di asilo che preved[esse] garanzie comuni, per completare l’istituzione, prevista dal programma dell’Aia, del sistema europeo comune di asilo, e offrire così un livello di protezione più elevato»[7], sicché, in data 13 dicembre 2011, è stata emanata la Direttiva 2011/95/Ue[8] (cd. nuova Direttiva Qualifiche), «recante norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta», la quale tende a realizzare un avvicinamento maggiore delle norme relative al riconoscimento ed agli elementi essenziali della protezione internazionale, prevedendo anche la possibilità per gli Stati membri di riconoscere ai cittadini di Paesi terzi od apolidi la possibilità di permanere sul territorio nazionale per motivi caritatevoli od umanitari su base discrezionale.[9]

La nuova Direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento dal Decreto legislativo 21 febbraio 2014 n. 18, pubblicato il 7 marzo 2014, che ha apportato le modifiche conseguenti al d.lgs n. 251/2007.

2. Definizione

Il d.lgs n. 251/2007 all’art 2 lettera g), come la Direttiva 2004/83/Ce ed ora la Direttiva 2011/95/Ue, definisce «persona ammissibile alla protezione sussidiaria» il cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea o l’apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di apolide, se ritornasse nel Paese di residenza abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dall’art. 14, d.lgs n. 251/2007 e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

La nozione di persona ammissibile alla protezione sussidiaria è poi completata dall’art. 17, d.lgs n. 251/2007, rubricato «Riconoscimento dello status di protezione sussidiaria» che, conformemente agli artt. 18 delle due Direttive Qualifiche, dispone che «la domanda di protezione sussidiaria ha come esito il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, in conformità agli articoli 3, 4, 5 e 6, se ricorrono i presupposti di cui all’art. 14 e non sussistono le cause di cessazione e di esclusione di cui agli articoli 15 e 16».

Come quello di rifugiato, anche lo status di protezione sussidiaria viene conseguentemente riconosciuto, e non concesso, a chi possiede i requisiti indicati nella definizione (clausole di inclusione) quando non sussistono circostanze normativamente predeterminate per cui tale persona, pur rispondendo ai criteri positivi della definizione, non può essere ammessa a tale forma di protezione (clausole di esclusione).

Da questa definizione possiamo trarre alcuni importanti principi, che hanno notevoli risvolti nell’applicazione concreta della normativa.

2.1. Protezione internazionale – concetto unitario

In primo luogo, il requisito negativo richiesto (la protezione sussidiaria viene riconosciuta qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato) evidenzia che la protezione internazionale è istituto unitario nel sistema asilo europeo ed italiano, inquadrato tra i diritti fondamentali della persona, e comprende lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e, nel nostro ordinamento, anche la protezione umanitaria (disciplinata nell’ordinamento italiano e contemplata, come si è visto, nell’ordinamento della Ue)[10].

Ciò comporta che la domanda di protezione internazionale deve considerarsi unica: gli organi amministrativi (le Commissioni Territoriali) e giurisdizionali che esamineranno la domanda del richiedente dovranno comunque, a prescindere dalla domanda di parte, anzitutto verificare la sussistenza dei requisiti per riconoscere lo status di rifugiato; in mancanza di questi, verificare la sussistenza dei requisiti per riconoscere la protezione sussidiaria ed, infine, in caso di esito negativo di tali verifiche, la sussistenza dei requisiti per riconoscere la protezione umanitaria (cfr. art. 8 d.lgs n. 25/2008, e successive modifiche, che costituisce attuazione della direttiva 2005/85/Ce – cd. Direttiva Procedure –, ed art. 10 Direttiva 2013/32/Ue – cd. Nuova Direttiva Procedure – che ha trovato attuazione con il d.lgs n. 142/2015).

2.2. Diritto soggettivo e soggetti[11]

L’utilizzo del termine “riconoscimento”, e non concessione, implica che, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, sussiste un diritto soggettivo perfetto del richiedente (che, peraltro, come si è visto, ha natura di diritto fondamentale della persona), che preesiste alla pronuncia, la quale ha, pertanto, carattere dichiarativo del diritto e non costituivo (tale carattere investe tutte le forme di protezione internazionale previste dal nostro ordinamento, compresa la protezione umanitaria)[12]. Ciò implica anche la sua azionabilità fin dall’ingresso nel Paese, anche se illegale, e l’impossibilità di ogni compressione[13].

Inoltre, la circostanza che il richiedente debba trovarsi fuori dal suo Paese di origine o di dimora abituale, non implica che debba averlo lasciato illegalmente e neppure che debba averlo lasciato a causa di un fondato timore di persecuzione o di rischio di danno grave.

L’art. 5, Direttiva 2004/83/Ce («Bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal paese d’origine “sur place”») – rimasto inalterato nella direttiva 2011/95/Ue – dispone infatti, al comma 1, che «Il fondato timore di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal suo Paese di origine».

La situazione di coloro che sono a rischio di persecuzione o di danno grave per scelte o attività poste in essere quando si trovavano già all’estero è invece considerata nei commi 2 e 3 dell’art. 5 citato.

Il comma 2 prevede che «Il timore fondato di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal Paese di origine, in particolare quando sia accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione di convinzioni o orientamenti già manifestati nel Paese di origine»; mentre il comma 3, con riferimento allo status di rifugiato, aggiunge che, «fatta salva la convenzione di Ginevra, gli Stati membri possono stabilire di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva se il rischio di persecuzione è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la sua partenza dal Paese di origine».

Poiché nel recepire la direttiva 2004/83/Ce l’art. 4, d.lgs n. 251/2007 non ha richiamato il comma 3 dell’art. 5, e quindi il legislatore italiano non si è avvalso della facoltà riconosciuta dall’Unione europea agli Stati membri, nel nostro ordinamento non solo una persona può essere riconosciuta bisognosa della protezione internazionale anche a seguito di situazioni sopravvenute nel Paese di origine durante la sua assenza, ma può diventare rifugiato, oltre che essere ammessa alla protezione sussidiaria, anche se il rischio di persecuzione future o di danni gravi nel Paese di origine si basa su circostanze determinate dal richiedente dopo la partenza dal suo Paese.

3. Danno grave

Oltre al requisito soggettivo (essere cittadino straniero od apolide che non ha la residenza abituale nel territorio dell’Unione europea) e negativo (non possedere i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato), la norma richiede la sussistenza di un rischio effettivo di un danno grave in caso di ritorno nel Paese di origine o di residenza abituale, così come definito dall’art 14 del d.lgs n. 251 del 2007 (che riproduce l’art. 15 della Direttiva Qualifiche).

Non tutti i danni astrattamente qualificabili come gravi sono però rilevanti ai fini del riconoscimento di questa forma di protezione, ma lo sono solo ed esclusivamente quelli che rientrano nella elencazione tassativa delle previsioni normative comunitarie ed interne.

L’art 14 così definisce il danno grave: «Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

Dalla dizione normativa si ricava che il rischio debba essere effettivo, il che non implica certezza, ma pericolo concreto, basato su situazioni oggettive, senza che, a differenza della disciplina dello status di rifugiato, sia necessariamente collegato a motivi predeterminati dalla norma.

3.1. Zona di provenienza

Non è necessario, nel nostro ordinamento, che il rischio effettivo di subire un danno grave si estenda all’intero territorio del Paese di origine, in quanto lo Stato italiano non si è avvalso della facoltà prevista dall’art. 8 della Direttiva 2004/83/Ce. Tale norma, peraltro, è stata innovata dalla nuova Direttiva Qualifiche, il cui art. 8 dispone ora che la possibilità degli Stati membri di non riconoscere la protezione a coloro che in una parte del Paese di origine non abbiano motivo di temere persecuzioni o danni gravi, è subordinata all’accertamento (da effettuarsi sulla base di informazioni sulla situazione di quella parte del Paese precise ed aggiornate e provenienti da fonti pertinenti quali l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati e l’Ufficio europeo di sostegno all’asilo) che gli interessati possano recarvisi ed esservi ammessi senza pericolo e se è ragionevole supporre che vi si stabiliscano. Ma, anche, la norma contenuta nella nuova direttiva non è entrata in vigore nel nostro ordinamento e non può, pertanto, costituire un criterio applicabile per escludere il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione[14].

3.2. Lettere a) e b) - individualizzazione del rischio – differenze con il requisito richiesto per il riconoscimento dello status di rifugiato

Al di là della apparente chiarezza delle definizioni normative, non sempre differenziare le ipotesi in cui il rischio comporti il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria è operazione di agevole esecuzione, soprattutto con riferimento alle ipotesi di cui alle lettere a) e b) dell’art 14 del d.lgs n. 251/2007, e successive modifiche.

In relazione a tali ipotesi, la Corte di cassazione ha avuto più volte modo di affermare che “l'esposizione al pericolo di morte o a trattamenti inumani e degradanti, pur dovendo rivestire un certo grado d'individualizzazione (per esempio, per l'appartenenza ad una comunità, ad un gruppo sociale, ad un genere, ad una fazione religiosa o politica etc.) non deve avere i caratteri più rigorosi del fumus persecutionis. La differenza con il rifugio politico si coglie, anche in queste ipotesi, nell'attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale e il pericolo rappresentato»[15].

Già la lettura di questo principio di diritto può porre seri problemi interpretativi in quanto «l’appartenenza ad una comunità, ad un gruppo sociale, ad un genere, ad una fazione religiosa o politica», sono tutti requisiti richiesti anche per il riconoscimento dello status di rifugiato.

La differenziazione dovrebbe sostanzialmente basarsi sul grado di personalizzazione del rischio, distinguendo in sostanza il caso in cui questo possa concretizzarsi in una persecuzione personale diretta a quel singolo richiedente in quanto appartenente ad un determinato gruppo sociale ecc., dal caso in cui il richiedente, in quanto appartenente a quel determinato gruppo sociale o altro, possa correre il rischio di subire trattamenti umani o degradanti o gli altri danni gravi elencati dall’art 14 lettere a) e b).

Avendo riguardo all’applicazione concreta che alcuni giudici di merito hanno fatto di tale principio, il concetto può risultare più chiaro.

La linea seguita dalla sezione specializzata del Tribunale di Roma, ad esempio, in relazione all’appartenenza al genere femminile quale “gruppo sociale” propriamente detto, della quale dà conto la prof. Enrica Rigo nell’articolo «La protezione internazionale alla prova del genere: elementi di analisi e problematiche aperte» in questo numero della Rivista, risponde a tali principi[16].

Muovendo dall’analisi della condizione delle donne nigeriane[17] nella quale si dà conto di una situazione generale che, da un lato, è utile per vagliare la credibilità del racconto, dall’altro può costituire uno dei presupposti per la concessione dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, rispettivamente, a seconda che risulti o venga rappresentato che la richiedente rischi in concreto di essere, o di essere stata, lei personalmente vittima di persecuzione (tratta, mutilazione genitale femminile, matrimonio forzato, ecc.) oppure corra il rischio concreto di esserlo solo in quanto appartenente al genere femminile, senza che risultino atti persecutori diretti a lei personalmente[18].

3.3. Art 14 d.lgs n. 251/2007 lettera a)

Tale norma risponde alla necessità di protezione dalla pena di morte per la quale vige il divieto assoluto sancito dall’art 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la Cedu all’art 2 prevedeva ancora alcune deroghe).

Concerne esclusivamente la pena di morte irrogata dallo Stato e prende in considerazione sia il rischio del richiedente di subire una condanna a morte quando una decisione in tal senso non è stata ancora emessa, sia il rischio del richiedente di essere sottoposto alla pena capitale in esecuzione di una sentenza già pronunciata.

Naturalmente, se la condanna a morte è stata o potrebbe essere comminata per ragioni riconducibili alla Convenzione di Ginevra, al richiedente deve essere riconosciuto lo status di rifugiato in applicazione delle regole e dei principi già esposti.

3.4. Art 14 d.lgs n. 251/2007 lettera b)

Il riferimento è all’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che stabiliscono il divieto assoluto di torture e di pene o trattamenti inumani o degradanti.

In linea con il carattere assoluto della disposizione di cui all’art 3 (ripresa poi dalla Carta), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito che il diritto che in essa trova espressione costituisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche europee[19], la cui violazione integra una lesione non solo alla dignità della persona ma anche e soprattutto al corpo dei principi essenziali che fondano l’Europa come istituzione. Il carattere non derogatorio dell’art. 3 della Cedu (nonché delle altre nome citate) e gli obblighi erga omnes che ne derivano hanno spinto la dottrina a ritenere che la proibizione della tortura e di altre forme di maltrattamento inumano o degradante si collochi al rango dello jus cogens nell’ambito della gerarchia delle fonti del diritto internazionale[20].

La definizione di tortura è contenuta nell’art. 1 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10.12.1984 ed entrata in vigore il 26.6.1987[21], in base al quale «il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate. 2. Tale articolo non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata». All’art 2 precisa: «Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura».

La Corte Edu ha più volte ribadito che, per stabilire se una determinata forma di maltrattamento debba essere definita tortura, si deve tenere presente la distinzione operata dall’art. 3 tra questa e la nozione di trattamenti inumani o degradanti. Deve però essere ribadito che il carattere acuto delle sofferenze è «per la sua stessa natura relativo; esso dipende dalle complessive circostanze del caso concreto, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o psichici nonché, a volte, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute della vittima, ecc.». Oltre alla gravità dei trattamenti, la «tortura» implica una volontà deliberata, come stabilito dalla Convenzione adottata dalle Nu»[22].

Mentre la definizione di tortura è contenuta nella Convenzione sopra citata, meno agevole è la definizione di trattamenti inumani e degradanti.

Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo una pena o un trattamento sono inumani quando – tenuto conto della intensità e della gravità delle lesioni inferte – provocano, anche non intenzionalmente, danni fisici concreti o sofferenze fisiche o mentali molto serie.

Sono invece degradanti i trattamenti o le pene che umiliano o sminuiscono l’individuo e, generando sentimenti di angoscia, inferiorità e paura, ledono gravemente la sua dignità umana[23]. La pubblicità non è ritenuta componente essenziale di un trattamento degradante, dal momento che l’individuo può essere mortificato davanti a sé, oltre che davanti al altri[24].

Affinché una pena o un trattamento possano essere qualificati inumani o degradanti, occorre tuttavia che venga superata una soglia minima di gravità.

Questo giudizio – che è sempre relativo – dipende da uno specifico apprezzamento del caso concreto, che tenga conto altresì della situazione generale del Paese e della situazione particolare dell’interessato. Rilevano, a tal fine, il tipo, la durata e le conseguenza fisiche o mentali subite dalla vittima in rapporto alle sue condizioni personali (quali, per esempio, l’età, il sesso e lo stato di salute della vittima) ed eventualmente anche «lo scopo di umiliare e avvilire l’interessato» che ha determinato il trattamento, anche se, normalmente, l’assenza di questo fine non è risolutivo per escludere la violazione[25].

Come si è visto non è necessario che i soggetti responsabili del danno grave siano agenti istituzionali, ma possono essere anche soggetti privati[26].

Tale principio è stato affermato più volte anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale ha avuto modo di affermare che il timore di un danno grave alla persona direttamente proveniente da un familiare o da soggetti terzi privati è idoneo ad integrare i requisiti di cui all'art. 14 lettera b) del d.lgs 251 del 2007 quando venga dedotta ed allegata la mancanza di protezione da parte delle autorità statuali, incapaci di fronteggiare i fenomeni di violenza privata derivanti da regole tribali o ritorsioni sostanzialmente tollerate; verifica da effettuare anche attivando i poteri officiosi del giudice derivanti dall’obbligo di cooperazione previsto dall’art. 3 d.lgs n. 251/2017[27].

In particolare, in caso di violenza domestica, la Suprema corte ha affermato che in virtù degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati dall’art. 14, lett. b), del d.lgs n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sicché è onere del giudice verificare in concreto se, pur in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un “soggetto non statuale”, ai sensi dell’art. 5, lett. c), del decreto citato, lo Stato di origine sia in grado di offrire alla donna adeguata protezione.[28]

3.4.1. Salute

La giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, in materia di applicazione del principio di non refoulement, aveva avuto più volte modo di affermare che non poteva disporsi l’espulsione di uno straniero verso un Paese dove non riceverebbe cure mediche adeguate che lo esporrebbero ad un serio e grave deterioramento delle sue condizioni di salute[29]. Tale principio è stato costantemente applicato per impedire l’espulsione dello straniero irregolare (situazione nella quale la giurisprudenza del nostro Paese individua i presupposti per riconoscere la protezione umanitaria[30]), ma è stato escluso dalla Corte di giustizia che tale condizione potesse integrare i presupposti per la concessione della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 15 lettera b) della Direttiva Qualifiche (corrispondente all’art. 14 lett.b) del d.lgs n. 251/2007), salvo la privazione di assistenza sanitaria fosse inflitta intenzionalmente al richiedente nel Paese di origine[31].

Tale interpretazione delle Direttiva Qualifiche fornita dalla Corte di giustizia si prestava a critiche, in quanto la norma non prevede che il danno grave, al quale andrebbe incontro il richiedente se tornasse nel Paese di origine sotto forma di trattamenti inumani o degradanti, debba essere inflitto intenzionalmente.

Recentemente, la Grande sezione della Corte di giustizia Ue, con la sentenza del 24 aprile 2018 nella causa C-353/16, nel dispositivo ha posto nuovamente l’accento sull’elemento intenzionale della privazione delle cure mediche adeguate, ma dalla motivazione possono trarsi importanti elementi sul concetto di “intenzionalità” al quale intende fare riferimento la Corte.

Si trattava di un caso nel quale il richiedente proveniva dallo Sri Lanka ed era stato sottoposto nel Paese di origine a gravi torture in ragione della sua appartenenza all’organizzazione “Tigri per la liberazione dell’Eelam Tamil”; aveva, inoltre, documentato che presentava postumi delle torture: soffriva di una grave forma depressiva, mostrava forti tendenze al suicidio e sembrava seriamente determinato a commettere suicidio in caso di ritorno nello Sri Lanka. Il Giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso ritenendo che il richiedente non destasse più l’interesse delle autorità dello Sri Lanka e non rischiasse di subire nuovi maltrattamenti in caso di rientro nel Paese di origine. Proposto appello, il giudice del secondo grado aveva parzialmente accolto il ricorso in conformità del costante orientamento giurisprudenziale, sia della Corte Edu che della Corte di giustizia in materia di obbligo di non refoulement, rilevando che il solo rientro nel paese avrebbe esposto il richiedente a rischio suicidio e che, comunque, in Sri Lanka non vi erano strutture adeguate per la cura delle malattie mentali.

Il richiedente aveva impugnato la decisione ritenendo vi fossero i presupposti per la concessione della protezione sussidiaria.

La Corte di giustizia, investita del rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue, ha ribadito in motivazione che l’art. 15 lettera b) della Direttiva Qualifiche deve essere letto alla luce dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha carattere assoluto, in quanto strettamente connesso al rispetto della dignità umana di cui all’art 1 della Carta[32]; che i diritti garantiti dall’art. 4 corrispondono a quelli garantiti dall’art. 3 della Cedu e che, pertanto, essi devono essere anche alla luce della giurisprudenza della Corte Edu relativa all’art. 3, che ha più volte affermato che la sofferenza dovuta ad una malattia sopravvenuta per cause naturali, fisica o mentale, può ricadere nella portata di tale articolo 3 se è o rischia di essere esacerbata da un trattamento risultante da condizioni di detenzione, da un’espulsione o da altri provvedimenti, per il quale le autorità possono essere ritenute competenti, purché le sofferenze che ne conseguono raggiungano il livello minimo di gravità richiesto da tale articolo 3[33].

Ha aggiunto, poi, che per l’applicazione dell’obbligo di non refulement (sancito dall’art. 4 e dall’art. 19, par. 2, della Carta e dell’art. 5 della Direttiva 2008/2015 – cd. Direttiva Rimpatri – letto alla luce dell’art. 19) la mancanza di cure a cui sarebbe esposta tale persona, una volta espulsa, non deve derivare da atti od omissioni intenzionali dello Stato verso cui è rinviata. Non mette, quindi in discussione, come ritenuto anche dal giudice di ultima istanza del Regno unito, che il richiedente giammai avrebbe potuto essere espulso.

Ribadisce, però, che solo l’omissione intenzionale delle cure giustifica, secondo il ragionamento della Corte di giustizia, il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Per chiarire tale concetto, ai fini dell’enunciazione del principio di diritto, la Corte rileva che per l’interpretazione dell’art. 15, lettera b), della Direttiva Qualifiche è elemento rilevante il fatto che il richiedente sia stato vittima di torture da parte delle autorità del suo Paese e continui a subire, a causa di ciò, rilevanti postumi post-traumatici che potrebbero aggravarsi in modo significativo od irrimediabile in caso di rientro in patria[34], ma l’intenzionalità della privazione di cure mediche adeguate (posto che non è in discussione la carenza oggettiva di strutture adeguate) deve essere valutata alla luce degli strumenti internazionali relativi ai diritti umani, così come previsto dal Considerando 25 della Direttiva Qualifiche.

Nel caso di specie la Corte ritiene debba farsi riferimento all’art. 14 della Convenzione contro la tortura, il quale prevede che gli Stati parte di tale Convenzione hanno l’obbligo di garantire, nei loro ordinamenti, alla vittima di un atto di tortura il diritto al risarcimento che comprenda i mezzi necessari ad una riabilitazione la più completa possibile, e, pertanto, afferma che il giudice del rinvio dovrà «verificare, alla luce di tutti gli elementi d’informazione attuali e pertinenti, segnatamente le relazioni di organizzazioni internazionali e di organizzazioni non governative per la difesa dei diritti dell’uomo, se, nel caso di specie, MP possa essere esposto, in caso di ritorno nel suo Paese d’origine, a un rischio di privazione intenzionale di cure adeguate al trattamento dei postumi fisici o mentali degli atti di tortura commessi dalle autorità di tale Paese. Così avverrebbe se, in circostanze nelle quali, come nel procedimento principale, il cittadino di un Paese terzo rischia di commettere suicidio a causa del trauma derivante dalle torture che gli sono state inflitte dalle autorità del suo paese di origine, risulti chiaro che le stesse autorità, nonostante l’obbligo di cui all’articolo 14 della Convenzione contro la tortura, non siano disposte a garantirne la riabilitazione. Un rischio del genere potrebbe anche presentarsi qualora risultasse che dette autorità abbiano un comportamento discriminatorio in termini di accesso ai servizi di assistenza sanitaria, avente l’effetto di rendere più difficile, per taluni gruppi etnici o alcune categorie di persone, nelle quali rientrerebbe MP, l’accesso al trattamento dei postumi fisici o mentali degli atti di tortura commessi da tali autorità»[35].

L’applicazione di tali principi al caso concreto può risultare non agevole: se, infatti, è chiaro che nel nostro ordinamento la mancanza di una struttura sanitaria nel Paese di origine in grado di offrire cure adeguate darebbe luogo al riconoscimento della protezione umanitaria in ossequio al principio di non refulement (nell’interpretazione costantemente datane dalla Cgue e dalla Corte Edu), che sarebbe sostanzialmente vanificato se a fronte del divieto di espulsione non fosse garantita la possibilità di soggiornare legalmente sul territorio nazionale; non è chiaro, in riferimento al caso trattato dalla Corte, se l’acclarata mancanza di strutture che potrebbero garantire al richiedente la riabilitazione, che conseguentemente lo Stato non è in grado di offrire, potrebbe comportare il riconoscimento della protezione sussidiaria: se, cioè, la circostanza che lo Stato non si doti delle strutture adeguate per garantire la riabilitazione delle vittime di tortura, possa essere considerata, come ritiene chi scrive, una privazione intenzionale delle cure necessarie.

3.5. Art. 14 d.lgs n. 251/2007 lettera c)

Mentre i danni gravi indicati nelle lett. a) e b) riguardano situazioni in cui l’interessato è esposto al pericolo, specifico e personale, di essere condannato a morte o all’esecuzione della pena di morte o di subire tortura o altre forme di trattamenti inumani o degradanti, il danno grave definito nella fattispecie sub c) riguarda il rischio di un danno più generale che si realizza in presenza di «una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile», che deriva «da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

La formulazione della norma, che riprende quella della Direttiva Qualifiche, ha generato numerosi contrasti interpretativi; infatti, sembra richiedere una individualizzazione del rischio anche in una situazione di violenza indiscriminata, cioè generale ed indifferenziata per tutte le persone, indipendentemente dalla loro situazione personale. D’altra parte, anche l’interpretazione del concetto di conflitto armato interno od internazionale ha dato luogo a dibattiti ed incertezze.

3.5.1. Violenza indiscriminata ed individualizzazione del rischio

La sentenza della Corte di giustizia Ue, Grande sezione del 17 febbraio 2009 nel procedimento C-465/07, Meki Elgafaji e Noor Elgafaji contro Staatssecretaris van Justitie (Paesi Bassi), cerca di fare chiarezza su cosa si debba intendere per minaccia grave ed individuale derivante da violenza indiscriminata e sulla apparente contraddittorietà della norma.

La questione fondamentale, sottesa ad entrambe le questioni pregiudiziali poste all’esame della Corte, riguarda il contenuto e l’estensione, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, della nozione di «minaccia grave o individuale alla vita o alla persona»; se, in particolare, affinché si possa ritenere sussistente una simile condizione, è necessario che il richiedente fornisca la prova di essere «interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione». Uno dei quesiti posti riguardava, infatti, se l’art. 15 lettera c) della Direttiva Qualifiche offrisse una tutela sussidiaria che doveva essere ricondotta all’art. 3 della Cedu, oppure avesse un contenuto diverso, da interpretarsi autonomamente.

Preliminarmente, in merito al contenuto di tale nozione rispetto alla fattispecie dell’art. 3 della Cedu, la Corte afferma che l’art. 15, lett. c) ha un «contenuto diverso (…) e deve pertanto essere interpretato autonomamente»dall'art. 3 Cedu, essendo tale norma piuttosto corrispondente alla lett. b) dell’art. 15 della Direttiva Qualifiche, salvo restando il rispetto di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Cedu[36].

Nel merito, la Corte rileva innanzitutto che, mentre le lett. a) e b) dell'art. 15 riguardano fattispecie in cui un soggetto è sottoposto «in modo specifico al rischio di un danno di un tipo particolare» (condanna a morte, esecuzione, tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante), la lett. c) dell'art. 15 fa riferimento ad un «danno più generale», come si evince dall'utilizzo dell'espressione «minaccia […] alla vita o alla persona di un civile», generica se paragonata all'elenco dei danni particolari di cui alle lett. a) e b)[37]; inoltre, pure dal riferimento alla violenza indiscriminata ed conflitto armato interno od internazionale si evince che la norma allude ad una situazione potenzialmente destinata a coinvolgere la generalità degli individui. Il riferimento alla situazione di violenza indiscriminata implica, infatti, che essa possa estendersi ad una persona a prescindere dalla sua condizione personale[38].

Quanto al fatto che la minaccia deve essere, secondo il testo dell'art. 15, lett. c), “individuale”, la Corte rileva che, premesso tutto quanto sopra, il termine “individuale” deve essere interpretato nel senso che la minaccia può riguardare «danni contro civili, a prescindere dalla loro identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto in corso […] raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all'art. 15, lett. c), della Direttiva»[39].

La Corte afferma, poi, che tale interpretazione, che assicura una autonoma sfera di applicazione all’art 15, lett. c), della direttiva, non viene esclusa dal tenore letterale del considerando 26 della Direttiva Qualifiche (riprodotto nel considerando 35 della nuova Direttiva Qualifiche), in base al quale «I rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un Paese di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave», affermando che l’utilizzo dell’espressione «di norma», fa salvo il caso in cui vi sia «una situazione eccezionale, che sia caratterizzata da un grado di rischio a tal punto elevato che sussisterebbero fondati motivi di ritenere che tale persona subirebbe individualmente il rischio in questione»[40].

Nell'esame di una domanda di protezione internazionale, ai fini del riconoscimento di una protezione sussidiaria l’applicabilità della fattispecie in esame dipende dal complesso dei due fattori di rischio di danno grave (individuale o generalizzato) cosicché «tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria»[41]. E viceversa.

La Corte ha in questo senso affermato che, ai fini della valutazione della necessità di riconoscere la protezione sussidiaria, occorrerà valutare: 1) l'estensione geografica della situazione di violenza indiscriminata e l'effettiva destinazione del richiedente in caso di ritorno nel Paese interessato;[42] 2) il fatto che il richiedente abbia già subito un danno grave o una minaccia diretta di danno grave: in tal caso, il livello di violenza indiscriminata richiesto per poter beneficiare della protezione sussidiaria può essere meno elevato.[43]

La Corte enuncia, pertanto il seguente principio di diritto: “– l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale; – l’esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti impegnate con una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali viene deferita una decisione di rigetto di una tale domanda, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella Regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia»[44].

La Corte di cassazione ha fatto più volte applicazione di tali principi ribadendo che il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art 14, lettera c), non è subordinato alla prova che il richiedente sia interessato in modo specifico dalla minaccia grave alla vita od alla persona in ragione di elementi peculiari della sua situazione personale. Non è necessario, cioè, che il richiedente asilo «rappresenti una condizione caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio quando è possibile evincere dalla situazione generale del paese che la violenza è generalizzata e non controllata»[45].

3.5.2. Nozione di “conflitto armato interno”

Anche questo tema è stato portato all’attenzione della Corte di giustizia dal Conseil d’État del Belgio che ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni preliminari:

- se l’art. 15, lett. c), della Direttiva Qualifiche debba essere interpretato nel senso che assicuri una protezione unicamente in una situazione di “conflitto armato interno”, quale interpretata dal diritto internazionale umanitario (Diu), in particolare con riferimento all’art 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra[46];

- nell’ipotesi in cui la nozione di “conflitto armato interno” debba essere interpretata in modo autonomo rispetto all’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra, quali siano i criteri da applicare al fine di valutare l’esistenza di un simile “conflitto armato interno”.

La Corte di giustizia, Quarta sezione, con la sentenza del 30 gennaio 2014, nella causa C-285/12, Aboubacar Diakité contro Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (Belgio), ritiene rilevante per rispondere alla questione pregiudiziale il fatto che il legislatore europeo abbia deciso di adottare una dizione che «differisce dalle nozioni poste a fondamento del diritto internazionale umanitario», utilizzando l’espressione «conflitto armato interno o internazionale» e non quelle di «conflitti armati internazionali» e «conflitti armati che non presentano carattere internazionale» che compaiono, invece, nel diritto internazionale umanitario[47].

Ciò significa, in particolare, secondo il giudice europeo, che «il legislatore dell’Unione ha auspicato concedere la protezione sussidiaria non soltanto in caso di conflitto armato internazionale e di conflitto armato che non presenta carattere internazionale, così come definiti dal diritto internazionale umanitario, ma, altresì, in caso di conflitto armato interno, purché tale conflitto sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata»; per completare la fattispecie, pertanto, «non è necessario (…) che sussistano tutti i criteri ai quali si riferiscono l’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra (…)»[48].

Infatti, la Corte evidenzia la diversità di obiettivi cui mirano i due regimi: «il diritto internazionale umanitario e [la] protezione sussidiaria previst[a] dalla Direttiva perseguono scopi diversi e istituiscono meccanismi di protezione chiaramente separati»[49] Il primo «è in stretta correlazione con il diritto penale internazionale» e mira segnatamente ad offrire «nella zona di conflitto una protezione alle popolazioni civili limitando gli effetti della guerra sulle persone e sui beni»; una modalità di protezione che resta estranea ai meccanismi della protezione sussidiaria e soprattutto non prevede di concedere una protezione internazionale «a determinati civili che si trovano al di fuori della zona di conflitto e del territorio delle parti al conflitto», ossia non mira «ad identificare le situazioni in cui una tale protezione sarebbe necessaria e dovrebbe essere concessa dalle autoritàcompetenti degli Stati membri», che è invece scopo primario del regime della protezione sussidiaria[50].

La Corte, quindi, sottolinea che i criteri per individuare l’esistenza del danno grave in presenza di un conflitto armato interno devono essere considerati indipendenti dall’integrazione dei requisiti del diritto internazionale umanitario[51]: «Di conseguenza, in assenza di qualsivoglia definizione, all’interno della Direttiva, della nozione di conflitto armato interno, la determinazione del significato e della portata di questi termini deve essere stabilita, conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte[52], sulla base del loro significato abituale nel linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in cui sono richiamati»[53].

Da tale punto di vista la Corte ritiene che «la nozione di conflitto armato interno si riferis[ca] ad una situazione in cui le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si scontrano tra loro»[54], che potrà portare al riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della lettera c) «nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri … [raggiungano un] grado di violenza indiscriminatatalmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel Paese in questione o, se del caso, nella Regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio un rischio effettivo di subire laminaccia» grave alla vita od alla persona prevista dalla norma[55].

La Corte ribadisce, poi, il principio già enunciato nella sentenza Engalfaji citata più sopra, secondo cui «tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria», ed afferma un importante ulteriore principio per cui «l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto [non devono formare] oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione»[56].

La Corte enuncia, quindi, il seguente principio di diritto: «… si deve ammettere l’esistenza di un conflitto armato interno, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, quando le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o quando due o più gruppi armati si scontrano tra loro, senza che sia necessario che tale conflitto possa essere qualificato come conflitto armato che non presenta un carattere internazionale ai sensi del diritto internazionale umanitario e senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione».

È, pertanto, il grado di violenza indiscriminata e la sua idoneità a costituire una minaccia effettiva e concreta alla vita del civile, per il solo fatto che si trovi in un determinato territorio, a costituire il parametro che consente di ritenere sussistente il conflitto interno previsto dall’art. 15, lettera c), della Direttiva.

Il principio suddetto ha trovato applicazione in numerose pronunce della Suprema corte[57], la quale ha avuto modo di sottolineare come la violenza indiscriminata possa essere determinata anche da scontri tra soggetti e/o gruppi privati (conflitti interetnici, religiosi, tra comunità, bande criminali, ecc.) che non vengano di fatto controllati dall’autorità statuale[58]. «Al fine di rientrare nell’ambito di applicazione del citato art. 14, lettera c), … [è] sufficiente tratteggiare una situazione nella quale alla violenza diffusa ed indiscriminata non sia contrapposto alcun anticorpo concreto dalle autorità statuali»; il giudice dovrà, pertanto, verificare, in ossequio al dovere di cooperazione istruttoria di cui all’art 8, comma 3, del d.lgs n. 25/2008, «la capacità di fronteggiare la violenza diffusa individuale e collettiva da parte delle autorità … statuali»[59]-[60].

3.5.3. Obbligo del giudice di esaminare in ogni caso la situazione del Paese di origine

Il comma 3, dell’art. 8, del d.lgs n. 25/2008 stabilisce che «Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati».

La Suprema corte ha univocamente ribadito in numerose pronunce, che il giudice, nel valutare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, deve sempre procedere ad esaminare la situazione del Paese, onde verificare la sussistenza del diritto al riconoscimento della protezione internazionale, senza limitarsi a valutare le ragioni che spinsero il richiedente ad abbandonarlo, ed anche a prescindere da queste[61] e dalla stessa credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo[62].

4. Clausole di esclusione, di revoca e cessazione

Le cause di esclusione sono previste dall’art. 16 del d.lgs n. 251/2007che riproduce l’art. 17 della Direttiva Qualifiche e della nuova Direttiva Qualifiche.

Le ipotesi sub a) e c) della norma coincidono con quelle previste per la esclusione dello status di rifugiato. Anche la clausola di esclusione sub b) – che riguarda il richiedente che ha commesso reati gravi – è analoga a quella prevista per lo status di rifugiato, differenziandosene solo laddove prende in considerazione non solo i reati gravi commessi all’estero (sia nel Paese di origine o di residenza abituale sia in altri Stati), ma anche i reati gravi commessi nel territorio nazionale. Le fattispecie sub d) e d)bis, invece, riconducono tra i motivi di esclusione i casi che in materia di status di rifugiato sono indicati tra i motivi di diniego.

Per una compiuta disamina si rimanda, pertanto, all’articolo di Stefano Celentano «Lo status di rifugiato e l’identità politica dell’accoglienza» in questo numero della Rivista.

Qui preme sottolineare che in virtù del carattere inderogabile del principio di non refoulement, previsto dall’art. 3 Cedu e dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea e dall’art 33 della Convenzione di Ginevra[63], nel caso sussista il rischio che il richiedente in caso di rimpatrio possa subire la pena di morte o trattamenti inumani o degradanti, dovrà essergli concessa comunque la protezione umanitaria[64].

Tale principio è stato ribadito più volte dalla Corte di giustizia. In particolare con la sentenza della Grande sezione del 9 novembre 2010, nei procedimenti riuniti C-57/09 e C-101/09, la Corte ha affermato che «gli Stati membri possono riconoscere un diritto d’asilo in forza del loro diritto nazionale ad una persona esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12, n. 2, di tale Direttiva».

Le cause di revoca sono previste dall’art 18 del d.lgs n. 251/2007 e corrispondono sostanzialmente a quelle previste per lo status di rifugiato, mentre l’art 15 del d.lgs cit., prevede una sola clausola di cessazione che sostanzialmente corrisponde a quelle previste dall’art 9, lettere e) ed f), previste per lo status di rifugiato.

Si rimanda pertanto all’articolo di S. Celentano citato.

Conclusioni

Nell’articolo si è cercato di porre in evidenza gli aspetti più critici, dal punto di vista interpretativo, della disciplina relativa alla protezione sussidiaria, ricordando che lo sforzo interpretativo del giudice deve esser condizionato dalla necessità giuridica di giungere alla decisione maggiormente orientata alla Costituzione, alla Cedu ed alla Carta Ue.

[1] In Guce 30.9.1994, L 304, entrata in vigore il 20.10.2004.

[2] V. Considerando 6 della Direttiva: «Lo scopo principale della presente Direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall'altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri».

[3] V. Considerando 5 della Direttiva: «Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere precisano che lo status di rifugiato deve essere completato da misure relative a forme sussidiarie di protezione che offrano uno status appropriato a chiunque abbia bisogno di protezione internazionale».

[4] Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (approvata dall'assemblea delle Nazioni unite il 10 dicembre del 1948), Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (come modificata dal Protocollo 11 e 14), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, divenuta giuridicamente vincolante nell’Ue con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, a dicembre 2009, ed ora ha lo stesso effetto giuridico dei trattati dell’Unione, Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10.12.1984, Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, adottato dall’Onu a New York il 18.12.2002.

[5] Corte giustizia, Quarta sezione, sentenza del 30 gennaio 2014, nella causa C-285/12, Aboubacar Diakité contro Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (Belgio).

[6] Sull’evoluzione storica degli strumenti legislativi e pattizi in materia di protezione internazionale si veda Stefano Celentano «Lo status di rifugiato e la politica dell’accoglienza» in questo numero della Rivista.

[7] Considerando 8 della direttiva 2011/95/Ue.

[8] In Guce 20.12.2011, L 337/9.

[9] V. considerando 15 della nuova Direttiva Qualifiche: «La presente direttiva non si applica ai cittadini di Paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale».

[10] La Suprema corte ha avuto modo più volte di affermare che il diritto di asilo costituzionale viene a configurare la categoria generale entro la quale trovano collocazione tutte le forme di protezione incluse nella nozione di protezione internazionale, ciascuna delle quali rappresenta solo una parte della più ampia tutela riconosciuta dall’art. 10, 3° co., Cost.: Cass. 4455 del 2018, 10686 del 2012, 16362 del 2016.

[11] Per gli aspetti comuni tra lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria in ordine ai soggetti che possono beneficiarne, ai soggetti responsabili della persecuzione o del danno grave ed ai soggetti che offrono protezione, si rimanda all’articolo di Stefano Celentano cit., salvo l’analisi di alcuni aspetti particolari che verranno trattati nel presente scritto.

[12] Così Cass. sez. un. Ordinanza n. 19393 del 2009, in tema di protezione umanitaria nella quale si afferma «L'identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali».

[13] Si veda ad esempio Cass. 15.12.2009 n. 26253, ma anche a Corte Edu, 23.2.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, sentenza che ha sanzionato l’Italia per il respingimento in alto mare dei profughi eritrei e somali avvenuto nel maggio 2008 - ha equiparato il respingimento alla frontiera o in alto mare all’espulsione di chi si trova già sul territorio nazionale. La Corte ha pertanto condannato l’Italia – oltre che per violazione del divieto di espulsioni collettive (di cui all’art. 4, Protocollo aggiuntivo n. 4, Cedu) e per violazione dell’art. 3, Cedu (in quanto i ricorrenti erano stati esposti al rischio di essere sottoposti a maltrattamenti in Libia e di essere rimpatriati in Eritrea e Somalia) – anche per violazione del diritto ad un effettivo ricorso giurisdizionale contro il respingimento e, implicitamente, del diritto potenziale di presentare domanda di asilo.

[14] V. Cass. civ., sez. 6, ordinanza n. 2294/2012: «In tema di protezione internazionale dello straniero, il riconoscimento del diritto ad ottenere lo status di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso, nel nostro ordinamento, in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d'origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, atteso che tale condizione, contenuta nell'art. 8 della Direttiva 2004/83/Ce, non è stata trasposta nel d.lgs n. 251 del 2007, essendo una facoltà rimessa agli Stati membri inserirla nell'atto normativo di attuazione della Direttiva», nello stesso senso v. anche Cass. Sez. 6 - 1, Sentenza n. 8399 del 2014.

[15] Cass. n. 6503 del 2014; nello stesso senso v. Cass. n. 22111/2014.

[16] Si rinvia alla giurisprudenza citata nell’articolo della prof.ssa Rigo, in questo numero della Rivista, v. anche decreto emesso il 13.4.2018 nel procedimento n. 79656/2017 R.G. e decreto emesso il 20.4.2018 nel procedimento n. 81169/2017 R.G.

[17] In motivazione si legge: «Le donne e le ragazze nigeriane sono soggette a traffico sessuale in tutta Europa, dove sono sottoposte alla prostituzione forzata, mentre il governo della Nigeria non soddisfa pienamente gli standard minimi per l'eliminazione del traffico, anche se sta facendo sforzi per contrastarlo … . La perdita del sostegno della famiglia o della comunità sembra essere un tratto comune a molte donne trafficate. In uno studio condotto nel Regno unito e in Nigeria sulla tratta delle donne nigeriane (2012), Cherti e al. osservano: «Le persone trafficate del nostro campione hanno avuto vite diverse ma hanno in comune un’esperienza scatenante o nell’infanzia, ad esempio l’essere rimaste orfane, che le ha portate ad essere prive dell’appoggio della famiglia o della comunità. A causa dell’accesso limitato all’istruzione, al lavoro o alla protezione dalla violenza, non erano in grado di mantenersi ed erano vulnerabili alle offerte di “aiuto” fatte dai trafficanti […]». «In genere le donne trafficate provengono da famiglie numerose, povere, disoccupate o sottoccupate, che si trovano ad affrontare difficoltà economiche […]». (v. rapporto Easo cit.) ... . L’Unodc osserva: «La tratta di giovani donne dalla Nigeria in Europa a scopo di sfruttamento sessuale è uno dei flussi di tratta più persistenti ... L’Italia e la Spagna sembrano essere le destinazioni principali delle nigeriane trafficat>...»(Easo - European Asylum Support Office: Nigeria; Sex trafficking of women, October 2015 (available at ecoi.net) www.ecoi.net/file_upload/90_1445949766_2015-10-easo-nigeria-sex-trafficking.pdf)».

«È, altresì, indubbio che in Nigeria sussista un elevato rischio che le donne vengano sottoposte alla pratica della mutilazione genitale femminile, che è notevolmente diffusa in tale Paese. Gli atti di mutilazione genitale femminile costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e, se accertata la loro specifica riferibilità alla persona della richiedente, costituiscono il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2 e seguenti del d.lgs 19.11.2007, n. 251, attuativo della Direttiva 2004/83/Ce, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Pertanto, anche in assenza di persecuzioni personali, il rischio della donna di essere sottoposta a mutilazioni genitali insieme all’impossibilità per la stessa di trovare protezione nelle autorità locali possono essere motivi fondanti il riconoscimento della protezione sussidiaria. L’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), già nel maggio del 2009, aveva evidenziato la gravità e la pericolosità della mutilazione genitale femminile, praticata spesso su neonate o bambine che non abbiano ancora compiuto i 15 anni di età, con conseguenze estremamente negative, fisiche e mentali, di lungo periodo, giungendo a considerarla come “una forma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, sia fisico che mentale, e costituisce fondato motivo di persecuzione”… . È una forma di trattamento inumano e degradante, equiparato all’atto della tortura, come affermato dalla giurisprudenza internazionale e dalla dottrina giuridica, tra cui molti organi delle Nazioni unite per il monitoraggio sui trattati, le Procedure speciali del Consiglio dei diritti umani e la Corte europea dei diritti dell’uomo… . La mutilazione genitale femminile trova la propria matrice nelle tradizioni culturali e nelle credenze religiose, ed è legata all’etnia, al grado di istruzione, all’area di provenienza, nonché alle variazioni storiche del Paese. L’indagine dell’Ndhs, Nigeria Demography and Health Survey 2013, ha mostrato che essa è strettamente legata al gruppo etnico di provenienza e viene praticata in ragione dell’età. … Occorre, infine, evidenziare che il rischio di essere sottoposti a tale pratica è ulteriormente aggravato dall’impunità che regna nel territorio nigeriano da lungo tempo. … nonostante l’avvenuta criminalizzazione federale, le autorità non hanno in concreto intrapreso alcuna azione legale per frenare tale pratica …». V. Trib Roma decreto del 20.4.2018 nel procedimento n. 81169/2017, cit.

[18] V. il Considerando 3° della nuova Direttiva Qualifiche: «È altresì necessario introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall’”appartenenza a un determinato gruppo sociale”. Per la definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto, degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni giuridiche e consuetudini, che comportano ad esempio le mutilazioni genitali, la sterilizzazione forzata o l’aborto coatto, nella misura in cui sono correlati al timore fondato del richiedente di subire persecuzioni».

[19] Sentenza della Corte Edu in causa Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, ricorso n. 14038/88, Sessione Plenaria, par. 88, disponibile sul sito www.echr.coe.int.

[20] Arai-Yokoi, Grading Scale of Degradation: Identifying the Threshold of Degrading Treatment or Punishment under Article 3, in Netherlands Quarterly of Human Rights, vol. XXI, 2004, p. 386.

[21] La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la L. n. 489/1988, ma ne è stata data una parziale attuazione solo recentemente con la legge 14/07/2017 n. 110, Gu 18/07/2017, a seguito delle sentenze della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che hanno condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante i noti plurimi fatti avvenuti durante il G8 di Genova del 2001, nella Caserma del reparto mobile di Bolzaneto e nel corso dell’irruzione alla Diaz, dove secondo i giudici le azioni della Polizia ebbero «finalità punitive» con una vera e propria «rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime». La Corte parlò quindi di «tortura» e invitò l’Italia a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte» (V. Corte Edu, IV sez., sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, che costituisce la prima condanna della Corte Edu in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di Polizia italiane in occasione delle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001, altre ne sono seguite il 22 giugno 2017 ed il 26 ottobre 2017).

[22] V., per tutte, Corte Edu, IV sez., sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia citata.

[23] Sentenza della Corte Edu in causa Price c. Regno Unito, 10 ottobre 2001, ricorso n. 33394/96, Terza Sezione, paragrafi 24-30.

[24] Sentenza della Corte Edu in causa Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, par. 32.

[25] Per un escursus della giurisprudenza della Corte Edu in particolare in tema di applicazione dell’art 3 della Cedu, si veda Alessia Gori in www.altrodiritto.unifi.it/rivista/2015/gori/cap2.htm.

[26] Così, ad esempio, nella sentenza A. c. Regno Unito, 23.09.1998, riferimento n. 25599/94, par. 20, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che vi fosse stata una violazione dell'art. 3 della Convenzione, nella circostanza in cui il ricorrente era stato picchiato violentemente dal patrigno e questi avesse addotto come giustificazione la necessità di applicare un castigo ragionevole. Questo caso rappresenta un'applicazione orizzontale della norma in analisi, che offre una tutela contro i maltrattamenti anche quando gli autori sono privati ai danni di altri privati. La Corte ha ritenuto responsabile del trattamento disumano e degradante lo Stato convenuto per il fatto di non aver saputo tutelare il giovane dai maltrattamenti subiti da un privato e vietati dalla norma convenzionale;

[27] V. Cass. ordinanza n. 0319/2017, ordinanza n. 16356/2017, ordinanza n. 23604/2017.

[28] Cass. ord. n. 12333/2017; sempre sulla base degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul, la Suprema corte ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna in caso di matrimonio forzato: Cass. sent. n. 28152/2017.

[29] «Gli articoli 5 e 13 della Direttiva 2008/115/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, letti alla luce degli articoli 19, paragrafo 2, e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della stessa direttiva devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale:

- che non conferisce effetto sospensivo a un ricorso proposto contro una decisione che ordina a un cittadino di paese terzo affetto da una grave malattia di lasciare il territorio di uno Stato membro, quando l’esecuzione di tale decisione può esporre tale cittadino di paese terzo a un serio rischio di deterioramento grave e irreversibile delle sue condizioni di salute, e

- che non prevede la presa in carico, per quanto possibile, delle necessità primarie di detto cittadino di paese terzo, al fine di garantire che le prestazioni sanitarie d’urgenza e il trattamento essenziale delle malattie possano effettivamente essere forniti nel periodo durante il quale tale Stato membro è tenuto a rinviare l’allontanamento del medesimo cittadino di paese terzo in seguito alla proposizione di tale ricorso.» Corte di giustizia Ue, Grande sezione, sentenza del 18 dicembre 2014, nella causa C-562/13.

[30] V. ad esempio Cassazione, sez. VI, ord. n. 15466/2014.

[31] «l’articolo 15, lettera b), della direttiva 2004/83 deve essere interpretato nel senso che il danno grave da esso definito non ricomprende una situazione in cui il trattamento inumano o degradante, come contemplato dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale, che un richiedente affetto da una grave malattia potrebbe subire in caso di ritorno nel suo Paese d’origine, sia dovuto all’assenza di terapie adeguate in tale Paese, senza che sia in discussione una privazione di assistenza sanitaria inflitta intenzionalmente a tale richiedente», sentenza della Corte di giustizia Ue, Grande sezione, del 18 dicembre 2014, nella causa C-542/2013, par. 41.

[32] Nello stesso senso v. sentenze del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, C 404/15 e C 659/15 PPU, EU:C:2016:198, punti da 85 a 87, nonché del 16 febbraio 2017, C.K. e a., C 578/16 PPU, EU:C:2017:127, punto 59.

[33] V. punto 38 della sentenza in commento e v., in tal senso, Corte Edu, 13 dicembre 2016, Paposhvili c. Belgio, CE:ECHR:2016:1213JUD 004173810, §§ 174 e 175; sentenza del 16 febbraio 2017, C.K. e a., C 578/16 PPU, EU:C:2017:127, punto 68.

[34] Punto 47 della motivazione.

[35] Punto 57 della motivazione.

[36] Par. 28.

[37] Par. 32, 33, 34.

[38] Par. 34.

[39] Par. 35.

[40] Par. 37.

[41] Par. 39.

[42] Ricordiamo che non è necessario, nel nostro ordinamento, che il rischio effettivo di subire il danno grave si estenda all’intero territorio del Paese di origine, in quanto lo Stato italiano non si è avvalso della facoltà prevista dall’art. 8 della Direttiva 2004/83/Ce, v. par. 3.1. in questo articolo.

[43] Par. 40.

[44] Si veda anche www.asiloineuropa.it/wp-content/uploads/2016/10/Elgafaji_C465_2007.pdf.

[45] Cass. ordinanza n. 15466/14; nello stesso senso Cass. ord. n. 15466/2014, ord. n. 6503/2014, sent. n. 22111/2014, sent. n. 6503/2014, ord. n. 18675/2017, ord. n. 16356/2017, ecc..

[46] L’articolo 3, comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, rispettivamente, la Convenzione (I) per migliorare la sorte dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; la Convenzione (II) per migliorare la sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate di mare; la Convenzione (III) relativa al trattamento dei prigionieri di guerra e la Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra (in prosieguo: le «quattro convenzioni di Ginevra»), prevede: «Nel caso in cui un conflitto armato che non presenti carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti in conflitto sarà tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti:

1) Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità (…).

A questo scopo, sono e rimangono vietate (…) nei confronti delle persone sopra indicate:

a) le violenze contro la vita e l’integrità corporale (…)
(…)

c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;

L’articolo 1 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali (Protocollo II), dell’8 giugno 1977, così recita:

«1. Il presente Protocollo, che sviluppa e completa l’articolo 3 comune alle [quattro Convenzioni di Ginevra] del 12 agosto 1949 senza modificarne le condizioni attuali di applicazione, si applicherà a tutti i conflitti armati che non rientrano nell’articolo 1 del Protocollo aggiuntivo alle [quattro Convenzioni di Ginevra] relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I), e che si svolgono sul territorio di un’Alta Parte contraente fra le sue forze armate e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del suo territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate, e di applicare il presente Protocollo.

2. Il presente Protocollo non si applicherà alle situazioni di tensioni interne, di disordini interni, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi, che non sono considerati come conflitti armati».

[47] Par. 20.

[48] Par. 21.

[49] Par. 24.

[50] Par. 23, 24 e 25.

[51] V. www.asiloineuropa.it/wp-content/uploads/2016/10/Sent.-Diakit%C3%A9-C-285.12.pdf.

[52] sentenze del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C 549/07, Racc. pag. I 11061, punto 17, e del 22 novembre 2012, Probst, C 119/12, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20.

[53] Par. 27.

[54] Par. 28.

[55] Par. 30.

[56] Par. 35.

[57] Si veda la giurisprudenza citata nella nota 45 in questo articolo.

[58] Cfr. Cass. ord. n. 8281/2013, sent. N. 6503/2014.

[59] Cass. ord. n. 15466/2014 in motivazione.

[60] A tal proposito è opportuno sottolineare, visto il dibattito in proposito nella giurisprudenza di merito e le divergenze che si riscontrano nelle diverse pronunce, come le pronunce della Cassazione citate in materia di violenza indiscriminata e di obbligo del giudice di verificare la situazione del Paese «a fronte di una incontestata situazione di violenza indiscriminata in diverse aree e regioni della Nigeria» (Cass. n. 15466/2014) avessero ad oggetto annullamenti di rigetti di ricorsi proposti da richiedenti provenienti da diverse zone della Nigeria: Jos, stato di Plateu (Cass. n. 15466/2014, 18675/2017), Lagos (Cass. n. 16356/2017), Edo State-Delta del Niger (Cass. n. 22111/2014, Cass. 17672/2017 ha invece confermato un provvedimento che concedeva la protezione sussidiaria per violenza indiscriminata a richiedente che proveniva dall’Edo State).

[61] Cass. n. 18675/2017, 15466/2014, 16356/2017, 22111/2017.

[62] Cass. ord. n. 17576 del 27/07/2010, ord. n. 10202/2011, ord. n. 26921/2017.

[63] Richiamato dagli artt. 21 delle Direttive Qualifiche e dall’art. 20, d.lgs n. 251/2007 e già attuato nel nostro ordinamento giuridico con l’art. 19, comma 1, d.lgs n. 286/1998.

[64] Si vedano gli articoli in tema di protezione umanitaria in questo numero della Rivista.